Dopo l'ordinazione P. Caffaratto avrebbe dovuto partire per il Kenya a cui era stato destinato per il seminario di Nyeri. Non poté farlo a causa della guerra. Venne destinato a altri uffici di grande importanza nell'Istituto: Maestro dei novizi per vari anni; una folta schiera di missionari fu da lui formata alla vita religiosa e missionaria, secondo le caratteristiche dell'Istituto. Poi superiore e direttore del seminario teologico di Torino, che allora aveva una consistenza di un centinaio di seminaristi professi. Nel frattempo era anche stato eletto Consigliere Generale. Quindi passò a Roma come Procuratore dell'Istituto e fu chiamato ad avviare e dirigere il Consiglio Missionario Nazionale, che divenne poi l'attuale Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, e l'Ufficio Missionario della Diocesi di Roma. Dopo un periodo passato a Dubino, fu destinato alla Regione Italia e inviato alla comunità di Olbia. Disponibile per l'aiuto nel ministero percorse la diocesi per soddisfare le richieste e provvedere alla cura pastorale di comunità che altrimenti non avrebbero potuto avere la presenza del sacerdote, specialmente per la Messa domenicale. Ora, dice, "i miei passi sono sempre più corti e incerti e non me lo posso permettere". La sua opera però continua nella chiesa della comunità, aperta al pubblico, di cui gli è stata affidata e conserva ancora la responsabilità pastorale. Sempre presente, soprattutto per il ministero delle confessioni, dell'ascolto, dell'incoraggiamento e della consolazione.
In occasione del suo giubileo sacerdotale, gli è stata fatta una intervista da Marianna Micheluzzi, che riportiamo.
P. Giuseppe Caffaratto, cosa l'ha spinto, preadolescente, ad entrare in un istituto missionario?
Al mio paese, Cavour, in provincia di Torino, avevo avuto l'opportunità d'incontrare e frequentare, per un certo periodo, dei missionari, che erano capitati lì per l'animazione. Il coinvolgimento per me è stato forte. Ho cominciato subito a pensare che sarebbe stato bello diventare missionario. A breve tempo il sogno è divenuto realtà. Sono entrato in Istituto, dove ho trovato un ambiente famigliare e accogliente. L'Allamano era morto il 16 febbraio di quello stesso anno, il 1926, per cui a Torino e in Casa la sua presenza era ancora molto forte. I suoi collaboratori proseguivano nel guidarci in quello che era stato lo spirito dell'Allamano: "fare bene il bene" e l'amore per l'Eucaristia. Ricordo ancora quando, il giorno del mio arrivo, un po' disorientato, un sacerdote mi ha condotto nell'atrio della Casa, dove era situata una statua della Madonna, voluta lì dall'Allamano e mi ha detto: "Questa è la tua nuova mamma!". Poi siamo andati in cappella e davanti al Santissimo ha aggiunto: "Questo è il tuo amico, un amico speciale!".
Gli studi a Roma cosa hanno significato nella sua formazione missionaria?
Sono stati anni splendidi. Ho frequentato filosofia all'università Gregoriana con i Gesuiti e teologia all'Urbaniana ossia Propaganda Fide. Ho incontrato docenti non solo preparati ma anche molto umani con noi giovani. Ricordo, ad esempio, quello che poi è divenuto il cardinale Agagianian.Una personalità eccezionale. Erano gli anni che precedevano lo scoppio della seconda guerra mondiale e a Roma, anche se in Istituto non mancava niente, noi giovani, eravamo una ventina, sentivamo la necessità di renderci in qualche modo utili. Così, avendo a disposizione del terreno, abbiamo impiantato un orto, i cui prodotti poi venivano in parte venduti al mercato. Il ricavato naturalmente era per l'Istituto.
Tra le attività svolte nell'Istituto e per l'Istituto quale o quali l'hanno vista maggiormente coinvolta?
Certamente la formazione dei novizi. Perché in quel compito dovevo comunicare, infondere, suscitare lo spirito missionario proprio della nostra Congregazione. Spirito che si può brevemente riassumere nel desiderio di far conoscere il Signore nel vicino e nel lontano a chi è ancora distante da Lui e lavorare per questo senza mai scoraggiarsi, anche quando il terreno da dissodare è duro. E fare tutto "senza rumore".
Dal 1992 il suo impegno è a Olbia. Cosa ha significato per Lei questa nuova destinazione?
Sono venuto molto volentieri in Sardegna e sono stato accolto con stima ed affetto da tutti coloro con i quali sono venuto a contatto. Sono nate delle autentiche amicizie. Sotto il profilo ecclesiale sono stato attivo per alcuni anni nel Consiglio del Vescovo, padre Paolo Atzei, oggi arcivescovo di Sassari, e poi nel Consiglio presbiteriale. Ma soprattutto la gente comune mi ha sempre testimoniato fiducia.
Lei ha vissuto sia gli anni prima del Vaticano II che quelli dopo. C'è differenza nel fare missione?
Sostanzialmente no. Però, per quel che mi riguarda, ero ancora a Roma, e ho avuto l'incarico di far parte del Consiglio Missionario Nazionale, organismo della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e costituire poi l'Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le Chiese. Compiti impegnativi, perché significava creare i presupposti per passare la mano ai vescovi e quindi alle singole diocesi per quanto concerne il fare missione. Intuizione vincente che, per altro, gli istituti missionari già da tempo avevano avuto. Perché la Chiesa tutta è missionaria.
Che ne pensa del calo di vocazioni giovanili?
Oggi le famiglie sono meno numerose di un tempo e quindi anche numericamente è più difficile trovare giovani disposti a fare una scelta a vita come quella del sacerdozio. Inoltre la società tutta, con i suoi allettamenti, non invoglia certo a mettere tra parentesi le proprie sicurezze. Le eccezioni comunque esistono e su queste si fondono le speranze della Chiesa missionaria. Su coloro che sono capaci di elevarsi al di sopra delle idee ristrette che predominano nell'ambiente. Non importa se italiani, europei, africani, latino-americani o asiatici.
Un'ultima domanda. Lei appare come un grande esempio di serietà e coerenza per quel che riguarda lo stile di vita missionaria. Qual è il suo segreto?
Senz'altro mi aiuta molto la preghiera. Pregare è importante per tutti, indispensabile per un sacerdote e missionario.