Quel giorno terminava la SEMANA DE LOS PUEBLOS ABORIGENES con le parole programmatiche che non hanno bisgno di traduzione né di spiegazione: cuando no se protege la vida peligra el futuro.
I posters che avevamo ricevuto per propagandare la settimana, moltissimi, bellissimi, patinati, espressivi erano rimasti tirati in una stanzetta antisala dell'olvido. Personalmente non avevo mai accennato, parlando nelle omelie o negli incontri a questo evento; per quanto mi consta anche i miei confratelli caricavano con questo peccato. Quando li vidi in carne ed ossa giusto in quella data del 25 aprile, giorno in cui spirava la “loro settimana” reagì d'istinto e decisi di dare ospitalità. Era un modo per lavare il mio peccato di omissione. Stettero due giorni e due notti. Io, ex- maestro di novizi mi sentivo come un novizio di primo pelo, complessato, imbranato. Tutto quello che facevo me lo andavo interrogando interiormente quasi a livello di ansia: porto loro un po' di cena? Domando loro se hanno bisogno che provveda acqua calda per il loro mate? E il piccolo non avrà bisogno di latte per la colazione? La loro accettazione umile e dolce per tutti i piccoli servizi che dispensavo loro mi incoraggiava a osare di più, ma non cessavo di interrogarmi. La sera della domenica 27 mi accorsi che era rimasto pochissimo pane ed io con una fame che non vi dico (la domenica qui si sgambetta). Che faccio? Do loro tutto il pane o uso la carità “con criterio” dividendolo in parti uguali ? Ma non è forse giusto darne di più a loro, tanto noi, di pane ne mangiamo così poco sazi come siamo di “companatico” ...?!
Arrivò infine il 28 mattino, l'ora dei saluti. Mi dissero soddisfatti che avevano venduto tutti i loro cestelli di vimini, grazie anche alla propaganda che il parroco aveva fatto nell'Omelia della domenica sera. Zulema, al restituirmi il termos che avevo prestato la notte precedente mi lasciò un'impressione che ancora mi dura: mi disse – offrendomi il termos con le due mani – quasi si trattasse di offerta sacra - : ecco il suo termos !
Salutai con lo sguardo la mamma, il fratello, accarezzai il piccolo, baciai lei, Zulema. “Zulema è il mio nome”. Mi ritirai dalla loro presenza come colui che aveva partecipato a un incontro teofanico. Ancora oggi mi risuona la voce: Zulema è il mio nome! Io all'inizio avevo detto: mi chiamo Padre Luigi. Forse, per lei, era lo stesso che dire mi chiamo “qualunque”. Lei, alla fine, mi rivelò la sua identità: quella che tu hai amato e che ti ha amato, Io mi chiamo Zulema.