Attorno alla Parola - XXX C

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{mosimage}Quattro i punti di riflessione che si impongono per ben capire la parabola di questa domenica:

uno sguardo alla struttura del tempio,
uno sguardo all’ambiente socio-religioso,
uno sguardo ai protagonisti della parabola,
uno sguardo alla nostra situazione.

Questa parabola Gesù la disse per quelli che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri. “Due uomini salgono al tempio a pregare”. Tre elementi accomunano questi due uomini: la salita, il tempio, la preghiera. Sono tre elementi di ogni assemblea liturgica festiva che unisce nella preghiera.

Eppure la struttura del tempio di Gerusalemme era discriminante. Vi era un cortile riservato al popolo eletto, l’atrio degli israeliti. E al di là di una balaustra invalicabile, pena la morte, vi era un cortile esterno, ove il clamore dei commercianti e il fetore degli animali accoglievano il popolo pagano.


Ma se il tempio era discriminante, lo era ancor di più la società teocratica ebraica di cui i personaggi della parabola ne rappresentano le posizioni estremiste: il fariseo che paga le tasse dovute al tempio e fa anche libere offerte e il pubblicano che estorce tasse per l’odiata Roma e succhia tangenti per sé.

Il Talmud con un pizzico di umorismo divide i farisei, i separati, in sette categorie con nomignoli appropriati: i quatti-quatti o vacillanti che per farsi notare strisciano i piedi; i farisei pestello che si piegano come un pestello nel mortaio; i farisei dalle spalle larghe con scritte per attirare l’attenzione; e, ancora, i farisei interesse, i farisei paurosi, i farisei timorati. In realtà, deviazioni a parte, i farisei erano religiosissimi, modelli di pietà, stimati anche da Gesù; pensiamo a Nicodemo, a Giuseppe d’Arimatea e a San Paolo. Per essere sacerdoti si richiedevano 24 requisiti, 30 per essere un buon governante, ma per essere un buon fariseo, studioso e garante della Legge, le doti richieste erano ben 48.

Al fondo della scala sociale vi erano i pubblicani, chiamati dai rabbini “tangheri – idioti”, cioè ignoranti della Legge e quindi popolo della terra. Erano gli esattori delle tasse di cui ritenevano una buona percentuale; il popolo li disprezzava come sfruttatori e collaborazionisti dell’impero romano.

È da questo vissuto socio-religioso che Gesù trae la sua parabola in cui, attraverso dieci atteggiamenti antitetici, vengono presentati due modelli di preghiera: uno da evitare e l’altro da imitare.

“Due uomini salgono al tempio a pregare”. Uno, fariseo, se ne sta in piedi, ben in vista, alta la testa, le mani levate al cielo. Così prega un buon giudeo e bella è la sua preghiera di lode: O Dio, ti ringrazio. Dubbia però la motivazione: perché non sono come gli altri , ma ben osservante della Legge. Chi di noi non ha ringraziato per la fortuna di non essere un drogato, delinquente, ladro, ma favoriti dalla famiglia, dalla comunità, dalla vocazione?

Ma lo sguardo del fariseo rivolto all’alto sterza bruscamente e si volta indietro, con disprezzo. Non capita a voi, come a me purtroppo, di rotare gli occhi sull’assemblea mentre nell’intimo affiorano giudizi e confronti più o meno benevoli? Provate invece a passare dall’uno all’altro ed ammirare in alcuni la dignità, la devozione, in altri la disponibilità e lo spirito di sacrificio. Una ricchezza di doni per cui diciamo: O Padre, ti ringrazio per questi fratelli che hai posto sul mio cammino.

Gesù non disprezza le opere del fariseo. E qui sta il paradosso dell’esistenza cristiana: facciamo di tutto per comportarci impeccabilmente, ma se questo ci fa cadere nella tentazione di compiacerci delle nostre buone opere, finisce per renderci estranei a Dio, a differenza di chi sbaglia ma ha l’umiltà di riconoscersi peccatore e bisognoso di perdono e di aiuto.

Il pubblicano invece… Gesù, compiaciuto, ne descrive il raccoglimento: confuso nella massa, fermo a distanza, quasi bloccato dal peccato, le mani che battono ripetutamente il petto, lo sguardo raccolto che non cerca confronti gratificanti. Se il fariseo, ricco di buone opere, se ne sta ritto e con disprezzo si autodistrugge, il pubblicano si pone in stato di accusa, senza meriti, senza credenziali, implorante. L’unica maniera corretta di porsi davanti al Signore e di pregarlo davvero è partire dal nostro bisogno e dalla sua misericordia. Ben lo esprime Dante nelle parole del dissoluto Manfredi, morto implorando misericordia: “Io mi rendei piangendo a quei che volentier perdona. Orribil furono li peccati miei, ma la Bontà infinita ha sì gran braccia che prende ciò che si rivolge a Lei” (Purgatorio III,119).

“io vi dico – conclude Gesù – questi se ne tornò a casa sua giustificato. Chi si umilia sarà esaltato”. Nei “Promessi sposi”, il romanzo del perdono, quando Manzoni parla della conversione dell’Innominato così commenta: “Era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare e che s’era umiliato da sé: ho ribrezzo di me. In quell’abbassamento aveva acquistato un non so che di più alto e di più nobile… Gli aveva detto il cardinale: Quando voi stesso sorgerete ad accusare voi stesso, allora, allora, Dio sarà glorificato! ” (cap. 33).

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