Maldicenza, denigrazione, calunnia è il costante atteggiamento della stampa e degli altri mezzi di comunicazione di massa verso gli innocenti, i pregiudicati (da tutelare fino a giudizio compiuto).
Ogni persona, anche il colpevole, ha il diritto al rispetto, ala riservatezza, alla comprensione, alla possibilità di guadagnare la stima della comunità.
Calunniate, calunniate! Ne resterà sempre qualcosa. Massima attribuita a Voltaire ma pronunciata dal filosofo inglese Bacone: Audacte calumniare, sempre quidquid haeret.
Si chiedeva il Card. Pellegrino nel 1973, durante una sua conferenza tenuta a Bologna: “Quale l’idea centrale del Concilio Vaticano II?”. Un’idea attorno a cui si polarizzano se non tutti almeno alcuni tra i più significativi tra fatti e idee che hanno contribuito a “fare” il concilio e che indicano le vie da battere perché il concilio non resti lettera morta.
Questa idea dominante ritengo di poterla ravvisare nella comunione.
Nel suo volume pubblicato nel 1968, “La corresponsabilità dans l’église”, il Card. Suenens, uno dei quattro moderatori, s’era posta una domanda analoga: qual è il genere di vita più ricco di conseguenze pastorali che si deve al concilio? E dava un’analoga risposta: “La riscoperta del popolo di Dio come un tutt’uno, come globalità e per conseguenza la corresponsabilità che ne deriva per ciascuno dei suoi membri”.
Fondamento ontologico della corresponsabilità, la “comunione” è l’idea dominante, il germe di vita che emerge dal Concilio e nel postconcilio.
La Lumen Gentium, che rimane il documento essenziale dell’ecclesiologia conciliare, pone la comunione come centro e scopo vitale della chiesa “la comunione in Cristo come segno e strumento dell’intima comunione con dio e dell’unità di tutto il genere umano”.
Radice ultima di questa comunione è la SS.ma Trinità, dove la chiesa trova la sua espressione ineffabile e profonda, perché si presenta come popolo adunato nell’unità dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo (S. Cipriano).
Correzione fraterna: perché? Non è che ognuno è responsabile di se stesso, senza dover dar ragione a nessuno del suo operato?
La chiesa è una comunità i cui membri sono compromessi gli uni gli altri (amarsi scambievolmente, direbbe S. Paolo) e per questo il peccato anche se commesso individualmente, incide sulla vita della comunità (“vede come si amano”). Nessuno vive isolatamente nella comunità ecclesiale vera.
La chiesa è comunità di salvezza ove i fratelli sono impegnati e responsabilizzati a vicenda. La correzione è una pratica preziosa di mutuo aiuto per scoprire e superare i propri difetti e poter insieme camminare nella perfezione cristiana. Perché possa esistere questa correzione “fraterna” occorrono delle premesse: comprensione, corresponsabilità, accettazione di se stesso e degli altri.
Queste premesse saranno possibili quando vi sarà l’amore, principio costitutivo della comunità ecclesiale e sintesi dei comandamenti del Signore e costante invito di Cristo. La comunità di amore è sempre comunità di riconciliazione. E l’amore scambievole è l’unico debito che abbiamo, ricorda san Paolo. Correzione non significa condanna dell’errore altrui, ma aiuto al fratello perché possa uscire dalla sua situazione di peccato (e Gesù tratta di peccato grave, non di quisquilie quotidiane della vita comunitaria). Per questo la prima iniziativa è quella del dialogo. Un dialogo innanzitutto personale e al più tra amici e in extremis comunitario.
La correzione deve quindi scaturire dall’amore che deve ordinare la vita di ogni credente nel suo rapporto con il prossimo di cui ci sentiamo responsabili per la comunione che ci lega in Cristo.
Chi commette la colpa è un “fratello” e ad un fratello ci presentiamo a cuore aperto. Se il fratello ci ascolta è per noi un guadagno.
Il brano del vangelo conclude on un invito alla preghiera e alla preghiera comunitaria: dove due o tre … ed ancora ad una preghiera che sia concorde. Di fronte all’ostinazione degli erranti e dei peccatori non rimane che la preghiera. Non un ossequioso silenzio carico di superbia, ma una interiore disposizione di amore che soffre, che supplica, che intercede e null’altro desidera che si ravvivi la comunione con il fratello.
Il santo curato d’Ars verso i suoi parrocchiani più induriti, il santo della forca, san Giuseppe Cafasso, verso i suoi condannati a morte, ci insegnano quanto può la forza della preghiera accompagnata dai digiuni e dai sacrifici. Nessuno di noi sia inerte di fronte al fratello colpevole, ci ammonisce Ezechiele: “della sua morte chiederò conto a te”. Fratelli, dice san Paolo, non abbiate alcun debito se non quello di un amore vicendevole.