“Il missionario è chiamato a vivere e testimoniare una comunione che valorizza la diversità con un atteggiamento di kènosi di sé stesso, per fare spazio all’altro. Per il missionario il dialogo è un atteggiamento fondamentale, mentre il rispetto delle persone e delle culture diventa per lui un orizzonte operativo” (XI Capitolo Generale 17.2).

“La vita è arte dell’incontro. Le culture si ammalano quando diventano autoreferenziali, quando perdono la curiosità e l’apertura all’altro. Quando escludono invece di integrare. Che vantaggio abbiamo a farci guardiani di frontiere, invece che custodi dei nostri fratelli? La domanda che Dio ci ripete è quella: “Dov’è tuo fratello?” (cfr Gen 4,9). (Papa Francesco, Inaugurazione dello spazio espositivo permanente della biblioteca Vaticana, 5 novembre 2021)

È urgente formarci e formare per incontrare parole capaci di creare comunione con le persone diverse da sé. È indispensabile formarci e formare al rispetto per il ‘diverso’, con la capacità di ascoltare e prendere in considerazione i punti di vista dell’altro diverso da sé.

C’è un modo sbagliato di avvicinarsi a un’altra cultura ed è chiamato acculturazione. Esso porta ad assorbire ogni cosa dell’ambiente in cui ci si trova smarrendo la propria identità e le proprie radici. 

Il corretto approccio interculturale invece porta ad essere protagonisti e a sperimentare positivamente la possibilità di cambiamento per cui si sceglie cosa prendere e cosa lasciare di sè e dell’altro. Questo chiede di sapersi fondare sulla propria identità umana e sulla propria storia personale per sentirsi alla pari con gli altri, parte della stessa specie umana. Allora si potrà credere nel valore della diversità dell’altro, valorizzando la propria cultura come quella altrui. Solo partendo da qui, si può accettare di avvicinarsi all’altro, tollerando l’incertezza, rispettando il suo sistema di valori, mettendosi nei suoi panni per vedere le cose da punti di vista differenti.

Quando scopriamo che la nostra identità come quella degli altri è il risultato di molteplici appartenenze e che nelle nostre origini e nel nostro percorso di vita convergono diversi influssi, allora si crea un rapporto differente con gli altri e nei confini fra noi e loro si creano dei varchi e cerchi di appartenenze diversificati e mobili.

La visione che il Concilio Vaticano II ha della chiesa è trinitaria, sacramentale/eucaristica e comunionale. La chiesa è "popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo" (LG17); citando S. Cipriano la si definisce "un popolo adunato dall'unità del Padre e del Figlio e dello Spirito santo" (LG 4). È definita come “comunità di comunione”, unità delle diversità, che si forma grazie alle diversità. Nella Lumen Gentium troviamo perciò i fondamenti necessari al tema dell’interculturalità, per promuovere la comunione dentro e fuori della chiesa.

Papa Francesco nella Evangelii Gaudium non fa che sviluppare gli stessi concetti, ma usando un linguaggio ancora più esplicito e attuale.

“La Chiesa è un popolo dai molti volti, ciascuno dei quali ha la propria cultura, la propria storia, che sa sviluppare con legittima autonomia…il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale, bensì esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato (EG 116). 

Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa(...). L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella Chiesa. Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore. (EG 117)

Le modalità per rapportarsi con il diverso

Dobbiamo imparare a distinguere entre assimilazione, fusione e pluralismo culturale. L'assimilazione si produce quando un gruppo maggioritario tende a inglobare il più piccolo facendo in modo che esso rinunci alla sua differenza per assumere in toto le norme e le modalità del gruppo più grande. 

La fusione si produce quando si diverse culture sono mescolate in modo tale che ne risulti un prodotto migliore. Si parte dal fatto che ogni diversità ha delle ricchezze e che queste non sono così incompatibili da impedire la fusione. Entrambe le modalità annullano le differenze in nome di una supposta superiorità. 

Invece il pluralismo culturale mantiene le differenze e valorizza ciascuna di esse come possibile arricchimento del patrimonio culturale complessivo. Questa è però la più difficile da applicare perché bisogna saper organizzare nella propria vita continuamente un confronto con punti di vista e abitudini diversi dai propri e che la società stessa adegui le sue strutture alle esigenze e caratteristiche delle diverse culture. 

Per un corretto approccio all’interculturalità bisogna agire prima di tutto a livello cognitivo. Questo consiste nell’avere più informazioni sugli altri, imparare ad avvicinarsi, aprire e mantenere contatti, gestire conflitti, tollerare incertezze, mettersi nei panni degli altri, imparare a vedere le cose da punti di vista differenti. Ma oltre alla conoscenza e allo scambio reciproco bisogna attivare anche la dimensione dell’empatia e dell’apertura affettiva che va a contrastare ogni forma di discriminazione.

Conoscere le proprie emozioni e farsi conoscere: Non si vive in un clima interculturale solo perché ci si scambia qualche informazione su chi si è e da dove si viene, seppure in una benevolenza preziosa. Il decentramento è necessario per una percezione più completa della propria identità culturale, il punto di vista dell’altro è come la quarta parete della nostra identità di cui non disponiamo e non abbiamo il monopolio. Si tratta non solo di parlare all’altro, ma anche di ascoltarlo e di ascoltare la sua narrazione su di noi. 

Il cammino di scoperta delle differenze può essere scandito da stupore e imbarazzo di fronte a manifestazioni diverse da quelle a cui siamo abituati, ricerca sui motivi di certe pratiche diverse dalla nostra, esplorazione di punti di vista diversi. Possono così aprirsi orizzonti nuovi, nuove domande, conoscenze più approfondite. Collocarci fuori dal contesto consueto può provocare un disorientamento iniziale ed è un attacco al pensiero egocentrico, ma è enorme occasione di dialogo.

FAI DIVENTARE PREGHIERA

La comunità della parrocchia di San Miguel Arcángel, nella località di Yuto, provincia di Jujuy (nord dell’Argentina), è una missione marcata da una forte interculturalità. La maggior parte della terra produttiva di questa regione, popolata da poco più di ottomila abitanti che vivono distribuiti nei villaggi di El Bananal, El Talar, Vinalito e Caimancito, è destinata principalmente alla coltivazione di canna da zucchero, avocado e banane. 

Dove sono le popolazioni indigene?

Se c'è una cosa che identifica chiaramente i popoli indigeni è la profonda integrazione con il territorio nel quale vivono e dal quale traggono il loro sostento: l'attività produttiva, necessaria per vivere, non è separata dal loro essere.

Questa prospettiva è fondamentale per comprendere le trasformazioni e gli adattamenti che i popoli indigeni subiscono quando gli Stati avanzano e occupano i loro territori con coltivazioni di carattere industriale. In questo caso il lavoro produttivo non è più solo destinato alla sussistenza, come succede con gli indigeni, ma acquisisce le caratteristiche dello sfruttamento intensivo, segno distintivo dell'economia capitalista.  

Per questo, quando si visita questa regione, al principio è difficile notare la presenza di popolazioni native perché si percepisce a primo acchito una comunità popolata da "cittadini argentini" che vogliono e devono essere inseriti nelle strutture di protezione statale e di assistenza sociale. Eppure si tratta di una società che è ben lontana dall'essere omogenea; la popolazione comprende creoli, collas, guaraníes, wichis, ocloyas, churumatas, chanés, tulián, tobas, tapiete e quechuas (provenienti dal Perù), tutti gruppi etnici la cui presenza è stata registrata nei censimenti nazionali del 2001, 2010 e 2022.

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Anche le popolazioni indigene sono in movimento

Secondo uno studio dell'Università di San Martín, la maggior parte della comunità indigena Guarani si è spostata negli ultimi 100 anni alla ricerca di un luogo che permetta loro di vivere secondo il loro peculiare stile di vita; si sono mossi alla ricerca di quello che chiamano “ñande reko”, la terra che permette loro di vivere in sintonia con la natura che li ha generati. 

Questa regione, originariamente caratterizzata da un fitto bosco di montagna con diversità di flora e fauna, aveva queste caratteristiche: consentiva caccia e raccolta, era attraversata da corsi d'acqua per la pesca e offriva anche terreni adatti alle coltivazioni.

La strategia di sopravvivenza dei Guaraní consisteva precisamente nell'addentrarsi sempre di più nella giungla per allontanarsi dalla frontiera tracciata dal disboscamento e dagli incendi. 

Questo non è più stato possibile quando lo sfruttamento della canna da zucchero ha ridotto drasticamente il terreno selvatico e boschivo, e a questo punto i Guaraní non hanno avuto altra alternativa che scambiare le loro terre con terreni prossimi alle incipienti città.

Riconosciamo il dolore che affligge queste persone, nella voce delle loro storie che abbiamo raccolto in un incontro con alcuni di loro: "non ci sentiamo Guaraní"; "ci vergogniamo e siamo feriti dall'abbandono"; "i datori di lavoro non ci danno il permesso di celebrare le nostre feste: non c'è tempo e a volte nemmeno il Comune ci concede uno spazio adeguato"; “abbiamo dovuto costringere i nostri figli a imparare lo spagnolo per superare molte barriere sociali; ora i nostri figli e nipoti riescono a malapena a parlare la nostra lingua".

Molte piccole persone, in piccoli luoghi, facendo piccole cose, possono cambiare il mondo (Galeano).

Nell'ultima conferenza dei Missionari della Consolata che lavorano in Argentina abbiamo sottolineato che uno spazio privilegiato “ad gentes” per la nostra comunità è il lavoro e l’impegno a favore dei popoli originari del paese. Per questo motivo è stata aperta la parrocchia di San Miguel Arcángel, con la sua peculiare e significativa composizione etnica. I padri Antonio Gabrieli, Antonio Merigo, Thomas Ishengoma, Pedro Togni, Roger Kiwuango, Juan José Olivarez e Iga, sono i missionari che hanno lavorato in questa missione.

Fare l'opzione preferenziale per i popoli nativi, è per noi un impegno qualificato che non significa abbandonare il resto della popolazione, ma crescere nell'interculturalità assumendo la differenza e la diversità.

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Linee pastorali

Attualmente, molto lentamente e con molti sforzi, stiamo passando da una missione "per" il popolo Guaraní a una "con" il popolo Guaraní. Insieme ai nostri collaboratori (catechisti e laici) vediamo la necessità di: 

- Fare processi di discernimento e riflessione per aprire spazi in cui la comunità e le persone si ritrovino in armonia con il Creatore, la Creazione e la Creatura.

- Impegnarsi in cammini di riconciliazione che rispondano all'alto tasso di suicidi di cui soffre la comunità. Cercare la riconciliazione con se stessi e con le famiglie.  

- Unire e armonizzare la fede con la vita quotidiana: vogliamo che la stessa catechesi per bambini rispetti il tempo necessario per un vero sviluppo spirituale. 

- Accompagnare i novenari dei defunti e rivalutare il ruolo della preghiera che, al momento della morte, è capace di celebrare la vita. 

Queste azioni sono il primo passo per un vero processo di evangelizzazione. Il carisma del beato Giuseppe Allamano ci invita ad accompagnare questi popoli in unità di intenti. Nel silenzio di chi non ha voce, possiamo imparare nuove parole per la vita. 

* Thomas Ishengoma e Juan José Olivarez sono missionari della Consolata in Argentina; Diana Sosa è insegnante

 

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