La notizia che cambia la storia

Dagli altoparlanti che poco prima hanno trasmesso la fanfara con l’inno dello Stato della Città del Vaticano, seguito da un cenno dell'inno nazionale italiano, risuona alle 12 in punto la supplica universale che il Papa, seduto ma idealmente in ginocchio, eleva al cielo per la città di cui è vescovo e per il mondo di cui è pastore. Una supplica di pace, quella del Successore di Pietro, per la martoriata Siria, per lo Yemen sofferente, per l’Ucraina devastata, per l’Armenia e l’Azerbaigian in lotta, per il Sahel e il Corno d’Africa teatri di tensioni e conflitti, per la Corea ancora divisa, per tutti i coloro che sono “obbligati a fuggire dalla propria patria in cerca di un avvenire migliore, rischiando la vita in viaggi estenuanti e in balia di trafficanti senza scrupoli”.

“Lo sguardo e il cuore dei cristiani di tutto il mondo sono rivolti a Betlemme”, esordisce il Papa all’inizio del suo messaggio, dopo gli onori militari e il picchetto della Guardia Svizzera. A Betlemme in questi giorni “regnano dolore e silenzio”, ma è risuonato ugualmente “l’annuncio atteso da secoli”: È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.

"Oggi a Betlemme tra le tenebre della terra si è accesa questa fiamma inestinguibile, oggi sulle oscurità del mondo prevale la luce di Dio, che illumina ogni uomo", scandisce il Papa. "La Scrittura rivela che la sua pace, il suo regno".

Proprio nella Scrittura, ricorda Francesco, al Principe della pace, Gesù, si oppone “il principe di questo mondo” che “seminando morte, agisce contro il Signore”. Lo vediamo in azione a Betlemme quando, dopo la nascita del Salvatore, avviene la strage degli innocenti ordinata da Erode. Lo vediamo in azione oggi con le tante “stragi di innocenti nel mondo”, afferma il Papa: “Nel grembo materno, nelle rotte dei disperati in cerca di speranza, nelle vite di tanti bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra. Sono i piccoli Gesù di oggi, questi bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra, dalle guerre".

Allora dire “sì” al Principe della pace significa dire “no” alla guerra. E questo con coraggio: dire "no" alla guerra, a ogni guerra, alla logica stessa della guerra, viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse. Questo è la guerra: viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse.

La gente non vuole armi ma pane

Ma per dire “no” alla guerra, sottolinea Francesco, bisogna dire “no” alle armi: “Perché, se l’uomo, il cui cuore è instabile e ferito, si trova strumenti di morte tra le mani, prima o poi li userà. E come si può parlare di pace se aumentano la produzione, la vendita e il commercio delle armi?”.

Oggi, come al tempo di Erode, “le trame del male, che si oppongono alla luce divina, si muovono nell’ombra dell’ipocrisia e del nascondimento”: “Quante stragi armate avvengono in un silenzio assordante, all’insaputa di tanti!”, esclama il Pontefice.

La gente, che non vuole armi ma pane, che fatica ad andare avanti e chiede pace, ignora quanti soldi pubblici sono destinati agli armamenti. Eppure dovrebbe saperlo! Se ne parli, se ne scriva, perché si sappiano gli interessi e i guadagni che muovono i fili delle guerre

Lottare contro la povertà

Infine il Papa si rivolge al Figlio di Dio, “fattosi umile Bambino”,  pregandolo perché “ispiri le autorità politiche e tutte le persone di buona volontà affinché si trovino soluzioni idonee a superare i dissidi sociali e politici, per lottare contro le forme di povertà che offendono la dignità delle persone, per appianare le disuguaglianze e per affrontare il doloroso fenomeno delle migrazioni”.

Dal presepe, il Bambino ci chiede di essere voce di chi non ha voce: voce degli innocenti, morti per mancanza di acqua e di pane; voce di quanti non riescono a trovare un lavoro o l’hanno perso; voce di quanti sono obbligati a fuggire dalla propria patria in cerca di un avvenire migliore, rischiando la vita in viaggi estenuanti e in balia di trafficanti senza scrupoli.

Fonte: Vatican News

Abbiamo dialogato con Claudia Graciela Lancheros, missionaria della Consolata in Kazakistán da due anni, e ci ha parlato della sua esperienza in una terra dove i cattolici sono una minoranza che sarà visitata prossimamente da Papa Francesco.

Kazakistán perché?

Il carisma della comunità delle Missionarie della Consolata da sempre è l'annuncio ai non cristiani, e per questo abbiamo analizzato alcune possibili presenze di prima evangelizzazione in Asia dove la presenza cristiana è fortemente minoritaria. Abbiamo visto che una comunità in Kazakistan era in linea con il carisma e, quindi, la missione è stata aperta. 

In questo paese, dove la presenza di cristiani è propio minima, una prima sfida è quella di mantenere l'identità, fare in modo che la gente ci sappia riconoscere come cristiani. In Kazakistán la religione più diffusa è l'islam e quidi diventa importante valorizzare piccoli spazi di dialogo che si sono concessi e permettono spiegare cosa significhi essere cristiani, cos'è la Chiesa cattolica, anche cosa significa la vocazione religiosa delle donne che si dedicano totalmente al servizio di Dio senza sposarsi né avere figli.

Con la nostra piccola comunità di missionarie viviamo a 40 chilometri dalla città di Almaty, in un ambiente rurale e fraterno. Devo riconoscere che i nostri vicini hanno compiuto bellissimi gesti di accoglienza: da quando ci hanno conosciute, non manca il saluto per strada, l’invito a prendere tè e, se c’era una festa, è condiviso anche un piatto del loro cibo. Quando gli anziani passano davanti al nostro orto ci danno qualche consiglio o raccontano una storia. 

Ci hanno fatto sentire come in casa e abbiamo fatto la grata esperienza di vedere come qualsiasi famiglia, indipendentemente dalla religione, ci apriva le porte dell’accoglienza. In un’occasione mi sono trovata con un  insegnante musulmano che mi ha detto che per loro ogni ospite è segnale della presenza di Dio. Stiamo quindi vivendo in modo concreto l’esperienza della fraternità, come invita a fare Papa Francesco nella sua enciclica Fratelli tutti. 

Questi dialoghi ci fanno vedere davvero la presenza di Dio in mezzo alle genti: la gente, così paziente, semplice e disponibile, ci mostra un’autentico spirito di accoglienza, e il desiderio di una relazione autentica con noi.

Al momento, nella nostra missione, non stiamo facendo grandi cose. La nostra è una presenza umile e minuscola, in un piccolo villaggio, ma siamo qui per testimoniare la nostra fede. Le persone ci chiedono preghiere, anche quelle di altre religioni. Sanno che siamo qui per loro, per ricordarli e per unirci davanti a Dio. 

Così la missione è andare a prendere il tè con i nostri vicini, ascoltarli, condividere la vita, condividere la fede, condividere ciò che accade nella nostra vita quotidiana. È una presenza di consolazione reciproca.

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Suor Claudia visita una chiesa ortodossa con alcuni giovani

I kazaki si preparano ad accogliere Papa Francesco

In vista della visita pastorale che il Pontefice compirà dal 13 al 15 settembre, la piccola comunità cristiana kazaka è molto entusiasta. È una Chiesa che sta muovendo i primi passi: pregano sempre per il Santo Padre alla fine del rosario o quando celebrano l’eucaristia. Averlo fra di loro è un'occasione per far conoscere cos'è la Chiesa cattolica, spiegare chi è Papa Francesco e incoraggiare l’incontro. I nostri pochi cristiani conoscono i problemi di salute di Papa Francesco: la visita del vescovo di Roma la considerano un segno molto forte e un grande gesto d'amore. 

Ascolta l'intervista in spagnolo

Il papa Francesco ha ricevuto l'invito formale a visitare la Mongolia due giorni prima del concistoro, e da una delegazione che rappresenterá il governo del paese nella cerimonia nella quale mons. Giorgio Marengo riceverà il titolo cardinalizio. A continuazione il messaggio che Mons. Giorgio ha mandato alla sua chiesa.

Lettera ai cristiani della Mongolia

Cari fratelli e sorelle della Prefettura Apostolica, carissimi missionari, è con grande gioia che vi comunico che mercoledì 24 agosto il Santo Padre ha ricevuto in udienza speciale una delegazione proveniente dalla Mongolia e guidata dall'ex Presidente, Sua Eccellenza N. Enkhbayar, insieme al Vice Ministro degli Affari Esteri, B. Munkhjin e al consigliere del Presidente G. Amartuvshin. Durante l'udienza, Sua Eccellenza N. Enkhbayar ha consegnato formalmente l'invito del Presidente U. Khürelsükh a Papa Francesco a visitare la Mongolia. Il Santo Padre ha manifestato grande interesse per la proposta e ha detto che intende fare questo viaggio, compatibilmente con le sue condizioni di salute e con gli impegni già programmati.

Come si può facilmente comprendere, si tratta di un momento storico per le relazioni tra la Mongolia e la Santa Sede, per il Paese e in particolare per la nostra piccola comunità cattolica. L'occasione è stata molto speciale e caratterizzata da grande cordialità e rispetto. È stata più volte ricordata la lunga storia delle relazioni tra i Pontefici romani e gli imperatori mongoli, così come le antiche radici del cristianesimo nella nostra terra e la proficua collaborazione tra le diverse tradizioni religiose.

Sono lieto di informarvi di questo evento di grande auspicio che si è svolto in Vaticano, a pochi giorni dal concistoro al quale parteciperà anche questa delegazione ufficiale del Governo, desiderosa di essere presente al rito in cui il Papa mi conferirà il titolo cardinalizio. Ringraziamo il Signore per questo evento provvidenziale e intensifichiamo la nostra preghiera per il Santo Padre e per la Mongolia. Il piccolo gruppo di rappresentanti della Prefettura Apostolica è arrivato a Roma e ci stiamo preparando per la celebrazione del 27 agosto. Uniti nella preghiera, ricordatevi di pregare per me, mentre vi benedico tutti di cuore. 
+ Giorgio 

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Care popolazioni indigene di Maskwacis e di questa terra canadese, cari fratelli e care sorelle!

È da qui, da questo luogo tristemente evocativo, che vorrei iniziare quanto ho nell’animo: un pellegrinaggio penitenziale. Giungo nelle vostre terre natie per dirvi di persona che sono addolorato, per implorare da Dio perdono, guarigione e riconciliazione, per manifestarvi la mia vicinanza, per pregare con voi e per voi.

Negli incontri avuti a Roma quattro mesi fa mi erano state consegnate in pegno due paia di mocassini, segno della sofferenza patita dai bambini indigeni, in particolare da quanti purtroppo non fecero più ritorno a casa dalle scuole residenziali e mi era stato chiesto di restituire i mocassini una volta arrivato in Canada: li ho portati e lo farò al termine di queste parole. Il ricordo di quei bambini infonde afflizione ed esorta ad agire affinché ogni bambino sia trattato con amore, onore e rispetto. Ma quei mocassini ci parlano anche di un cammino, di un percorso che desideriamo fare insieme. Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme, perché le sofferenze del passato lascino il posto a un futuro di giustizia, guarigione e riconciliazione.

Ecco perché la prima tappa del mio pellegrinaggio in mezzo a voi si svolge in questa regione che vede, da tempo immemorabile, la presenza delle popolazioni indigene. È un territorio che ci parla, che permette di fare memoria.

Fratelli e sorelle, avete vissuto in questa terra per migliaia di anni con stili di vita che hanno rispettato la terra stessa, ereditata dalle generazioni passate e custodita per quelle future. L’avete trattata come un dono del Creatore da condividere con gli altri e da amare in armonia con tutto quanto esiste, in una vivida interconnessione tra tutti gli esseri viventi. Avete così imparato a nutrire un senso di famiglia e di comunità, e sviluppato legami saldi tra le generazioni, onorando gli anziani e prendendovi cura dei piccoli. Quante buone usanze e insegnamenti, incentrati sull’attenzione agli altri e sull’amore per la verità, sul coraggio e sul rispetto, sull’umiltà e sull’onestà, sulla sapienza di vita!

Ma, se questi sono stati i primi passi mossi in questi territori, la memoria ci porta tristemente a quelli successivi. Il luogo in cui ci troviamo fa risuonare in me un grido di dolore, un urlo soffocato che mi ha accompagnato in questi mesi. Ripenso al dramma subito da tanti di voi, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità; a ciò che avete condiviso con me sulle sofferenze patite nelle scuole residenziali. Sono traumi che, in un certo modo, rivivono ogni volta che vengono rievocati e mi rendo conto che anche il nostro incontro odierno può risvegliare ricordi e ferite, e che molti di voi potrebbero trovarsi in difficoltà mentre parlo. Ma è giusto fare memoria, perché la dimenticanza porta all’indifferenza e, come è stato detto, «l’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza… l’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte» (E. Wiesel). Fare memoria delle esperienze devastanti avvenute nelle scuole residenziali ci colpisce, ci indigna, ci addolora, ma è necessario.

È necessario ricordare come le politiche di assimilazione e di affrancamento, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali, siano state devastanti per la gente di queste terre. Quando i coloni europei vi arrivarono per la prima volta, c’era la grande opportunità di sviluppare un fecondo incontro tra culture, tradizioni e spiritualità. Ma in gran parte ciò non è avvenuto. E mi tornano alla mente i vostri racconti: di come le politiche di assimilazione hanno finito per emarginare sistematicamente i popoli indigeni; di come, anche attraverso il sistema delle scuole residenziali, le vostre lingue, le vostre culture sono state denigrate e soppresse; e di come i bambini hanno subito abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali; di come sono stati portati via dalle loro case quando erano piccini e di come ciò abbia segnato in modo indelebile il rapporto tra i genitori e i figli, i nonni e i nipoti.

Io vi ringrazio per avermi fatto entrare nel cuore tutto questo, per aver tirato fuori i pesanti fardelli che portate dentro, per aver condiviso con me questa memoria sanguinante. 

Prego e spero che i cristiani e la società di questa terra crescano nella capacità di accogliere e rispettare l’identità e l’esperienza delle popolazioni indigene. Auspico che si trovino vie concrete per conoscerle e apprezzarle, imparando a camminare tutti insieme. Da parte mia, continuerò a incoraggiare l’impegno di tutti i Cattolici nei riguardi dei popoli indigeni. L’ho fatto in altre occasioni e in vari luoghi, mediante incontri, appelli e anche attraverso un’Esortazione apostolica. So che tutto ciò richiede tempo e pazienza: si tratta di processi che devono entrare nei cuori, e la mia presenza qui e l’impegno dei Vescovi canadesi sono testimonianza della volontà di procedere in questo cammino.

In questa prima tappa ho voluto fare spazio alla memoria. Oggi sono qui a ricordare il passato, a piangere con voi, a guardare in silenzio la terra, a pregare presso le tombe. Lasciamo che il silenzio ci aiuti tutti a interiorizzare il dolore. Silenzio. E preghiera: di fronte al male preghiamo il Signore del bene; di fronte alla morte preghiamo il Dio della vita. Il Signore Gesù Cristo ha fatto di un sepolcro, capolinea della speranza di fronte al quale erano svaniti tutti i sogni ed erano rimasti solo pianto, dolore e rassegnazione, ha fatto di un sepolcro il luogo della rinascita, della risurrezione, da cui è partita una storia di vita nuova e di riconciliazione universale. Non bastano i nostri sforzi per guarire e riconciliare, occorre la sua Grazia: occorre la sapienza mite e forte dello Spirito, la tenerezza del Consolatore. Sia Lui a colmare le attese dei cuori. Sia Lui a prenderci per mano. Sia Lui a farci camminare insieme.

Maskwacis, Lunedì, 25 luglio 2022

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Con la teoria del gender si rischia di fare un passo indietro. Così ieri il Papa all’Udienza generale. “Mi domando - ha detto - se questa teoria non sia espressione di frustrazione che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa”. “La rimozione della differenza è il problema, non la soluzione”, ha concluso Francesco esortando gli intellettuali a non disertare questo tema. “Un messaggio di grandissimo significato per laici e credenti  spiega al microfono di Paolo Ondarza il direttore de “La Società” Claudio Gentili, autore con la moglie Laura del libro “L’eclissi della differenza”: 

– Il Papa dice: occorre evitare che il tema della differenza sessuale venga concepito come un tema di contrapposizione e subordinazione. Ecco,in questo mondo in cui la famiglia è destrutturata e cade a pezzi, quello del Pontefice è un messaggio di grandissimo significatoproprio perché ci aiuta a non riaffermare certezze antiche con un’attenzione quasi maniacale, ma a riattualizzare la fondamentale idea del principio del maschile e del femminile e della differenza sessuale fatta non per contrapporre i generi, non per subordinare il femminile al maschile, ma per la libertà delle persone, per la dignità delle persone, per la generazione e il futuro dei figli.

– “La rimozione della differenza è il problema, non è la soluzione”, dice Papa Francesco …

– Il Papa esorta gli intellettuali a non disertare questo temacome se fosse diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta. In fondo, il tema della differenza sessuale è un tema emancipatorio, è un tema di dignità delle persone, è un tema di diritti dei bambini ad avere un papà e una mamma, è un tema di differenti ruoli che ovviamente non significa riproposizione di quello che le femministe chiamano “fallologocentrismo”, cioè di ruoli stereotipati fondati su idee rigide; ma far diventare, come spesso accade, delle mamme fallocratiche e far diventare dei papà dei papà femminilizzati non aiuta la crescita del bambino. Quindi, ripeto,occorre veramente che quello che il Papa chiama “la rimozione della differenza” possa diventare oggetto non di contrapposizioni ideologiche, ma di una ricerca dialogante tra pensiero laico e pensiero cristiano in vista del bene delle persone.

– Va rilevato come forse questo tema, questa urgenza antropologica sia stata troppo spesso sottovalutata, anche in ambito cattolico …

– Sono assolutamente d’accordo. Questa dimensione fondativa dell’esperienza cristiana ha bisogno oggi non di riproporre antiche, granitiche certezze ideologiche, ma di dimostrare – come il Papa con sottile ironia dice – che questa teoria, espressa nelle forme, nelle modalità caricaturali che spesso vediamo anche nelle nostre scuole italiane, non sia proprio l’espressione di una frustrazione. Anche nelle parrocchie occorre ricominciare a educare al maschile e al femminile.

– A proposito di questa valorizzazione della differenza sessuale, arriva la raccomandazione del Papa: “Dobbiamo fare molto di più in favore della donna. Deve essere non solo ascoltata: deve avere un peso reale, un’autorevolezza riconosciuta nella società e nella Chiesa”.

– Queste parole dovrebbero  rassicurare quelli che temono che parlare di differenza sessuale sia interrompere il processo emancipativo della donna. Il Papa dice giustamente che c’è ancora nella Chiesa, nella società troppo maschilismo; che c’è ancora nella Chiesa e nella società poca considerazione del ruolo e anche – usa una parola forte – dell’“autorevolezza” delle donne: questo riguarda anche scelte sia all’interno della Curia sia degli Uffici della Santa Sede. E questo è un problema oggettivo: cioè, in fondo il “gender” nasce da una esagerazione ideologica di un problema reale che è il ruolo della donna nella vita sociale. Ma per affermare la specificità femminile non occorre annichilire la differenza sessuale.

– Le parole del Papa, secondo lei, sono state ben recepite?

Oggi ho notato che c’è stata una sorta di sordina messa a questo discorso del Papa. Ebbene, ho notato che in alcuni casi il Papa non viene criticato, masu questi argomenti viene semplicemente censurato. E’ un’annotazione che voglio fare non per spirito di polemica ma perché questo Pontefice, che ha sviluppato una così forte simpatia con l’opinione pubblica, penso che abbia anche il diritto a non veder sottaciute alcune dimensioni fondamentali del suo annuncio, che è un annuncio veramente profetico.

Alle parole del Papa sul gender il quotidiano dei vescovi Avvenire ha dedicato l’apertura dell’edizione odierna. La catechesi di Francesco sulla complementarietà uomo-donna e la rimozione della differenza sessuale risulta invece assente dalle prime pagine dei principali giornali italiani o riportata in modo marginale e incompleto. Su questo si sofferma il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, sempre al microfono di Paolo Ondarza: 

– Bè, non è la prima volta che questo accade. Papa Francesco, che pure riesce a imporre all’attenzione dei distratti anche temi che normalmente vengono tenuti ai margini, quando tocca poi temi come questi, che si riferiscono a un fenomeno preciso (il gender) – anche qui, una sollecitazione di Papa Francesco: pensiero dominante che vuol farsi pensiero unico – ecco, quando si tocca questo tipo di tematiche, c’è una reazione che tende a silenziare gli argomenti forti messi a disposizione del dibattito pubblico. Questa è una cosa che mi spiace molto: mi spiace da cronista, mi spiace da cittadino di questo Paese, mi spiace da cristiano perché credo che abbiamo un contributo serio da dare, a un dibattito così importante.

– Quindi, non si può parlare di “svista” …

– No. Io non credo alle sviste. Non credo alle sviste su questo tema perché ne ho viste tante, in questi anni, in altri momenti. Basta tornare con la memoria a poco più di un anno fa quando qui in Italia un ufficio che dovrebbe occuparsi di discriminazioni razziali preparò una serie di testi per la scuola nei quali veniva dichiarato “sconveniente” parlare della genitorialità riferendosi a un padre e a una madre: in quel momento, soltanto “Avvenire” pose il problema, nella stampa nazionale, e ci ritrovammo assolutamente soli nell’affrontare la questione e messi anche un po’ sul banco degli imputati, perché avevamo toccato un tema che non andava affrontato: in realtà – è l’opinione comune - bisogna lasciar correre le cose … Io credo che non ci sia nulla da lasciar correre. Questo fa parte della cultura dell’indifferenza, che in senso etimologico porta a non considerare più le differenze che sono sostanziali e fondamentali, nella costruzione della nostra umanità.Mi ha colpito che oggi alcuni degli articoli che sono stati pubblicati, in riferimento alle parole di Papa Francesco – una parola molto chiara, molto bella, anche sul ruolo e lo spazio della donna – siano stati articoli che commentavano: “Papa Francesco ha ragione a dire certe cose”, ma cancellavano completamente il tema del gender concentrandosi soltanto sul tema della femminilità: “attenzione – è l’allarme di questi articoli -  perché il Papa verrà strumentalizzato da coloro che non vogliono dare alla donna il giusto spazio nella società e nella Chiesa”.

– “Da chi non vuole la parità dei sessi” si legge nell’articolo in questione …

– Sì: chi non vuole dare alla donna il giusto spazio nella Chiesa. Mi sembra una maniera un po’ capziosa di interpretare parole molto limpide che confermano quanto affermavo: non esistono sviste; esistono deliberate scelte e deliberati tagli: tagli della notizia che viene data, tagli nella notizia che non viene offerta. Soprattutto viene cancellata dalle prime pagine.

– E letture di questo tipo certo non aiutano la gente a comprendere la completezza del discorso, che era tutto centrato sulla complementarietà uomo-donna …

La catechesi del Papa è stata il culmine di un percorso che Francesco ci sta proponendo da qualche settimana, di straordinaria intensità, sulle radici dell’umano, sul senso della famiglia, sulle figure e le realtà-chiave della condizione umana. Ecco, che questo tipo di riflessione messa a disposizione del mondo venga fatta a pezzetti, un po’ sbriciolata e ne vengano espunte le parti più significative, è pericoloso. Però, non vogliamo lamentarci, non siamo “quelli del lamento”: anche questo, Papa Francesco ce lo ricorda spesso, no? Prendiamo atto di una condizione; questo credo debba spingerci a parlare più chiaro e a fare eco in modo consapevole all’insegnamento e alla memoria che ci viene consegnata di ciò che è la realtà: perché tendiamo a essere smemorati anche su questioni fondamentali. Avvenire ha scelto, nel concerto della stampa italiana, di fare un titolo che era molto probabile che facessimo in solitudine; l’importante è che ci sia spazio per far sentire la nostra vocee per continuare a fare giustizia rispetto alla profondità della Parola del Papa.

 

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