DOMENICA DELLE PALME

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palme

La scelta di Cristo

Is 50,4-7

 

Fil 2,6-11

Mt 26,14-27, 66

 

Oggi celebriamo la regalità di Cristo rinnovando la memoria del suo ingresso gioioso in Gerusalemme. È Gesù in persona che prepara in certo modo il suo ingresso trionfale in Gerusalemme partendo da Betfage, un villaggio vicino a Betania, a circa mezz’ora di cammino dalla città del gran Re (Mt 5,35).

In Galilea Gesù era fuggito un giorno di fronte alla folla che voleva prenderlo per farlo re (Gv 6,15), ma questa volta sembra voler di proposito scatenare l’entusiasmo dei pellegrini accorsi alla celebrazione pasquale. Entra mite e mansueto cavalcando un asinello: Egli è il “Re di Israele”, “colui che viene nel nome del Signore”, “Figlio di Davide” – gridano “osanna”, era una lode rivolta a Dio quando si radunavano nel tempio a pregare; non può mancare l’osanna a Cristo, il solo che ci ha detto la verità e ci ha dato la vita. Sono specialmente i semplici e i bambini che lo acclamano, neppure i discepoli di Gesù capivano ciò che stava accadendo sotto i loro occhi (Gv 12,16); ma Egli percorre in fretta e con decisione l’ultimo tratto del suo cammino terreno, fino al Calvario; affronta la passione e morte perché sa che è la volontà del Padre e che è per la salvezza del mondo (si fa eucaristia: offre se stesso al Padre per la salvezza del mondo).

Nel racconto della passione secondo Matteo si fa spesso riferimento alle profezie dell’Antico Testamento; i Profeti dicevano quella che era la volontà del Padre. Gesù è consapevole di dover adempiere le Scritture e dà la sua perfetta adesione alla volontà del Padre sapendo che si tratta di una volontà molto positiva, di una volontà di salvezza per tutto il genere umano (Albert Vanhoye).

L’amore del Padre celeste lo sostiene nel suo viaggio verso il Calvario. Soltanto il Padre sarà col Figlio (Gv 8,28), mentre, nonostante gli uomini e a loro insaputa, si compiva il loro destino di gloria (Salvatore Garofalo).

La sofferenza ripugna alla sensibilità umana, segno che questa non è fatta per la sofferenza. Israele chiamava Dio Jahwé “colui che vive” per eccellenza. Provati dalla sofferenza, ma sostenuti dalla loro fede i Profeti e i sapienti entrano progressivamente nel mistero (Sal 73,17).

Scoprono il valore purificatore del dolore, simile a quello del fuoco che libera il metallo dalle sue scorie (Ger 9,6) – scoprono il suo valore educativo simile alla correzione paterna (Dt 8,5) che è dura eppure benefica. Imparano a leggere nel dolore un piano di Dio che li supera, come Giobbe che dopo la sua triste esperienza arriva a conoscere Dio in modo nuovo (Gb 42,1).

Sarà il servo di Jahwé presentato da Is 53 che toccherà il vertice dell’Antico Testamento: la sua non si presenta come la sofferenza di un maledetto, bensì come la sofferenza di uno che espia il peccato degli altri. Qui si incrocia il mistero del Dio buono e la realtà dell’uomo che soffre. Bisognerà attendere il nuovo Testamento prima che un po’ di luce venga a rischiarare questo enigma. Gesù, durante la sua vita, cerca di asciugare molte lacrime di gente sofferente che incontra nel suo cammino, non si impegna a eliminare totalmente la sofferenza, anzi, cosa inaudita, la presenta come una beatitudine “beati gli afflitti..., beati i perseguitati” (Mt 5,4).

 

“Dio non è venuto a spiegare la sofferenza: è venuto a riempirla della sua presenza” (Paul Claudel).

Gesù non rifugge dalle diverse manifestazioni del dolore e soffre in più occasioni. Ma è la passione a concentrare tutta la sofferenza umana possibile. La sua non è sofferenza rassegnata, quasi un ineludibile destino, ma una sofferenza accettata e valorizzata. È la forte carica di amore, è l’accettazione della volontà del Padre a rendere questo dolore carico di significato. Particolare significato riveste la citazione del Salmo 21 che chiude l’esistenza terrena di Gesù, poiché solo le ultime parole hanno il valore di un testamento “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato!”; quando Gesù morente cita il salmo, dice sì le prime parole, senza però voler escludere le altre, e il tono del salmo è un misto di sofferenza estrema e di sconfinata fiducia, è una celebrazione del dolore più disumano e della gloria più sublime – fa percepire il mistero pasquale. Che sia questo il senso del salmo lo garantisce l’evangelista Luca che mette sulle labbra del Crocifisso le parole del Sal 30,6 “Padre nelle tue mani affido il mio spirito” (Gesù fa capire, a coloro che vanno verso la morte, che in realtà vanno, come Lui, verso il Padre, e che, invece di lasciarsi dominare dalla paura sono invitati a consegnarsi nelle sue mani paterne (Jean Galot).

Luca dimostra così di aver inteso il Salmo 21 in chiave positiva senza nulla togliere al momento drammatico di Gesù morente. “La croce non è amata né può esserlo. E tuttavia soltanto il crocifisso procura una libertà capace di trasformare il mondo, perché essa non teme più la morte” (Moltmann).

 

Risalta il duplice valore della passione: essa è un evento pieno di docilità filiale al Padre e un evento di solidarietà fraterna con gli uomini. Per docilità verso il Padre Gesù sacrifica la sua vita per la salvezza dei fratelli “Cristo ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2).

Questo aspetto si manifesta in modo particolare nell’istituzione della Eucaristia che mostra in anticipo tutto l’orientamento della passione di Gesù. Così Gesù trasforma la sua passione in dono, rende le sue sofferenze e la sua morte occasione del dono totale di sé (Albert Vanhoye).

Questo è l’aspetto di solidarietà che Gesù mostra nella sua passione: bisogna quindi che Egli passi attraverso la morte per vincerla, bisogna che conosca la tristezza e l’angoscia se vuole liberare davvero gli uomini. Gesù sa che la sua passione: questa solidarietà completa con noi, questa docilità perfetta alla volontà del Padre è la via verso la risurrezione e la glorificazione. E non è soltanto la via della sua risurrezione personale, ma è anche il modo di ricostruire il Tempio di Dio in tre giorni; fa risorgere il santuario di Dio, cioè crea un nuovo santuario. Questo nuovo santuario è la sua umanità glorificata. Grazie alla passione di Gesù tutte le nostre prove diventano occasioni di unione filiale con Dio. Eppure questa morte di Cristo è il mistero senza il quale il problema stesso del dolore umano non avrebbe spiegazioni – è il mistero, insomma, senza il quale tutto diventerebbe mistero, senza via di uscita, e la vita non avrebbe più senso.

Se la vicenda dolorosa di Gesù fosse finita con la sua morte in croce sarebbe stata una disgrazia come tante altre e nulla più, come d’altra parte se la nostra esistenza finisse nel dolore e nella morte non varrebbe la pena seguitare a vivere.

 

Gesù non mette l’accento sulle sue sofferenze ma sulla sua risurrezione. Il credente infatti legge sempre il Vangelo alla luce della sua risurrezione; e del Signore risorto che noi leggiamo la passione; è di colui che ha vinto che leggiamo la sfida e il combattimento. Questa morte è veramente il trionfo di Dio che si rivela come amore infinito in una potenza di misericordia che vince tutto il male del mondo.


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