Letture:
Zc. 9, 9-10;
Sal. 144;
Rm. 8, 9.11-13;
Mt. 11, 25-30; “Ti rendo lode, Padre, Dio del cielo e della terra”.
Ingresso:
Ricordiamo, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio.
Come il tuo nome, o Dio, così la tua lode si estende ai confini della terra;
di giustizia è piena la tua destra.
Il lamento per ciò che manca è frequente, nella vita di ciascuno come nella vita sociale. Viceversa, la riconoscenza per ciò che abbiamo ricevuto raramente viene espressa.
Fa eccezione la celebrazione dell'Eucaristia, che alla lettera significa proprio ringraziamento. In ogni messa infatti il popolo cristiano rende lode a Dio per i benefici ricevuti, e rinnova – per bocca del sacerdote – l'invito alla riconoscenza perenne ed universale nel Prefazio: "è veramente cosa buona e giusta rendere grazie sempre e in ogni luogo". Non bastano però queste parole della liturgia per neutralizzare la nostra inclinazione al lamento.
La pagina del Vangelo ci propone il ringraziamento di Gesù.
Gesù prega.
Si rivolge a suo Padre. La sua preghiera è un’azione di grazie. Egli loda suo Padre, non in quanto tale, ma per ciò che fa. Si meraviglia di vedere la spontaneità dei bambini e la gente senza cultura rispondere alla sua predicazione. Come, d’altra parte, si dispiace di vedere allontanarsi da sé coloro che avevano tutte le possibilità di riconoscerlo (Gv 9,40-41).
I semplici, spontaneamente intuiscono che non si tratta di capire, ma di (credere) accettare d’essere amati. È veramente necessario assomigliare a quei bambini che Gesù ama e accarezza (Mc 10,16).
E per colui che lo accoglie in tal modo Gesù serba le rivelazioni più grandi, quelle che nessuno può conoscere (Mt 11,27- Tutto è stato dato a me dal Padre mio: nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo), che trattano del mistero di Dio stesso.
Dio parla loro quando essi si confidano a lui, senza rimanere sulle difensive. Essi amano veramente quando accettano di essere amati, poiché Dio ci ama sempre per primo (1Gv 4,10) ma noi ci difendiamo, non vogliamo essere sensibili, e facciamo fatica a lasciarci amare. Noi ci complichiamo la vita spirituale. Cerchiamo il difficile dove le cose sono semplici. Il giogo del Signore è leggero, poiché egli lo porta con noi.
Cosa dobbiamo fare:
- Nella seconda lettura, S. Paolo ai Romani dice: “Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete”.
- E nella prima lettura il profeta Zaccaria ci esorta: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.
- Questa doppia convinzione cresce in noi con la preghiera e la riflessione o meditazione: sollevare il nostro animo a Dio, staccandolo dalle cose terrene e temporali nell’umiltà che Dio è tutto e noi siamo sue creature.
- La stanchezza, l'oppressione fanno parte dell'esperienza umana, ne evidenziano i limiti e la fragilità. Non ci risulta particolarmente difficile trovare un qualche refrigerio al nostro corpo, è arduo però trovare il vero conforto per l'anima quando è oppressa dal male e appesantita dalle avversità. Per questo il Signore ancora una volta ci chiama a sé e ci sollecita ad un incontro personale con lui. Ci instilla per questo pensieri di umiltà e di mitezza, le virtù che egli ha praticato in modo sublime e che a noi consentirebbe di affidarci a lui.
- La presunzione umana genera l'accumulo dei pesi sulle nostre fragili spalle fino a sommergerci in una tomba infernale costruita con le nostre mani.
“Venite a me voi che siete affaticati e stanchi… Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero”.
Il Santo di cui portiamo il nome avrà certamente ringraziato il Signore per i benefici ricevuti che con la sua collaborazione l’anno portato a raggiungere la santità; supplichiamolo che ci insegni a ringraziare Dio.