Dt 30, 10-14;
Sal 18;
Col 1, 15-20;
Lc 10, 25-37.
La parabola del buon samaritano ci offre non solo il concetto di "prossimo" ma anche ci indica come concepire e vivere la carità e soprattutto come amare il prossimo con gesti concreti: farsi vicino, fasciare le ferite, versare olio e vino, caricare sul proprio cavallo e cioè prendere cura. È questo che si deve fare, pertanto Gesù concluderà con il seguente invito: "Va' e anche tu fa' così". Il "fare la carità", cioè "fare così", come ha concluso ed invitato Gesù, non è troppo alto per ciascuno di noi, né troppo lontano da noi, non è nel cielo, neppure al di là del mare ma è un comandamento molto vicino a noi, è nella nostra bocca e nel nostro cuore, affinché sia possibile metterla in pratica.
La parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore
Nella prima lettura, tratta dal Deuteronomio, Mosè parla al suo popolo dicendo che Dio ha messo la Sua Legge - amare Dio e il prossimo - dentro i nostri cuori affinché la possiamo facilmente mettere in pratica. Amare Dio e il prossimo non dovrebbe essere un impegno estraneo a noi e inarrivabile, bensì una realtà concreta, evidente, che si trova nel nostro cuore e sulla nostra bocca, l'importante è metterla in pratica. Non c'è scusa: la Legge dell'amore è vicina, sta nella vita della gente, è, come aggiunge il Salmo 18, perfetta, verace, giusta, limpida, fedele, più preziosa dell'oro, più dolce del miele. La Legge dell'amore è il cammino, accettato, che aiuta la vita. Per seguire tale cammino ci vuole la conversione: "ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l'anima".
"E chi è mio prossimo?"
Il testo di Lc 10,25-37 è diviso in due parti: due dialoghi tra Gesù e il dottore della Legge. Il primo è provocato dalla domanda del dottore della legge su "cosa fare per ereditare la vita eterna?" e il seconde parte dalla domanda: " chi è il mio prossimo?". La prima domanda ha come risposta "amare Dio e il prossimo" e suscita di conseguenza la domanda chi è "il mio prossimo?". In risposta Gesù racconta la parabola di un uomo in viaggio, che scendendo da Gerusalemme a Gerico, cadde nelle mani dei briganti, fu derubato di tutto, picchiato e lasciato mezzo morto. Passano tre persone che rappresentano due categorie di persone: un sacerdote e un levita che sono persone addette ufficialmente al servizio del culto ed un samaritano che è considerato membro di coloro che sono scomunicati, delle persone religiosamente bastarde, persone con le quali non esiste dialogo. Mentre i due primi, vedono il malcapitato in fin di vita e dunque bisognoso del loro aiuto, ma passano oltre senza far nulla; invece, il samaritano, non solo è pieno di compassione ma si fa vicino, si mette accanto alla persona che ha bisogno. Perciò "gli si avvicinò, gli fasciò le ferite, versandovi sopra olio e vino, lo pose sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui". Poco dopo Gesù riprende il dialogo con il dottore della Legge ridimensionando completamente la domanda posta al versetto 29: non si tratta di sapere "chi è il mio prossimo?" infatti Gesù chiede: " Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Il dottore rispose: "chi ha avuto compassione di lui".
Avere compassione è la chiave di lettura per capire la domanda: "chi è il mio vicino?" Mentre il sacerdote e il levita, con le loro regole cultuali e liturgiche, passano davanti al ferito e lo scavalcano, senza prendersi cura di lui, Gesù, invece, caratterizza la reazione del samaritano con un verbo davvero particolare: "essere pieno di compassione" (dal latino cum patior - soffrire con…) Infatti, il Dottore della Legge, nella sua risposta su chi dei tre è stato prossimo, non cita le categorie delle persone, le funzioni, neppure le distinzioni dottrinali, nazionali e moralistiche ma dice "chi ha usato misericordia". Le azioni del Samaritano sono condensate nella "compassione", atteggiamento misericordioso. Il cuore della parabola è la "compassione" che non è pietismo, sentimentalismo, un'emozione forte che presto svanisce, ma la compassione è essere visceralmente commosso, esprime un atteggiamento interiore di fronte all'uomo sofferente. Da questa visione e da questo "movimento dei visceri" (emozione dei visceri), nascono "atteggiamenti" e un "fare" "Andò da lui, gli fasciò le ferite, versandovi sopra olio e vino, lo pose sul suo giumento, lo portò in una locanda e si prese cura di lui". La prossimità è una conquista che mette al centro il dolore dell'altro non il mio sentire. Ci sono ben dieci verbi in fila per descrivere l'amore: lo vide, si mosse a pietà, scese, versò, fasciò, caricò... fino al decimo verbo: ritornerò indietro a pagare, quanto necessario.
Per il sacerdote e il levita, l'uomo mezzo morto è un ostacolo, mentre per il samaritano questo stesso uomo è motivo di vicinanza. Il sacerdote e il levita non solo ignorano l'uomo mezzo morto, ma sono indifferenti nei suoi confronti, prendono le distanze e aggirano "l'ostacolo". In un altro modo, lo scriba, pur evitando di pronunciare la parola samaritano, lo riconosce come riferimento da seguire (Lc 10,37). Gesù, con due imperativi - Va' e fa' -, invita lo scriba a essere discepolo del "buon samaritano", cosa che può creare disagio, perché normalmente si pensa che si possa essere discepoli solo di Gesù. Così, siamo anche invitati a essere un "vicino" dell'altro.
La domanda posta a Gesù dal dottore della legge "Chi è il mio prossimo?", si trasforma, nella seguente domanda: "come si diventa "prossimo" degli altri?" "Prossimo" si diventa quando mi faccio "vicino" all'altro! "Prossimo" non è solo l'altro!!! "Prossimo" è colui che sa farsi prossimo!
Il discepolo missionario secondo Papa Francesco non deve catalogare gli altri per decidere chi è il suo prossimo e chi non lo è. Dipende da me essere o non essere prossimo - la decisione è mia -, dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di aiuto, anche se estranea o magari ostile.