Una vita di corsa

Published in I missionari dicono

Sono nato in Val d’Aosta nel marzo del 1940. Abitavamo a la Thuile, al confine con la Francia, dove c’erano diversi contingenti militari belligeranti. Di inverno una valanga aveva ostruito la strada.  Mio padre, ingegnere alla società mineraria Cogne, avrebbe dovuto farla sgomberare, cosa che non andava a genio a tutti i gruppi. Per evitare inconvenienti col comando militare tedesco ci trasferimmo a Torino fino alla fine della guerra. 

Poi la mia vita trascorse regolare e tranquilla fino verso la metà degli anni ’60. Gli studi basici, prima in Val d’Aosta e poi a Torino, l’universitari –sono laureato in fisica–, i quindici mesi di servizio militare obbligatorio e poi anche i primi anni di insegnamento in una scuola tecnico professionale di Chieri. La mia vita sembrava ben orientata, tutto in ordine; ricordo che la prima proposta di lavoro la ricevetti la mattina stessa del mio rientro dal servizio militare. 

Eppure in quegli anni avevo conosciuto esperienze di vita missionaria che mi sembravano interessanti e poi un giorno mi incontrai con il padre De Marchi. Lui era un tipo entusiasta e ti diceva subito sì. In quegli anni in Kenya c’era il boom delle scuole... ce n’erano in tutte le missioni per cui essere un insegnante era un lavoro utile e ricercato. Il padre De Marchi mi disse: “Impari un po’ di inglese e poi vieni subito giù”. Più facile di così non si poteva. 

Così andai in Inghilterra per imparare l’inglese... e lo feci a mie spese, per conto mio, anche se frequentavo la casa del Missionari della Consolata e avevo una buona relazione con i residenti della casa di Camden Town. Per imparare l’inglese mi ero messo a disposizione di una associazione che curava malati con ritardo mentale: la terapia era proprio quella di farli interagire il più possibile con altre persone, io imparavo l’inglese, avevo anche un piccolo rimborso per le mie spese personali... e i pazienti del centro potevano contare con una persona paziente e disposta ad ascoltarli e interagire con loro. Dopo un anno sono tornato in Italia e sono subito partito per il Kenya seguendo la proposta di padre De Marchi. 

Il mio primo impatto con la missione è stato quello di un laico che insegnava fisica e matematica in una scuola secondaria “harambé”, gestita dalla diocesi, a Mugoiri nel Kikuyu. Mi trovai molto bene con quegli anziani missionari IMC, gente matura che aveva fatto il campo di concentramento in Sudafrica. In quella missione sono stato cinque anni, poi dopo sono stato trasferito a Sagana dove ho conosciuto i fratelli della Consolata. Ho visto che l’unica differenza fra me e loro era il noviziato, ma facevamo la stessa vita e lavoravamo con lo stesso impegno; così, da laico associato all’Istituto qual ero, ho pensato che avrei potuto vivere la vocazione di fratello della Consolata e sono tornato in Italia per la formazione. 

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Ho fatto il noviziato aella Certosa Pesio, nel corso 1978-79 –nel mio gruppo ero il novizio con più anni– e poi un tempo nella casa di Bedizzole per le vocazioni adulte. Dopo sono tornato a Sagana ma poi è arrivata la prima destinazione all’Etiopia per lavorare nella scuola tecnica di Meki. Questa scuola era stata fondata dai Missionari della Consolata e quindi non rappresentava solo un forte impegno accademico ma anche economico. Una volta al mese dovevamo pagare tutti i professori e questo si poteva fare solo grazie all’ingente appoggio dei benefattori. Nella scuola insegnavo ma non era la mia unica funzione, ero anche il procuratore. C’era da viaggiare parecchio, con un vecchio camioncino, fino a un centro urbano nei pressi di Shashemane, a circa cento chilometri di distanza, per procurare il materiale per la scuola tecnica, specie la carpenteria.

Quando nel 1988 i Missionari della Consolata decisero di consegnare Meki alla chiesa locale io venni trasferito nuovamente in Kenya e questa volta per dedicarmi alla formazione dei giovani fratelli Missionari della Consolata dopo il noviziato. La casa di formazione era a Nairobi, presso il seminario teologico di Langata, e ci rimasi fino al 1992. All’inizio avevo tanta nostalgia dell’Etiopia anche perché non ero più abituato alla vita in città e una città impegnativa come Nairobi. 

Così nel 1992, quattro anni dopo, sono tornato in Etiopia e da allora sono rimasto sempre lì. Addis Abeba, Asella, Gambo e Modjo sono state le mie missioni. Non ho più insegnato, magari ogni tanto qualche ripasso e aiuto a studenti in difficoltà, ma ho lavorato quasi sempre come procuratore aiutando nei servizi legati alle attività di promozione umana che erano caratteristiche di quelle missioni. A Asella c’era un centro per orfani e disabili, e non lontano a Shashemane una scuola per bambini ciechi; Gambo era un villaggio ed ospedale iniziato per i malati di lebbra. A Addis Abeba sono rimasto 13 anni, amministratore del seminario filosofico e procuratore nella casa regionale. Nel 2009 ho raggiunto la missione nella quale mi trovo tutt’oggi, quella di Modjo. 

Modjo è una cittadina di circa trenta mila abitanti, lontana 70 chilometri dalla capitale, mi piace perché ha ancora l’aspetto rurale. Si trova in un crocevia di strade e il sabato si riempie di contadini, uomini e donna che con i loro asini vengono a vendere i loro prodotti e comprare quello di cui hanno bisogno: cereali, grano, anche paglia secca che si mescola con il fango per fare i muri delle case. Nei tempi recenti del Coronavirus quasi nessuno usava la mascherina: per una settimana si sono fermati i Bajaj, trasporti a tre ruote, ci voleva la maschera, si sono moltiplicate le norme ma poi tutto è stato in buona parte dimenticato come risaputo in Africa i contagi non sono stati molti. 

La comunità cattolica di Modjo è molto piccola perché la maggior parte della popolazione  è ortodossa. Il cardinale di Addis Abeba ha voluto che la chiesa di Modjo diventasse un santuario dedicato alla madonna Consolata, ma la chiesa, molto grande, si vede piena solo quando arrivano per qualche festa, dato che i cattolici delle città vicine intervengono alla celebrazione. È una tradizione dei cristiani etiopici, anche non residenti nel posto, di intervenire numerosi alle feste di una chiesa vicina.

Non ci sono quasi relazioni con la chiesa ortodossa, almeno in città ma questo dipende molto dalle persone, dal posto e dalla disponibilità di ciascuno. Io per esempio, che amo la montagna, andavo frequentemente in un antico convento ortodosso situato nella parte alta di una strada di montagna. Oltre il monastero in quel luogo c'erano delle grotte che fino a non molti anni fa ospitavano alcuni eremiti. Quando mi vedevano arrivare i monaci erano sempre molto accoglienti: mi facevano baciare la croce, mi permettevano l’accesso... eppure sapevano bene che ero cattolico, alcune volte ero andato anche accompagnato dai seminaristi, ma questo per loro non era un problema. 

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Ho tantissimi ricordi belli della mia missione in Etiopia... io che ho l’abitudine di andare a correre ogni tanto, e lo faccio anche adesso che ho 80 anni suonati, vedo la gente che applaude e si dimostra amichevole e cordiale. Recentemente, mentre stavo correndo, si è fermata una macchina lussuosa (una di quelle che non fanno far male la schiena dopo qualche chilometro) ed è sceso un personaggio molto distinto che non ho riconoscito. Lui si è identificato come un’antico studente della scuola tecnica di Meki dove 35 anni prima ero stato suo professore. Quando ha saputo che ero prossimo a compiere 82 anni... mi ha organizzato un compleanno con i fiocchi, lui con altre persone che conosceva anche loro antichi studenti di Meki, è stato un momento di molta emozione. 

Last modified on Sunday, 24 April 2022 11:48

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