Il comandamento primo di tutte le religioni e civiltà è quello di proteggere la vita, senza alcuna restrizione, perché la vita non ci appartiene. Questo principio universale non ammette eccezioni: "Non uccidere" né con le pallottole, né con la fame, né con la calunnia, né con il disprezzo.

Nella situazione attuale dell'Ecuador, come quella del nostro continente e del nostro pianeta, la vita è una realtà che conta molto poco. Lo vediamo in particolare nel nostro Paese con la dichiarazione di "guerra interna" da parte del governo: una dozzina di presunti "terroristi" assassinati, più di 10.000 giovani imprigionati senza un valido procedimento penale, di questi solo circa 300 sono passati attraverso un processo di giustizia. E ancora quanti scomparsi, quanti torturati, quanti cadaveri abbandonati nelle strade? I media tradizionali tacciono su tutto questo, dimenticando quando fa loro comodo la legge suprema: "Non uccidere".

Tutti noi diventiamo complici di tutto questo quando non ci indigniamo, quando restiamo indifferenti, quando restiamo in silenzio, quando non agiamo per fermare o anche solo ridurre questi oltraggi. Con queste omissioni collaboriamo all'escalation e al circolo infernale della violenza. Non vogliamo riconoscere che la violenza non si reprime con l'uso delle armi o con lo spauracchio della pena di morte. Al contrario, esse incoraggiano ancora più violenza e morte.

Si tratta di trovare le cause della violenza e di combatterle con altri mezzi.

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Una giovane donna chiede la fine della violenza durante una manifestazione a Quito nel novembre 2023. Foto: vozdeamerica.com

In Ecuador, le due principali cause di violenza sono la disoccupazione e la corruzione, favorite dal sistema neoliberista. La maggioranza degli ecuadoriani con il "sì" all'insidiosa consultazione di Lenin Morena, con l'elezione di Guillermo Lasso e ora con quella di Daniel Noboa ha votato per la continuità e il consolidamento di questo sistema di morte che dura da 7 anni. Finché continueremo ad eleggere presunti salvatori membri della classe sociale che ci sfrutta, continueremo a stare dalla parte della violenza e dell'espropriazione della vita. Non ci rendiamo conto che i nostri governanti fanno il contrario di quello che ci promettono in campagna elettorale?

Questa classe sociale composta da traditori, banchieri e grandi imprenditori vive sul nostro sfruttamento e impoverimento. Crediamo alle loro bugie: "Niente più tasse! Niente più disoccupazione! Niente più persecuzione politica! Niente più salari da miseria! Niente più ospedali senza medicine! Niente più abbandoni scolastici!". La realtà ci mostra la falsità di queste promesse, oppure preferiamo essere ingannati e sfruttati? Quando potremo gridare: "Basta con la violenza!". I giovani del nostro Paese stanno pagando con le loro vite uccise o distrutte il prezzo dei nostri ripetuti errori e della nostra colpevole ignoranza.

Ora il presidente Noboa propone anche un referendum per confermare le bugie della sua campagna presidenziale e rafforzare il sistema neoliberale che ci sta uccidendo lentamente e violentemente. Come se non bastasse, per nostra grande sfortuna, i sondaggi ci dicono che il "sì" trionferà.

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Il candidato presidenziale ecuadoriano assassinato, Fernando Villavicencio, parla durante un comizio elettorale a Quito, il 9 agosto 2023.

Noi stessi stiamo tracciando la strada verso una più grande situazione di miseria. Quando apriremo gli occhi e decideremo di vivere una vita retta e dignitosa? Quando affronteremo il sistema neoliberista che ci governa e ci rende miserabili?

Solo invertendo le cause che provocano la violenza riusciremo ad eliminarla. Se queste cause sono responsabilità di ognuno di noi, come l'indifferenza e la complicità, sono queste le due realtà che devono essere superate. Per questo le religioni e la Bibbia in particolare ci indicano una via, invitandoci ad amare: "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Se la corruzione è un'altra causa di violenza, una causa collettiva di violenza, dobbiamo bandire ciò che la provoca e avviare una convivenza fraterna.

Gesù di Nazareth ci apre una strada collettiva: unirci per realizzare la fraternità e fare dell'amore l'asse delle nostre relazioni. Gesù ha lasciato in eredità a noi che abbiamo promesso di seguirlo il suo unico comandamento: "Vi amerete gli uni gli altri come io vi ho amato". La vita sociale non è solo un impegno individuale, è soprattutto un impegno collettivo: organizzarsi per rendere possibili relazioni di rispetto, di giustizia e fraternità. Non raggiungeremo mai queste tre realtà se non ci uniamo in modo organizzato: Questo si chiama impegno collettivo per la "civiltà dell'amore".

L'attuale sistema neoliberale nega questa civiltà dell'amore come modalità individuale e collettiva perché vive dello sfruttamento dei lavoratori e della morte dei disoccupati. Sono queste le cause che provocano l'attuale stato di violenza e l’errore dei giovani nel sostenere il narcotraffico. Questa situazione non cambierà se non cambieremo noi stessi come singoli, come collettività e soprattutto come organizzazione.  Questo sistema perverso deve essere rovesciato e sostituito.

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Mitad del Mundo: il punto in cui la linea equatoriale passa attraverso Ecuador. Foto: Jaime C. Patias

Attualmente i popoli indigeni, le donne e i giovani sono i gruppi più organizzati che possono rendere possibili nuovi modi di fronteggiare e cambiare l'attuale sistema. Papa Francesco lo conferma nei suoi incontri con i movimenti popolari. Essi sono impegnati in una lotta non violenta, attiva e collettiva, agiscono democraticamente con la partecipazione di tutti, sono creativi nel presentare sia le loro denunce che le loro proposte alternative, sono intelligenti e festosi nelle loro azioni e procedure, credono fermamente che una "civiltà della Vita Buona sia possibile". Molti cristiani sono già coinvolti in queste forme di lotta con le loro proposte innovative per invertire la violenza dei prepotenti.

San Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980, chiese ai soldati salvadoregni: "Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contrario alla Legge di Dio. Una legge immorale non deve essere rispettata da nessuno".

* Padre Pedro Pierre Riouffrait, sacerdote diocesano nato in Francia nel 1942, missionario in Ecuador dal 1976.

Il 29 gennaio ricorre il 114° anniversario della nascita di monsignore Leonidas Proaño. Nelle celebrazioni di commemorazione vengono messe in evidenza alcune caratteristiche che meritano una riflessione: il suo coraggio e il suo impegno pastorale; la sua identità, basata sulla sua origine e sulla sua evoluzione come figura ecclesiale e sociale; il suo impegno per una causa, ecc.

Leonidas Eduardo Proaño Villalba nacque a Ibarra (nella regione di Imbabura, Ecuador) il 29 ottobre 1910 in una casa e una famiglia povera. Potremmo dire di lui che era un sopravvissuto poiché i suoi tre fratelli prima di lui morirono in tenera età e i suoi genitori si guadagnavano il loro magro sostento e mantenevano la famiglia lavorando come artigiani tessitori di cappelli, così come facevano la maggior parte dei loro compaesani.

In questo contesto Leonidas ricevette un'educazione cattolica e disciplinata, mentre aiutava i genitori Agustín e Zoila. Lui iniziò la sua formazione al sacerdozio cattolico nel 1923, quando entrò nel Seminario Minore "San Diego" di Ibarra. Sette anni dopo fu inviato dal suo vescovo a Quito per continuare la sua formazione filosofica e teologica presso il Seminario Maggiore "San José". Il 4 luglio 1936 fu ordinato sacerdote. I suoi primi incarichi pastorali furono nella sua diocesi di Ibarra e poi come vescovo a Riobamba dal 1954 al 1985.

Valorizzare il suo ricordo

Sorgono alcune domande a proposito delle fonti della sua audacia e del suo stile di vita; sull'interesse a conservare il suo ricordo e a studiarlo evitando così il pericolo di dimenticarlo; sulla sua importanza oggi per l'Ecuador e per la Chiesa in generale. In questa riflessione in occasione della sua nascita sviluppo solo il tema della valorizzazione del suo ricordo.

È evidente che la traiettoria di Mons. Proaño non può essere riassunta in poche parole. Possiamo però mettere in evidenza alcuni tratti. La sua costanza nell'essere una buona notizia per i poveri della provincia di Chimborazo. Il coraggio e la forza della sua parola e della sua testimonianza che hanno aiutato e aiutano tuttora a far scendere dalla croce gli indigeni, in un quadro socio-politico di violenza, povertà e migrazione, che produce morte, paura e sofferenza per donne, bambini e anziani.

Non si tratta di mettere sul tavolo della discussione questi temi, ma di ricordare Taita (padre in lingua kichwa) Proaño e di capire come la sua figura possa illuminare le sfide di oggi e aiutare soprattutto la Chiesa nel suo compito di accompagnare il Calvario del XXI secolo. Si ritiene che la traiettoria pastorale e sociale di Proaño abbia avuto un impatto significativo sulla Chiesa di Riobamba, in particolare sugli indigeni e sui poveri, nei quali è stato fonte di speranza.

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Artista: Pablo Sanaguano, 2024.

Il Taita è ancora vivo

La commemorazione stessa è una dimostrazione che egli è ancora vivo in mezzo ai poveri e a coloro che sono solidali con la sua causa, provenienti da molte parti del mondo. Dobbiamo ricordare che questa presenza non è fisica ma simbolica: è la "lotta" contro le forze contrarie alla celebrazione della sua memoria, insensibili al dolore degli altri.

Sfogliando i libri dei canti che si usano a Riobamba scopriamo la canzone "Tu te ne vai" ma la strofa continua dicendo: "ma restano gli alberi che hai piantato". A trentasei anni dalla sua morte, un buon gruppo di noi lo ricorda ancora, leggendo i suoi libri e facendo ricerche sulla sua vita e sul suo lavoro. Questi sono i semi piantati che ora sono alberi.

Le celebrazioni sono state molto ricche e varie: culturali e artistiche; accademiche e teologiche; evidentemente non sono mancate le celebrazioni eucaristiche. In tutte si è vista una nutrita partecipazione di cittadini e anche stranieri. Si è trattato di vere e proprie manifestazioni popolari che hanno ricordato il maestro, il padre, che ha dato tutto per la liberazione degli oppressi, degli emarginati e degli sfruttati.

Il popolo festeggia più di trent'anni di vita solidale con i poveri, i bambini, le donne e gli uomini, tutti maltrattati e disprezzati. Le manifestazioni confermano un lavoro pastorale di resistenza e perseveranza, alla ricerca della liberazione integrale. Allo stesso tempo, esprimono l'impegno a continuare la lotta per la liberazione dei poveri, ringraziando Dio per la loro fedeltà al Vangelo.

Perseverante e instancabile

Tra il 1954 e il 1988, Proaño ha lottato instancabilmente per la giustizia, la dignità umana e la vita dei poveri. Non si è mai vergognato di stare al fianco degli indigeni, malvisti e trattati crudelmente dalla società e dalla stessa Chiesa. Così, tenendo conto della nuova ecclesiologia del Concilio Vaticano II (1962-1965), del Patto delle Catacombe che vari vescovi avevano firmato in quell’occasione, della Dottrina sociale della Chiesa, dei documenti di Medellin (1968) e Puebla (1979) e della realtà della provincia del Chimborazo, ha invertito la storia e ha presentato il Risorto a coloro che desideravano risorgere.

La proposta di valorizzare la sua memoria va oltre la conservazione di archivi e biblioteche. La visione cristiana della risurrezione è percepita come una correlazione di forze: negazione e accettazione, silenzio e annuncio. Lo deduciamo dall'omelia di Proaño nel primo anniversario del leader indigeno Lázaro Condo, ucciso nella lotta per la terra: "Lázaro è risorto". Pertanto, Proaño e la sua opera sono ancora presenti e sono risorti nonostante il potere dei contrari.

* Padre Maurice Sheith Oluoch Awiti è un missionario della Consolata del Kenya-Africa in Colombia.

La città di Puyo nell'Amazzonia ecuadoriana, fra il 10 e il 12 febbraio, ha ospitato l'ottavo Incontro e Festival della Gioventù Amazzonica, con il seguente motto: "Giovani, alzatevi e, con Maria, evangelizzate l'Amazzonia".

Si sono riuniti giovani cattolici proveninenti dai cinque vicariati amazzonici dell'Ecuador: Sucumbíos, Aguarico, Napo, Puyo e Méndez, con l'obiettivo di far nascere in questo momento festivo e comunitario un incontro personale con Cristo per mezzo della formazione, la condivisione fraterna, la preghiera e la celebrazione dell’eucaristia. Si è visto come importante il riconoscimento della propria identità amazzonica per intraprendere un cammino di evangelizzazione e di testimonianza dell’amore di Dio in questa regione del paese.

Il festival si è celebrato la prima volta nella stessa città di Puyo nel 2004 con il motto: "Giovani vivete la vostra fede con Cristo" e da quel momento, con una cadenza di 3 o 4 anni, ci sono stare altre celebrazioni: nel 2007 a Sucumbíos con il motto "Giovani amazzonici in missione con Cristo"; nel 2009 nel Napo al grido di "giovani missionari e discepoli di Gesù"; nel 2014 nel Vicariato di Aguarico guidati dalla frase "sono giovane Signore e non ho paura delle difficoltà per lottare per la giustizia"; nel 2016 ancora una volta Sucumbíos con l’espressione "quant’è bello essere misericordiosi" e nel 2019 nuovamente nel Napo con il motto "i giovani con fede e gioia danno vita e difendono l'Amazzonia". In quell’ultima occasione la partecipazione era stata davvero significativa: 600 giovani amazzonici. Dopo la pausa obbligata dal Covid siamo arrivati all’appuntamento 2023.

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Rafforzare l'incontro personale con Cristo

Gli obiettivi dell'ottavo festival giovanile sono stati quelli di conoscere la realtà delle situazioni vissute dai giovani dell'Amazzonia e le sfide che trovano nella società e nella Chiesa; rafforzare il loro incontro con Cristo per farli diventare protagonisti del rinnovamento della Chiesa della regione e approfondire in chiave amazzonica il tema proposto per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona.

La metodologia utilizzata per la riflessione è stata quella del vedere, illuminare e agire. Vedere la realtà dell'evangelizzazione delle comunità indigene amazzoniche. Illuminare questa realtà con il magistero della Chiesa, specialmente le esortazioni apostoliche “Cristo Vive”, dedicata alla gioventù, e “Querida Amazonía”. L'azione poi si tradurrà in concrete attività di evangelizzazione organizzate nelle rispettive giurisdizioni invitando tutti a prendersi cura della Casa Comune e a valorizzare l'interculturalità dell'Amazzonia.

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Delegazione dall’Amazzonia colombiana

In questa celebrazione non hanno partecipato solo giovani amazzonici ecuadoriani ma anche, per la prima volta, giovani dell'Amazzonia colombiana. Era infatti presente una piccola delegazione della città di Florencia e di Cartagena del Chairá, che rappresentavano l’animazione Missionaria e Vocazionale dei Missionari della Consolata, dell'Arcidiocesi di Florencia e della Diocesi di San Vicente del Caguán.

L'obiettivo di questa presenza è stato quello di mostrare che in Amazzonia "i fiumi non separano ma uniscono"; che i giovani amazzonici ecuadoriani interagiscono con i giovani amazzonici colombiani; che l'Amazzonia è una sola nonostante i confini che cercano di dividerla. 

Era anche l’occasione di articolare legami fra le diverse giurisdizioni ecclesiastiche amazzoniche per continuare a sognare insieme nella costruzione di una pastorale giovanile dal volto amazzonico.

Per i giovani colombiani presenti si trattava anche di imparare dall’esperienza consolidata dei giovani ecuadoriani. Le certezze e le sfide di questo incontro sono state molte: ispirati in Maria, che per prima si è messa in cammino, i giovani sono stati invitati a continuare a tessere legami di fraternità e identità nello spirito del Sumak kawsay, la “vita in pienezza”, un principio appartenente alla cultura indigena e anche recepito dalla costituzione dell’Ecuador. 

Il prossimo appuntamento nel 2026 nella città di Macas, nel Vicariato Apostolico di Méndez.

P. Kim, nato il 19 dicembre 1973 a Geum San, provincia di GimJe (Corea del Sud), in una famiglia composta dai genitori Kim Ki Su e Jo Bok Yeo e da una sorella, è tornato in patria dopo dieci anni di lavoro missionario fra la Colombia e l’Ecuador. Ha rilasciato questi riflessioni al portale “Consolata America”.

I miei genitori mi hanno dato la vocazione

Non è esagerato dire che i miei genitori mi hanno trasmesso la vocazione sacerdotale. Mio padre, che era un falegname, dopo il matrimonio si trasferì in un paesino dove vivevano dei pii cattolici che ha uno spazio particolare nella storia della chiesa cattolica coreana. Sono nato lì e quindi sono cresciuto in un ambiente molto religioso che ha anche prodotto non poche vocazioni sacerdotali e religiose. quando io avevo 8 anni tutti i membri della mia famiglia sono stati battezzati.

Ai tempi della scuola ero molto impegnato nella parrocchia ma non ero interessato a diventare sacerdote. Tuttavia, mi sono spesso interrogato sulla mia identità personale, su chi ero io. Era una domanda che non mi lasciava in pace.

Poco prima di entrare alla Consolata stavo lavorando nella Hyundai e ogni fine settimana andavo in discoteca con i miei amici... eppure, in un angolo del mio cuore, c’era un vuoto che non riuscivo a colmare fino a quando, un giorno, ho sperimentato un cambiamento interiore e da quel momento ho deciso di vivere una vita diversa. A 25 anni ho venduto la mia auto e il mio appartamento. I miei genitori, all'inizio, erano contrari perché ero l'unico maschio in famiglia ma sapevo che una nuova vita inizia sempre così: con decisioni radicali e superando questo tipo di avversità.

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Con gli studenti del collegio Allamano (Bogotà)

Sacerdote missionario della Consolata

Quando sono arrivato in Colombia non avevo mai vissuto a 2500 metri sul livello del mare e quindi ho fatto fatica anche ad adattarmi all'altitudine ma poi la lingua e la cultura sono stati l’impegno maggiore soprattutto quando, poco più di un anno dopo essere arrivato in Colombia, sono stato mandato alla pastorale indigena nella regione di Sucumbíos, in Ecuador. In quella missione è stato impegnativo adattarsi all'ambiente amazzonico, caldo e umido, e alla lingua e cultura indigena. Quel primo salto è davvero stato complicato e difficile anche se ha lasciato un segno nella mia vita missionaria; mi ha permesso di conoscere da vicino la ricchezza della cultura indigena e la gravità della deforestazione e dello sfruttamento ambientale.

Tra la giungla e la città

Dopo l’esperienza di Sucumbíos ho lavorato per poco più di 3 anni come vice parroco nella parrocchia di “Nuestra Señora de Fátima” nella città di Manizales, nella bella regione del caffé situata nella regione occidentale della Colombia. Ho anche aiutato ad amministrare la casa “San José” che ospitava i nostri missionari anziani. Forse il periodo trascorso a Manizales è stato il mio periodo più felice.

Poi il 9 novembre 2019 sono andato a Puerto Leguízamo ancora una volta nella regione amazzonica, non lontano da Sucumbíos dove ero già stato ma in Colombia e non in Ecuador. Ho lavorato come vicario nella cattedrale e vissuto con intensità la fraternità con i missionari presenti in quella geografia, tra di loro anche il vicario apostolico Mons. Joaquín Umberto Pinzón.

Ho fatto del mio meglio e ho vissuto felicemente, ma onestamente non posso cancellare le brutte impressioni e il dolore che mi è rimasto nel cuore, quando ho visto da vicino la situazione di violenza che dilagava nella regione: innumerevoli persone scomparse o reclutate o uccise vittime dei conflitti socio-politici. Eppure la gente viveva tranquilla e come se nulla fosse accaduto. L'esperienza di tre anni a Leguízamo è per me come l'esperienza che fece Fëdor Dostoevskij quando trascorse quattro anni a Omsk.

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Con il vescovo e membri dell'equipe missionaria in una comunità indigena di Sucumbíos

Ritorno in patria

Ad essere sincero, sono molto felice di essere tornato nel mio Paese. Negli ultimi due anni mi sono successe molte cose. Dopo un incidente in moto a Leguízamo, un'operazione di rimozione della cistifellea per calcoli biliari e la morte dei miei genitori, ho sentito la necessità di cambiare il luogo della missione.

È stata un'esperienza preziosa in Colombia e credo che rimarrà per sempre nella mia memoria. Grazie a tutti i sacerdoti della Regione Colombia.

* Kim Myeong Ho è un missionario coreano della Consolata che ha trascorso 10 anni in Ecuador e Colombia.

 

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