XXXIII Domenica del tempo ordinario

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Discorso escatologico e apocalittico

Dn 12,1-3;

Eb 10,11-14,18;
Mc 13,24-32

La liturgia, avvicinandosi alla conclusione dell’anno sacro, ci invita ad una vigorosa meditazione sul senso dell’esistenza e sul suo approdo nel mistero eterno di Dio.

Il vero cristiano opera ora e qui, nell’attesa che la sua vita fiorirà nel poi e nell’al di là (Gianfranco Ravasi).

Nel Vangelo il discorso di Gesù prende le mosse della domanda di un discepolo che resta ammirato di fronte alla magnifica costruzione del Tempio di Gerusalemme. Re Erode il Grande lo aveva fatto ricostruire. Esso era veramente una costruzione impressionante.

Gesù risponde a questa domanda con una profezia tremenda: “vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta”. I discepoli allora chiedono precisazioni, e Gesù fa un lungo discorso nel quale la fine di Gerusalemme diventa anche la figura anticipata della fine del mondo. Tuttavia in questo discorso non è possibile distinguere bene ciò che riguarda la fine di Gerusalemme da ciò che riguarda la fine del mondo.

Gesù mette in guardia i suoi discepoli dalla mancanza di vigilanza, dicendo che occorre sempre essere attenti e vigilanti. Poco importa se la fine del mondo è vicina o lontana (Gesù stesso dice di non conoscere né quel giorno né quell’ora. Egli, “fattosi uomo, non si vergogna di accusare la sua ignoranza di uomo” sant’Atanasio) occorre essere sempre pronti alla venuta del Signore (Albert Vanhoye).

Quando Gesù visse qui in terra, la sua patria era dominata dai Romani (dal 63 a.C.) – nell’anno 70 voleva liberarsi da Romani ma Vespasiano mandò suo figlio Tito con l’esercito e fu distrutta Gerusalemme e il suo Tempio. Giuseppe Flavio, grande storico dei primi secoli, parlando dello stesso fatto dice “in realtà le sventure di tutti i secoli, mi sembrano restare al di sotto confrontate con quelle dei Giudei”.

L’intento della Liturgia è quello di orientare l’attenzione dei fedeli al compimento futuro del progetto divino, ed era la stessa motivazione che spinse gli antichi autori cristiani a riportare il discorso escatologico (cioè: delle realtà ultime) di Gesù, formulato secondo il genere apocalittico (cioè: fenomeni catastrofici, sconvolgimenti degli elementi, segni cosmici). Tale linguaggio del testo non deve trarre in inganno, sono immagini da interpretare non letteralmente ma simbolicamente – questo linguaggio apocalittico è complesso per la nostra cultura, mentre non era così difficile per gli antichi ascoltatori.

Però è tutto orientato a sostenere nel presente la fede e la fiducia dei suoi discepoli e della Chiesa – insegnamento volto specialmente a predisporre l’animo dei credenti verso il futuro.

Il grande “discorso escatologico” di Gesù è il Vangelo della speranza affidato alla Chiesa, perché si prepari al futuro e perché aiuti tutta l’umanità nel cammino presente della storia del mondo (Giovanni Marchesi).

È l’attesa del cristiano verso i traguardi che ci stanno davanti che viene stimolata. “Tutta la predicazione cristiana, tutta l’esistenza cristiana, e la Chiesa stessa nel suo insieme, sono caratterizzate dal loro orientamento escatologico” (J. Moltmann), sono animate cioè dalla tensione vitale della speranza.

Inoltre, la certezza che Cristo risorto è presente nella Chiesa e che un giorno Egli tornerà fa di tutto il cristianesimo “la religione del futuro assoluto” (Karl Rahner).

Non si tratta di minacce relative alla fine del mondo, ma piuttosto di forte esortazione alla vigilante attesa e di incoraggiamento in situazioni difficili riconoscendo che la storia è saldamente nelle mani di Dio – anche se noi siamo ancora nel pieno della battaglia, la guerra è già stata vinta dal nostro Signore.

Non erano presagi di sventura, ma oracoli destinati a infondere gioia e speranza: annunciano il crollo del vecchio mondo - la fine di un mondo corrotto perché Dio sta per intervenire a creare un nuovo universo liberato dal male.

Tuttavia, il centro del quadro tracciato da Gesù non è in una catastrofe cosmica, non è nella fine del mondo, quanto piuttosto nella “venuta del Figlio dell’uomo” che è il fine del mondo, cioè la meta verso cui tende la storia per giungere a pienezza (Gianfranco Ravasi).

Il tema centrale è la parusia, cioè la venuta del Signore: l’opera di Gesù rimarrebbe incompleta, incompiuta senza il suo ritorno glorioso. “Verrà nella sua gloria e nella nostra gioia” (Paolo VI).

Le immagini cosmiche non descrivono un giudizio di condanna, ma servono solo a sottolineare la grandiosità dell’avvenimento annunziato: la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo (si ispira alla visione grandiosa del profeta Daniele [7,13]).

Il ritorno del Figlio dell’uomo (gli è piaciuto chiamarsi come uno di noi) in potenza e maestà non significa in alcun modo che Dio, alla fine, abbandonerà la strada dell’amore per sostituirvi, appunto, quella della potenza: “il trionfo del Figlio dell’uomo sarà il trionfo del crocifisso, la dimostrazione che l’amore è potente-vittorioso” (Bruno Maggioni).

Egli sarà insieme il promotore di ogni diritto, la compassione della misericordia, la trasformazione di ogni male in bene, la dolcezza dello Sposo (Carlo Bazzi).

Nell’attesa di questa pienezza i cristiani devono essere vigili, attenti e operosi.

Questa irruzione è sempre “vicina” per ogni generazione, perché ognuno ha a disposizione solo questo spazio limitato di tempo per attendere quella venuta. Bisogna avere occhi vigili, mente acuta e cuore pronto ad accoglierlo.

“A che mi giova conoscere il giorno del giudizio, a che cosa mi giova che venga il Signore, consapevole come sono di peccati tanto grandi, se Egli non viene nella mia anima, se non fa ritorno nella mia mente, se Cristo non vive in me, se Cristo non parla in me? Per me dunque deve venire Cristo, per me deve realizzarsi la sua venuta” (sant’Ambrogio).

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