Il 14 luglio 2021, padre Alvaro Pacheco, missionario della Consolata Portoghese con alle spalle un buon numero di anni di servizio in Corea, ha celebrato 25 anni di ordinazione sacerdotale. Nato 50 anni fa a Lordelo (Portogallo), questo missionario della Consolata, che da bambino aveva pensato poter divenire “calciatore, fotografo freelance o guida turistica", ha lasciato che Dio cambiasse i suoi progetti. Tutto lo condivide con noi in questa intervista realizzata per il sito della Consolata in Portogallo e lo fa passando in rassegna alcuni aspetti del suo cammino vocazionale, della sua consacrazione e della sua ricca esperienza missionaria.
Padre Alvaro, comincio con la più classica delle domande: come è nata la sua vocazione?
Fin da bambino, ho sognato una vita dedicata a fare del bene agli altri o a fare qualcosa di buono per gli altri, ma non necessariamente come missionario: ho sognato di essere un giocatore di calcio, un fotografo freelance o una guida turistica. Quando ero in quinta elementare, il nostro padre João Monteiro visitò la mia scuola e ci parlò dell'opera dei missionari: siccome mi piaceva la catechesi e la figura del mio parroco e, ancora oggi, parroco di Lordelo, padre Rui Pinheiro, ho risposto positivamente all'invito di andare a visitare il seminario della Consolata, anche perché mi piaceva conoscere cose, luoghi e persone diverse; tra i miei programmi televisivi preferiti figuravano i documentari su paesi e culture. Allora venni a passare qualche giorno, esattamente in questa comunità (Águas Santas) dove mi trovo ora, e mi è piaciuto: ho conosciuto e fatto nuove amicizie e, dopo due anni e quattro piccoli stage, sono entrato in seminario, anche perché ho giocato molto a calcio, in seguito ho fatto molte foto e mi sono esercitato in inglese mostrando questa regione a missionari e amici di altri paesi. Con il passare degli anni, la vocazione missionaria maturava e così anche l'amore per la diversità dei popoli e delle culture, sempre aiutati e motivati da sacerdoti che erano non solo un esempio di vita e di impegno per Dio e la missione, ma anche un esempio di una vita vissuta nella gioia e nella passione per l'umanità e, naturalmente, per Dio. Durante tutto il mio percorso vocazionale, la presenza, il sostegno e l'amore dei miei genitori, di altri parenti e di tanti amici sono stati e sono pezzi fondamentali della mia identità, vocazione e missione.
Che ricordo che vorresti condividere del giorno della tua ordinazione? Qual è stato il motto che hai scelto, e perché?
Confesso che non ricordo il motto o la frase biblica che ho scelto per la mia ordinazione: deve trovarsi a casa, da qualche parte tra tante foto e documenti di quel tempo; tuttavia, per le celebrazioni che farò in occasione di questi 25 anni ho scelto il famoso passaggio di Gesù nella sinagoga di Nazareth, dove fu poi contestato e minacciato di morte. È il testo del vangelo di San Luca che dice: “Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore”.
Ricordo il giorno della mia ordinazione, avvenuta nella cattedrale di Oporto, presieduta da Mons. Júlio Rebimbas con un misto di lode/grazia e delusione/malinconia, per il modo in cui la gente veniva accolta e trattata. Era una giornata di caldo intenso, centinaia di persone cercavano di vedere qualcosa e si erano stipate nell’interno della cattedrale dove saremmo stati ordinati otto diaconi, ma fuori ne erano rimasti molti di più. In una delle prove precedenti chiesi perché doveva essere nella Cattedrale e non, per esempio, nel centro sportivo Rosa Mota, dove potevano entrare migliaia di persone che avrebbero potuto partecipare attivamente e comodamente alla cerimonia. La risposta che mi fu data mi rese triste e arrabbiato e fu: "perché è tradizione", forse oggi a causa di questa "tradizione", stiamo allontanando molte persone dalla Chiesa.
Quando parli della tua vita missionaria descrivi con dettaglio e passione la Corea del Sud. raccontaci qualcosa e i segni che ha lasciato in te quel paese?
Essendo un amante della diversità umana, soprattutto culturale e religiosa, ricordo che il primo articolo con la mia testimonianza sulla Corea del Sud si intitolava "Born again", perché è esattamente quello che mi è successo: ho dovuto imparare una nuova lingua, una cultura diversa e stimolante, entrare in un mondo radicalmente opposto al mio per molti aspetti anche a livello religioso. Tante cose si vedevano in modo diverso, ed era diverso il concetto di così comuni ed importanti come l’amicizia e la famiglia. Alcuni giorni speciali mi sono rimasti impressi: quando ho celebrato per la prima volta la messa in coreano, a casa e in parrocchia; il giorno in cui, già in grado di bere birra (ero astemio fino ad allora) e mangiare cibo piccante, mi hanno detto "ora sei uno di noi"; il giorno in cui ho finito il corso base di lingua coreana; il giorno in cui ho celebrato la prima messa senza leggere l'omelia (ho parlato solo 2 minuti, tremando e sudando tutto).
Mi hanno colpito anche le esperienze di collaborazione nelle parrocchie, i fine settimana missionari, l'accompagnamento spirituale di alcuni membri della comunità brasiliana, i viaggi missionari che ho fatto in Mongolia, Thailandia, Hong Kong e Filippine, l'essere direttore della nostra rivista "Consolata" per 15 anni, il contatto e la collaborazione con altri missionari stranieri, le amicizie che ho stretto con collaboratori e amici della Consolata e con i fedeli di varie comunità parrocchiali. Sono stato anche molto colpito dal contatto con la cultura e la tradizione buddista, così come con altri elementi caratteristici dell'affascinante cultura sudcoreana.
Che importanza dai alla celebrazione di questo anniversario sacerdotale nella tua città e nella tua famiglia?
Le do un'importanza immensa, perché è nella mia città che è nata e cresciuta la mia vocazione: ho sempre avuto il fantastico appoggio di tutta la mia famiglia, a cominciare dai miei genitori, parenti e amici. Tra questi, segnalo il mio parroco, padre Rui Pinheiro, che ha sempre sostenuto la mia decisione, come ha fatto con tutti quelli di Lordelo che sono stati ordinati sacerdoti. È mancato un sacerdote diocesano ma il suo appoggio è stato sempre incondizionato e, come tale, la mia vocazione è anche, in buona parte, il frutto della sua amicizia e del suo appoggio.
Il sentimento che prevale nella mia mente e nel mio cuore è quello della gratitudine a Dio e a tante persone, alcune già decedute, altre ancora con me; questa profonda Gratitudine raccoglie tutti i sentimenti che porto nel cuore.
Se potessi tornare indietro saresti ancora un missionario della Consolata?
Certamente perché non scambierei tutto ciò che Dio mi ha offerto e dato con niente e nessuno in questo mondo. Ho sempre vissuto la mia relazione con Dio basandomi su questa premessa: non chiedo mai nulla, perché sono sicuro che mi darà molto di più e cose molto migliori di quante io ne possa chiedere. È sempre stato così e credo che continuerà ad esserlo.
Cosa diresti ai giovani normalmente preoccupati per il loro futuro? Vale la pena essere prete e missionario della Consolata?
Direi loro di lasciarsi appassionare e motivare dalla possibilità unica di crescere e condividere ciò che sono con popoli e culture diverse. È questa sfida che, quando si accetta, ci trasforma in modo profondo e totale. Non si trovano solo modi per crescere come esseri umani e cristiani, ma si arriva anche a fare una profonda esperienza di Dio e del prossimo, vivendo una vita con senso, profondità e come dono per gli altri.