Il capitolo sesto, 69 versetti, è chiamato il discorso del pane di vita. Un discorso in cinque parti: cinque anelli che si agganciano l’un l’altro in una meravigliosa struttura chiasmatica. Non è il caso di analizzare lo stile e la composizione letteraria finemente curata.
È bene invece cogliere la logica dello schema che intende manifestare la vera identità del Cristo. La liturgia la riprende in cinque puntate: Cristo che come Eliseo moltiplica il pane, Cristo che come Mosè offre il vero nutrimento celeste, Cristo che come per Elia è pane di vita, Cristo che nell’eucaristia è carne e sangue, Cristo che solo ha parole di vita eterna. Eventi biblici che indicano in Gesù il Messia promesso.
In quel tempo: la folla di buon mattino, per via terra, aggirato il lago di Galilea, passò il Giordano e raggiunse Gesù nel deserto, al di là di Betsaida, incurante del vitto e dell’alloggio, avida di ascoltare la parola del maestro. E Gesù scese dalla barca e vista la folla, osserva Matteo, si commosse fino alle viscere. Una compassione rivolta ai corpi malati, ma soprattutto compassione spirituale, perché scrive Marco, erano pecore senza pastore.
E si mise ad insegnare loro molte cose e si fece sera. La folla non si stancava e non si staccava.
Gli apostoli, uomini pratici, preoccupati pensarono di richiamare Gesù alla realtà. “Maestro, è tardi, siamo isolati. Licenzia la folla perché possa raggiungere il villaggio in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti”.
E Gesù, provocatoriamente, rispose loro: “date voi stessi da mangiare”. Ma ti rendi conto di ciò che ci chiedi? Scherzi? Abbiamo solo cinque pani e due pesci. Fai un po’ il calcolo: non bastano nemmeno duecento denari pari a 4800 porzioni. E qui sono cinque mila persone senza contare donne e bambini.
Tutt’attorno si stendeva la prateria in pieno rigoglio primaverile; c’era molta erba. Era vicina la pasqua, la festa dei giudei. E fattasi sera…, fattili sedere…
Natura deserta, data primaverile, ora tarda, atteggiamento conviviale, nel linguaggio simbolico di Giovanni tutto sembra preludere il mistero pasquale e prefigurare il convitto eucaristico.
Come il padre di famiglia nella cena giudaica, Gesù presi i pani, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti. E lo stesso fece con i pesci.
E tutti ne furono saziati.
Il prodigio richiama alla mente degli ebrei la manna di Mosè, il pane e l’olio inesauribili dei profeti Elia e Eliseo, la moltiplicazione dei pani del tempio celeste. Non ci voleva altro per mandare in visibilio il popolo di Dio che esclama: questi è veramente un profeta, il Messia che aspettiamo.
Un fatto unico, eccezionale, carico di significato. Un fatto descritto variamente per ben sei volte in Matteo, in Marco, in Luca e in Giovanni. Un miracolo che deve aver inciso profondamente nell’animo degli apostoli e delle prime comunità cristiane.
E, dopo il lungo discorso di addio, nell’ultima cena, Gesù riprende quegli stessi gesti e ci dona il pane di vita: l’eucaristia, euloghein, benedizione o eucharestein, rendimento di grazie, confessione.
Cinque gesti di Gesù nella moltiplicazione, cinque i gesti di Gesù nella cena pasquale, cinque gesti che ricordiamo e rinnoviamo in ogni celebrazione eucaristica: prese il pane, alzò gli occhi, rese grazie, lo spezzò e lo diede. Gesti che hanno una finalità istituzionale: mangiate e bevetene, tutti.
Sant’Agostino chiama l’eucaristia il sacramento della memoria. Non pura memoria storica ma memoria efficace, che non solo ricorda ma ripresenta, attualizza: quod mystice geritur, veraciter impletur.
La tradizione apostolica ritiene essenziali per questa memoria i cinque gesti e la liturgia li ricorda prima di entrambe le consacrazioni. Con le ipsissima verba Domini della consacrazione costituiscono il racconto dell’istituzione, cuore della preghiera eucaristica. Gesti che quasi diventano personalizzati nella frazione e nella comunione.
“Voi date loro da mangiare”. È un invito che diventa segno simbolico, profetico, che assume il suo pieno significato durante l’ultima cena nella parola fondante e istitutiva del sacerdozio: fate questo in memoria di me”. Non in mia memoria, ma in memoria di me, una memoria cioè personalizzata, vivente.
Non è un memoriale di un evento storico come la pasqua ebraica, ma una memoria sacramentale, efficace che ci ri- presenta, rivive nella attuale presenza di Cristo tutto il mistero pasquale nell’atto culminante della sua realtà umano – divina: misterium fidei.
“Fate questo in memoria di me”. Un invito che limitazioni fisiche e contingenti ripetiamo quasi inavvertitamente, ma che costituiscono la motivazione gioiosa della nostra giornata, apparentemente inutile ed emarginata. Sfuggendo al puro ritualismo di un puro memoriale, entriamo nel mistero: facendo di Lui memoria, rendendo grazie, offriamo, conviviamo nell’attesa.
“Parigi vale bene una Messa” disse abiurando Enrico IV. E noi possiamo dire: per una Messa in più ben vale un giorno di più di vita offerta con Cristo per la salvezza del mondo.
Come Maria allora diciamo: ecco la serva del Signore, e con il Figlio di Dio accettiamo l’incarnazione nella fragilità della nostra vita umana.