L’Istituto ha ancora bisogno di Fratelli missionari. Essi hanno giocato un ruolo importante non solo nei suoi esordi, ma durante tutta la sua storia. Fr. Benedetto Falda aprì il cammino e molti altri lo seguirono e scrissero pagine bellissime di servizio alla causa missionaria. Possano questi esempi incoraggiare tanti giovani di oggi a spendere la loro vita per un ideale così bello.

Attualmente nell’Istituto ci sono 29 fratelli. Il XIV Capitolo Generale ha deciso di organizzare un “Anno dei Fratelli IMC” (con inizio nel 1° maggio 2027), invitando tutto l’Istituto a pregare sulla vocazione a Fratello. Sia questa l’occasione per inserire più chiaramente la vocazione a Fratello nelle attività di animazione missionaria”.

Il Beato Fondatore dal Cielo accompagni oggi il cammino di coloro che intendono intraprendere questa strada, come fece con il nostro Fr. Benedetto. Buona lettura!

(Padre Pietro Trabucco, IMC, Castelnuovo don Bosco)

Oggi, nel nostro Istituto Missioni Consolata, si celebra la Festa dei Fratelli. Quando è nata e perché? Ecco le parole del Beato Fondatore.

Sono andato a spigolare fra i testi del Beato Allamano e ho scoperto che proprio lui stesso ha voluto che si celebrasse la festa dei Fratelli del nostro Istituto proprio nella festa di S. Giuseppe che fino ai tempi del Fondatore era celebrata il mercoledì dopo la seconda domenica di Pasqua. Successivamente Papa Pio IX, l’8 dicembre 1870, istituì la Solennità di S. Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, da celebrarsi il 19 marzo.

La memoria di S. Giuseppe Artigiano, invece, fu inserita nel Calendario Liturgico, come memoria per tutta la Chiesa, da Papa Pio XII, nel giorno 1º maggio1955. Fu a quest’ultima che venne finalmente associata la festa del patrocinio di S. Giuseppe  per i Fratelli e quindi in questa data l’Istituto vive con gioia la tradizione lasciataci dal Fondatore.

Con il vocabolario originale, dove i Fratelli sono ancora chiamati Coadiutori, ecco le parole del Beato Fondatore, come riportate nelle Conferenze Spirituali e poi riprese nel libro “L’Allamano e i Fratelli” curato da Padre Gottardo Pasqualetti:

202040501Allamano“S. Giuseppe è protettore di tutti, chierici, Coadiutori e sacerdoti: guai a chi non ha devozione a S. Giuseppe! In particolare, avete fatto bene ad inaugurare questa festa, come quella particolare dei Coadiutori [1]. Non c’è esempio migliore di S. Giuseppe; egli è il nostro maestro e ci deve proteggere in modo particolare. È il più gran santo. La Chiesa lo ha costituito il patrono universale di tutto il mondo. Pare perfino che abbia fatto un torto a S. Pietro e S. Paolo che erano sacerdoti, mentre S. Giuseppe non lo era. Per voi Coadiutori deve essere un santo orgoglio, che la Chiesa abbia preferito un santo che non era sacerdote per costituirlo patrono di tutta la Chiesa.

Questo vi deve insegnare ad amare il lavoro, a fare bene il vostro lavoro, a corrispondere alla vostra vocazione. Se corrisponderete bene alla vostra vocazione voi potrete anche essere superiori ai sacerdoti, avrete più merito e chissà che in Paradiso non avrà più merito un Coadiutore di tanti sacerdoti! Quanti Coadiutori si sono fatti santi! S. Pasquale Baylon, S. Alfonso Rodriguez non erano mica sacerdoti; eppure, si sono fatti santi.

Dovete pensare che siete missionari, e dovete avere un santo orgoglio di appartenere alla classe di S. Giuseppe. È vero che qui in comunità facciamo una sola cosa, siamo tutti uguali, tutti Fratelli. Ma voi Coadiutori avete meno responsabilità, mentre i sacerdoti e chierici avranno da rendere più conto a Dio.

In una congregazione c’è questo di bello, che si coopera tutti insieme a fare il bene, meritano tutti lo stesso: tanto chi scopa, come chi lavora o studia, purché si faccia solo quello che l’obbedienza ci comanda. Fortunati voi Coadiutori che potete abitualmente avere il lavoro in mano!

Conchiudendo, a S. Giuseppe dobbiamo chiedere delle grazie, ed amare il lavoro. Un missionario che non abbia questa parte di preparazione, che non sappia e che non abbia voglia di lavorare non è un vero missionario. Infatti, in principio che si va giù e che non si sa ancora la lingua, che si fa? Si lavora un poco e lavorando un poco quegli uomini là, ci dicono delle parole e ci insegnano la lingua. Non si può andare a predicare senza lavorare… Come se un missionario andasse giù e dicesse: “Ah, io voglio solo predicare e non lavorare… “e difatti tutti i nostri sacerdoti che vanno giù cominciano a lavorare. E poi ce n’è bisogno sempre del lavoro. Se in una missione c’è un superiore che non sa lavorare che cosa farà? Se non sa lavorare lui, come farà a fare lavorare gli altri? Quindi il lavoro bisogna saperlo e volerlo fare. Ai chierici è anche più necessario il lavoro. Io credo che per prepararsi a partire per l’Africa la migliore cosa da fare è quella di imparare a prendere amore al lavoro: imparare e saper fare un po’ di tutto …

Dunque, ringraziamo e preghiamo S. Giuseppe. Ed ora resta approvata la festa dei Coadiutori e fissata pel Patrocinio di S. Giuseppe.”

(Beato Giuseppe Allamano, Conferenze IMC, III, 563-565 – 15 aprile 1921, in Pasqualetti Gottardo [a cura], Il Fondatore e i Fratelli, EMC, 2014, pp. 55-56).

A tutti voi confratelli Fratelli,
auguri di ogni bene e che il Signore vi benedica,
vi mantenga perseveranti nella vocazione missionaria
per intercessione del Grande S. Giuseppe, Artigiano.

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Fratel Adolphe Mulengezi e Fratel Gaetano Borgo nel suo "laboratorio" a Certosa di Pesio. Foto: Archivio IMC

* Padre Pedro José da Silva Louro, IMC, Segretario Generale.

Nel cuore della pittoresca Certosa di Pesio, tra le maestose vette delle Alpi Marittime, si staglia la figura di Fratel Gaetano Borgo, missionario della Consolata e custode di una melodia unica di dedizione e armonia. Con una laurea in Ingegneria Meccanica conseguita presso il London Hendon College, ha plasmato una carriera che lo ha portato da Sagana Technical in Kenya al Consolata Seminary, per poi radicarsi saldamente nella comunità della Certosa di Pesio in Italia.

Nato ad Alpignano, Torino nel 1939, Fratel Borgo non è solo un "fratello lavorioso", ma un artigiano che intreccia l'amore per la vita in ogni suo gesto. Dalla meccanica alla carpenteria, dalle connessioni elettriche alla manutenzione quotidiana, affronta ogni compito con una fusione di pazienza, maestria e amore. La sua dedizione emerge come una melodia che permea il tessuto stesso della Certosa.

La melodia del conoscere e del condividere

20240127Gaetano2Il primo incontro con Fratel Gaetano è stato un'immersione in questa melodia. La sua accoglienza calorosa, la gioia nel salutare un nuovo "fratello" e il suo sorriso gentile hanno gettato le basi per una storia di ispirazione. Durante il mio soggiorno alla Certosa, ho avuto il privilegio di partecipare a un corso pratico organizzato da Fratel Gaetano. Egli ha dedicato del tempo speciale per me, organizzando un corso mirato a insegnarmi pratiche competenze come la meccanica, l'elettricità, la manutenzione, e altro ancora.

Nel suo laboratorio, la sua prima parola fu un invito a unirsi alla melodia dell'amore fraterno: "La nostra vita religiosa deve essere un esempio senza rumore, come insegnava il Beato Giuseppe Allamano: 'Il bene deve essere fatto senza rumore'".

Il corso pratico è stata un'esperienza unica, un'armonia di apprendimento e condivisione. Gaetano ha condiviso le sue conoscenze con passione, sottolineando che la vita religiosa va oltre l'opera meccanica, abbracciando l'arte di vivere con amore e dedizione. Alla fine del corso, oltre all'attestato di partecipazione, mi ha accolto con un gesto di generosità: un buon vino, dolci preparati con cura e un fiore, creando un momento di armonia comunitaria.

Nel suo laboratorio, la sua maestria abbraccia la manutenzione delle turbine, dimostrando una versatilità che riflette la sua dedizione al servizio incondizionato. La sua melodia si fa sentire in ogni gesto, in ogni competenza condivisa.

Alba di ogni giorno: l’amore come sinergia di lavoro e comunità

La lezione più preziosa di Fratel Gaetano è l'amore per il lavoro. Ogni mattina, nonostante la sua età, si alza presto per pulire e organizzare la Certosa, dimostrando che la dedizione al lavoro è un atto di amore, una testimonianza tangibile della sua fede e della sua missione. La sua passione per l'agricoltura non è solo un contributo pratico alla comunità, ma una testimonianza della sua connessione profonda con la natura.

Fratel Borgo emerge come una sinfonia di dedizione, versatilità e amore. La sua vita racconta una storia di armonia fraterna e competenza pratica, una storia che ha il potere di trasformare il mondo, una nota alla volta. Un incontro con Fratel Gaetano è un viaggio nell'anima di un uomo che ha dedicato la sua vita a intessere una melodia unica di amore e competenza nella Certosa di Pesio.

* Fratel Adolphe Mulengezi, IMC, studente in Comunicazione a Roma.

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I fratelli religiosi degli Istituti Missionari di Fondazione Italiana, missionari Comboniani, della Consolata, del PIME e Saveriani, si sono riuniti a Roma per un convegno nazionale. Il convegno aveva come tema: “Fratelli in una Missione comune: in cammino con la Laudato Si”. Il convegno è iniziato il 26 settembre 2023 presso la casa generalizia dei Missionari della Consolata.

Sedici fratelli appartenenti ai quattro Istituti Missionari di Fondazione Italiana hanno partecipato a questo incontro.

È stato un momento di grazia e di condivisione fra noi fratelli”  ha detto uno dei fratelli.

“Siamo sempre impegnati con tante cose da fare e a volte ci dimentichiamo di partecipare ad un incontro come questo nel quale ci si trova e si ha l'occasione di imparare dagli altri. “Questo è un tempo favorevole di aggiornamento dopo la fatica e il peso delle nostre attività missionarie” ha aggiunto un altro  fratello.

L'iniziativa di questo convegno dei fratelli è nato dal desiderio di analizzare insieme le problematiche attuali relative al nostro essere fratelli missionari e dal desiderio di conoscere il cammino dei fratelli all’interno dei diversi Istituti.

Questo convegno è il secondo dopo quello del 2019 che aveva come tema: “Identità e Missione del Fratello Religioso nella Chiesa”.

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Contributi di alcuni esperti

Durante il convegno, per vivere bene questo momento di fraternità e di condivisione, sono intervenuti nella riflessione  alcuni esperti.

Il Dottor Lucio Lamberti, economista e docente, ci ha presentato l’enciclica “Laudato Si” e ha sottolineato che la dottrina sociale della chiesa ha avuto da sempre un focus sul rapporto tra uomo e creato.

Ecco perché l’argomento principale trattato è l’interconnessione tra crisi ambientale della Terra e crisi sociale dell’umanità, ossia l’ecologia integrale. Papa Francesco ha precisato infatti  che “non si tratta di un’enciclica verde ma di un’encicla sociale”

Fratel Alberto Parise, comboniano, nella sua presentazione si è focalizzato sulla piattaforma di azione, percorsi di attuazione dell’enciclica. Ci ha fatto conoscere come possiamo partecipare a questa piattaforma in quanto comunità missionarie, ma anche l’importanza di andare oltre alle singole azioni virtuose per fare sistema.

Don Giacomo Incitti, canonista, ha basato la sua relazione sull’aggiornamento sulla questione “Istituti Misti” e considerazioni riguardo il rescritto di Papa Francesco.

Nel tempo dedicato ai lavori di gruppo si sono condivise le esperienze e le situazioni missionarie.


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Messa di chiusura

“Vi incoraggio a continuare con lo stesso spirito missionario e di fraternità”.

Il 28 settembre 2023, dopo un momento di aggiornamento e di fraternità, siamo giunti alla fine del nostro secondo convegno nazionale dei fratelli degli istituti missionari di fondazione italiana. Abbiamo reso grazie a Dio per il dono della vocazione e per tutto quello che ci ha fatto compiere fino ad oggi.

Con canti di gioia, i fratelli hanno celebrato la Messa di chiusura presieduta da P. James Lengarin Bhola, Superiore generale dei missionari della Consolata e concelebrata da P. Fernando García Rodríguez, Superiore generale dei missionari Saveriani.

Durante la sua omelia, Padre James ci ha incoraggiato dicendo : “ È bellissimo vedere i fratelli riuniti per 3 giorni di convegno; vi incoraggio a continuare con lo stesso spirito missionario e di fraternità”. Dobbiamo essere pronti a cercare l’interesse del Signore nella nostra vita attraverso la nostra consacrazione affinché continuiamo ad essere testimoni veri e credibili del Signore.

Carlo Zacquini è un fratello Missionario della Consolata che ha raggiunto l’Amazzonia brasiliana alla fine degli anni sessanta... e non l’ha mai abbandonata. Molto, nella missione del Catrimani, parla di lui.

Come è stato il tuo arrivo nelle missioni della Prelazia di Boa Vista

Quando sono arrivato non parlavo nemmeno portoghese, mi hanno dato una grammatica e un dizionario e ho dovuto cominciare da solo e senza aiuto ma non capivo niente. Dovevano essere certamente una buona grammatica e un buon dizionario ma non erano pensate per uno straniero: ci sarebbe stato bisogno di una guida o di una persona che mi potesse aiutare. Ho chiesto al nostro superiore di andare in una scuola della prelazia per assistere a qualche classe di portoghese assieme ai bambini ma lui mi ha risposto che non era necessario. Quindi sono stato assegnato a dei lavori manuali per i quali non avevo molto bisogno di usare il portoghese, la mia professione era meccanico aggiustatore ed ero andato là per montare una scuola professionale,  e così lavoravo dalla mattina alla sera. 

Gli indigeni li ho scoperti quando alcuni di loro, di passaggio in città, tendevano le loro amache in un portico della Prelazia e si alloggiavano da noi. Loro venivano in città cercando di risolvere alcuni problemi e dovevano ricorrere alle istituzioni statali incaricate degli indigeni, si trattava quasi sempre di funzionari che non risolvevano un bel niente. L’unico appoggio esterno che ricevevano era quello della chiesa e per quello si fermavano con noi.

Loro parlavano un portoghese molto elementare e quindi io riuscivo a capirli magari anche meglio degli altri; anni dopo vennero pubblicati in un libro chiamato “Ritorno alla Maloca” tanti dei loro racconti che il padre Silvano Sabatini aveva registrato. Ricordo la testimonianza di un leader che era venuto in città per recuperare una giovane donna che una famiglia aveva portato a Boa Vista con tantissime promesse, poi alla fine tutte disattese, ma che alla fine lavorava gratuitamente nella casa.

Molto presto mi sono innamorato della causa degli indigeni e della missione in mezzo a loro. La prima volta che ho abbandonato la città è stato per raggiungere un gruppo di indigeni non contattato che era stato avvistato: li abbiamo potuti raggiungere e siamo stati con loro tre giorni. È stata una cosa veramente fantastica: io sono rimasto super impressionato da questa esperienza e da quel momento ho cercato di fare tutto quello che era possibile per poter andare a lavorare con questa popolazione.

La missione del Catrimani

Quella missione, dove ho passato tutta la mia vita missionaria, è stata fondata quando io ero già là ma stavo lavorando alla famosa scuola che era stato il mio primo lavoro. I primi missionari nella missione del Catrimani sono stati p. Giovanni Calleri e p. Bindo Mendolesi che erano partiti alla fine del 1965. Loro con delle barche e un certo numero di uomini, la maggior parte di loro indigeni, avevano disceso il Rio Branco e risalito il Rio Catrimani, superando anche rapide e cascate, fino a un certo punto dove decisero fermarsi e organizzare una prima sede della missione aprendo anche una piccola pista di atterraggio. Gli indigeni erano nei paraggi ma non vicino al fiume grande anche perché quello è il regno di una quantità straordinaria di zanzare che fanno, per dirlo nel migliore modo possibile, la vita quasi impossibile. Questo gli indigeni lo sapevano e invece noi no. Io usavo pantaloni lunghi, mettevo le calze sopra i pantaloni, usavo anche camicie con maniche lunghe e anche così non ero al sicuro del tutto. 

Quando io raggiunsi quella missione, pochi mesi dopo essere stata aperta, c’era già la pista che si poteva usare, anche se poi ho dovuto lavorarci non poco per metterla in buone condizioni. Ero andato là perché Calleri era andato via e il padre Bindo era anche parecchio stanco: non riusciva a imparare la lingua e non riusciva nemmeno a cominciare a battezzare e far catechesi; per lui quella non era una missione.

Mi avevano mandato per fargli compagnia durante un mese e alla fine di quel mese ci sarebbe stata la visita canonica che avrebbe dovuto prendere delle decisioni con rispetto alla nuova missione. Quando arrivò l’aereo che doveva portare i visitatori da quello scendono il superiore generale Fiorina, il vescovo, il superiore regionale... c’era spazio solo per il padre Bindo che aveva l’intenzione di tornare a Boa Vista. 

Non era per niente facile rimanere là. Anche a me sarebbe piaciuto dire che volevo tornare a Boa Vista ma né ebbi il coraggio di farlo soprattutto perché temevo che se l’avessi fatto forse non mi avrebbero più rimandato indietro e io ci tenevo a continuare quella avventura.

Loro rimasero con noi non più di due o tre ore; in quel tempo il padre Fiorina, Superiore Generale, mi convocò nella baracca di paglia che era la nostra casa e mi chiese se volevo rimanere in quella missione. Quando dissi di sì la mia consacrazione al Catrimani era completa. Certamente avrei magari anche dovuto dire che erano finite le munizioni per la caccia così necessaria per mettere qualcosa sotto i denti; anche la baracca non era stata ben costruita, aveva il tetto troppo alto e quando pioveva forte ci pioveva dentro;  anche la barca aveva problemi... ad ogni modo accettai la decisione e non aggiunsi nient’altro; le cose materiali si sarebbero poco a poco sistemate. 

Oggi se dovessi rifarlo lo rifarei esattamente allo stesso modo, volevo rimanere con quella gente della quale tra l’altro capivo ancora abbastanza poco. Non ero affatto preparato per quell’incontro, per quella cultura, per studiare una lingua sconosciuta (non si sapeva di qualcuno che l’avesse studiata e se magari questi studi ci fossero noi non ne avevamo accesso). Addirittura non sapevo nemmeno come si chiamasse questo popolo: si usavano nomi comuni e generici per indicarlo.

Che si chiamassero Yanomami... l’ho saputo quando un giorno, mentre stavo sistemando delle cose nella mia baracca, ho sentito due uomini adulti che parlavano fra di loro e sembrava stessero indicando loro stessi con questo nome. Li ho interpellati e mi hanno confermato il nome e anche detto che tutti gli altri, me compreso, si chiamavano Nap. Era la prima volta che sentivo quel nome, dopo vari mesi. Chissà quante volte avevano detto quella parola anche in mia presenza, ma io non l’avevo mai percepito. Nap era per indicare persone straniere e anche persone pericolose.

Quando sono tornato a Boa Vista la prima volta ero così malconcio che mi hanno subito portato all’ospedale dove sono rimasto due mesi. Appena mi hanno dimesso sono partito in fretta e furia per comprare alcune cose di cui avremmo avuto bisogno nella missione e sono ritornato.

Il primo anno sono stato alla fine quasi tutto l’anno da solo fino a quando mi ha raggiunto il padre Saffirio. Erano quelli i giorni in cui il padre Calleri, che si era imbarcato in una missione pericolosa, aveva smesso di comunicare via radio e si stava temendo il peggio. La prima notizia della morte di Calleri io la seppi dalla radio “Voice of America” che era l’unica che si poteva sentire. Poche settimane dopo il silenzio radio la sua spedizione venne ritrovata massacrata.

Con il padre Saffirio abbiamo fatto abbastanza tempo assieme e assieme è un modo di dire perché quando io dovevo tornare a Boa Vista per essere curato all’ospedale Saffirio era nel Catrimani. Poi magari ci davamo il cambio, io al Catrimani e lui all’ospedale. Era davvero una missione difficile. Oggi noi là abbiamo una piantagione e prodotti che possiamo coltivare, raccogliere e consumate ma allora si era al principio e non c’era niente di tutto questo. Nemmeno gli Yanomami coltivavano alcunché. Da buoni cacciatori e raccoglitori, ogni giorno andavano in foresta per raccogliere o cacciare quello di cui avevano bisogno per sfamarsi. Al principio io li seguivo con la mia calibro 22 che è risultata essere abbastanza efficiente: tutto quel che cadeva dagli alberi era commestibile; il frutto della cacciagione si divideva fra tutti con un criterio tipico degli Yanomami.

Noi poco a poco abbiamo introdotto anche “rinnovamenti” nei costumi degli Yanomami: utensili, strumenti di lavoro per l’agricoltura. Ci eravamo anche inventati una specie di “moneta interna”: dei piccoli cartellini colorati che erano consegnati a cambio di lavoro o servizi prestati. Le buste erano tutte assieme ma nessuno ha mai pensato sottrarre ad altri i cartellini... per la loro mentalità tutto era per la comune utilità. 

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Immagine di una comunità Yanomami. Foto Sabatini. Archivio IMC

Come vedi il futuro del popolo indigeno a Yanomami?

Non è un futuro affatto facile... in tutti questi anni si è fatto proprio di tutto per eliminarli in qualche modo: l’abbandono, l’invasione delle terre, la contaminazione dei fiumi, lo sfruttamento minerario, la mancanza di servizi... tutto congiura contro i popoli indigeni amazzonici come gli Yanomami.

Certamente tanto è stato fatto come per esempio quella campagna internazionale per mezzo della quale si è giunti al riconoscimento e alla protezione del loro territorio ancestrale che è il più grande del Brasile. Quindi ci sono tutti gli strumenti legali... ma non sempre sono rispettati. In modo drammatico, soprattutto durante il governo Bolsonaro che era un nemico giurato degli indigeni, si stava cercando di annullare tante conquiste.

La strada che il governo militare aveva costruito nelle prossimità di questo territorio, era costata milioni di dollari e l’abbiamo sfruttata anche noi (e in parte anche mantenuta) per non dipendere troppo dai taxi aerei che erano costosi, incerti e a volte anche pericolosi. Ma alla fine abbiamo rinunciato perché era diventata la via di ingresso di ogni genere di cose e persone che venivano a fruttare le ricchezze dell’Amazzonia e a distruggere l’unico ambiente nel quale gli Yanomami possono vivere degnamente. La situazione a volte degenerava a tal punto che c’erano anche stati degli scontri armati ai quali gli Yanomami non prendevano opporsi né per numero né per capacità militare ed erano costretti a fuggire.

È difficile dare una dimensione a questo sterminio e a queste morte: non esiste un censimento sicuro del numero di indigeni e nemmeno un registro delle causa di morte.

Dopo il periodo terribile di Bolsonaro è arrivato il governo di Lula che, pur non essendo specialmente sensibile alla situazione indigena anche perché le sue estrazioni sono molto diverse, si è dichiarato a favore delle minoranze etniche ed è disposto a riparare molti dei danni che sono stati fatti. 

Non sarà facile, sarà un lavoro duro e anche molto lungo: ci sono poche persone preparate per poter risolvere certi problemi in mezzo a una popolazione come quella; ci sono molti medici che si offrono come volontari per andare, ma non sanno cosa fare; la mancanza di interpreti e di una minima conoscenza di questa popolazione tante volte è perfino controproducente. Io spero solo che possano persistere in questa lotta perché la situazione è terribile e i bambini continuano a morire.

Poi bisogna anche sottolineare che, malgrado le buone intenzioni del governo, in varie occasioni la polizia non è riuscita a mandare via i garimpeiros. Loro sono ben organizzati, ben armati e sufficientemente protetti. Le minacce sono all’ordine del giorno e fanno desistere o posticipare azioni che sarebbero necessarie ed urgenti. La legge è bella ma come sempre quando il danneggiato è un povero che non ha peso politico, militare ed economico... allora non sempre si applica come si dovrebbe. 

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