Lettera al popolo di Dio

Lettera del Sinodo sulla sinodalità a tutta la chiesa, popolo di Dio 

Care sorelle, cari fratelli,
mentre si avviano alla conclusione i lavori della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, vogliamo, con tutti voi, rendere grazie a Dio per la bella e ricca esperienza che abbiamo appena vissuto. Questo tempo benedetto lo abbiamo vissuto in profonda comunione con tutti voi. Siamo stati sostenuti dalle vostre preghiere, portando con noi le vostre aspettative, le vostre domande e anche le vostre paure. Sono già trascorsi due anni da quando, su richiesta di Papa Francesco, è iniziato un lungo processo di ascolto e discernimento, aperto a tutto il popolo di Dio, nessuno escluso, per “camminare insieme”, sotto la guida dello Spirito Santo, discepoli missionari alla sequela di Cristo Gesù.

La sessione che ci ha riuniti a Roma dal 30 settembre costituisce una tappa importante in questo processo. Per molti versi, è stata un’esperienza senza precedenti. Per la prima volta, su invito di Papa Francesco, uomini e donne sono stati invitati, in virtù del loro battesimo, a sedersi allo stesso tavolo per prendere parte non solo alle discussioni ma anche alle votazioni di questa Assemblea del Sinodo dei Vescovi. Insieme, nella complementarità delle nostre vocazioni, dei nostri carismi e dei nostri ministeri, abbiamo ascoltato intensamente la Parola di Dio e l'esperienza degli altri. Utilizzando il metodo della conversazione nello Spirito, abbiamo condiviso con umiltà le ricchezze e le povertà delle nostre comunità in tutti i continenti, cercando di discernere ciò che lo Spirito Santo vuole dire alla Chiesa oggi. Abbiamo così sperimentato anche l'importanza di favorire scambi reciproci tra la tradizione latina e le tradizioni dell'Oriente cristiano. La partecipazione di delegati fraterni di altre Chiese e Comunità ecclesiali ha arricchito profondamente i nostri dibattiti.

La nostra assemblea si è svolta nel contesto di un mondo in crisi, le cui ferite e scandalose disuguaglianze hanno risuonato dolorosamente nei nostri cuori e hanno dato ai nostri lavori una peculiare gravità, tanto più che alcuni di noi venivano da paesi dove la guerra infuria. Abbiamo pregato per le vittime della violenza omicida, senza dimenticare tutti coloro che la miseria e la corruzione hanno gettato sulle strade pericolose della migrazione. Abbiamo assicurato la nostra solidarietà e il nostro impegno a fianco delle donne e degli uomini che in ogni luogo del mondo si adoperano come artigiani di giustizia e di pace.

Su invito del Santo Padre, abbiamo dato uno spazio importante al silenzio, per favorire tra noi l'ascolto rispettoso e il desiderio di comunione nello Spirito. Durante la veglia ecumenica di apertura, abbiamo sperimentato come la sete di unità cresca nella contemplazione silenziosa di Cristo crocifisso. “La croce è, infatti, l'unica cattedra di Colui che, dando la vita per la salvezza del mondo, ha affidato i suoi discepoli al Padre, perché ‘tutti siano una sola cosa’ (Gv 17,21). Saldamente uniti nella speranza che ci dona la Sua risurrezione, Gli abbiamo affidato la nostra Casa comune dove risuonano sempre più urgenti il clamore della terra e il clamore dei poveri: ‘Laudate Deum!’ ”, ha ricordato Papa Francesco proprio all'inizio dei nostri lavori.

Giorno dopo giorno, abbiamo sentito pressante l’appello alla conversione pastorale e missionaria. Perché la vocazione della Chiesa è annunciare il Vangelo non concentrandosi su se stessa, ma ponendosi al servizio dell'amore infinito con cui Dio ama il mondo (cfr Gv 3,16). Di fronte alla domanda fatta a loro, su ciò che essi si aspettano dalla Chiesa in occasione di questo sinodo, alcune persone senzatetto che vivono nei pressi di Piazza San Pietro hanno risposto: “Amore!”. Questo amore deve rimanere sempre il cuore ardente della Chiesa, amore trinitario ed eucaristico, come ha ricordato il Papa evocando il 15 ottobre, a metà del cammino della nostra assemblea, il messaggio di Santa Teresa di Gesù Bambino. È la “fiducia” che ci dà l'audacia e la libertà interiore che abbiamo sperimentato, non esitando a esprimere le nostre convergenze e le nostre differenze, i nostri desideri e le nostre domande, liberamente e umilmente.

E adesso? Ci auguriamo che i mesi che ci separano dalla seconda sessione, nell’ottobre 2024, permettano a ognuno di partecipare concretamente al dinamismo della comunione missionaria indicata dalla parola “sinodo”. Non si tratta di un'ideologia ma di un'esperienza radicata nella Tradizione Apostolica. Come ci ha ricordato il Papa all'inizio di questo processo: «Comunione e missione rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità (…), promuovendo il reale coinvolgimento di tutti» (9 ottobre 2021). Le sfide sono molteplici e le domande numerose: la relazione di sintesi della prima sessione chiarirà i punti di accordo raggiunti, evidenzierà le questioni aperte e indicherà come proseguire il lavoro.

Per progredire nel suo discernimento, la Chiesa ha assolutamente bisogno di ascoltare tutti, a cominciare dai più poveri. Ciò richiede da parte sua un cammino di conversione, che è anche cammino di lode: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» ( Lc 10,21)! Si tratta di ascoltare coloro che non hanno diritto di parola nella società o che si sentono esclusi, anche dalla Chiesa. Ascoltare le persone vittime del razzismo in tutte le sue forme, in particolare, in alcune regioni, dei popoli indigeni le cui culture sono state schernite. Soprattutto, la Chiesa del nostro tempo ha il dovere di ascoltare, in spirito di conversione, coloro che sono stati vittime di abusi commessi da membri del corpo ecclesiale, e di impegnarsi concretamente e strutturalmente affinché ciò non accada più.

La Chiesa ha anche bisogno di ascoltare i laici, donne e uomini, tutti chiamati alla santità in virtù della loro vocazione battesimale: la testimonianza dei catechisti, che in molte situazioni sono i primi ad annunciare il Vangelo; la semplicità e la vivacità dei bambini, l'entusiasmo dei giovani, le loro domande e i loro richiami; i sogni degli anziani, la loro saggezza e la loro memoria. La Chiesa ha bisogno di mettersi in ascolto delle famiglie, delle loro preoccupazioni educative, della testimonianza cristiana che offrono nel mondo di oggi. Ha bisogno di accogliere le voci di coloro che desiderano essere coinvolti in ministeri laicali o in organismi partecipativi di discernimento e di decisione.

La Chiesa ha particolarmente bisogno, per progredire nel discernimento sinodale, di raccogliere ancora di più le parole e l'esperienza dei ministri ordinati: i sacerdoti, primi collaboratori dei vescovi, il cui ministero sacramentale è indispensabile alla vita di tutto il corpo; i diaconi, che attraverso il loro ministero significano la sollecitudine di tutta la Chiesa al servizio dei più vulnerabili. Deve anche lasciarsi interpellare dalla voce profetica della vita consacrata, sentinella vigile delle chiamate dello Spirito. E deve anche essere attenta a coloro che non condividono la sua fede ma cercano la verità, e nei quali è presente e attivo lo Spirito, Lui che dà “a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (Gaudium et spes 22).

“Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio” (Papa Francesco, 17 ottobre 2015). Non dobbiamo avere paura di rispondere a questa chiamata. La Vergine Maria, prima nel cammino, ci accompagna nel nostro pellegrinaggio. Nelle gioie e nei dolori Ella ci mostra suo Figlio e ci invita alla fiducia. È Lui, Gesù, la nostra unica speranza!
Città del Vaticano, 25 ottobre 2023 

Il 22 luglio si celebra la festa di Santa Maria Maddalena, la prima testimone della Risurrezione di Gesù e colei che fu chiamata dalla chiesa primitiva “Apostola degli Apostoli”. Papa Francesco nel 2016 ha stabilito che la sua memoria liturgica fosse elevata alla categoria di festa. Ha voluto che questa donna così ammirata e amata, soprattutto da tante donne, aiutasse a riflettere “in modo più profondo sulla dignità della donna, nella nuova evangelizzazione…”.

Perché? Molti consideravano Maria Maddalena una donna perdonata e guarita; altri come una donna attiva, inquieta, generosa, amata e amante. Secondo la tradizione ortodossa, Maddalena faceva miracoli nella vita di tutti i giorni. E ora, dovremmo riconoscerla tutti come una santa? Mi sono presto ricordata che quando mia nonna raccontava storie di santi e sante, io mi dicevo a bassa voce: “Non voglio essere santa. Che orrore, tutta la sua vita in silenzio, con le mani giunte, incapace di correre o giocare!”.

Oggi mi chiedo come presentare Maria Maddalena in modo che aiuti a riflettere sulla dignità della donna. Qual è stata la vera vita di questa donna?

Nei vangeli troviamo la prima menzione di Maria Maddalena in Lc 8,1-8, dove si afferma che «sette demoni erano usciti» da lei e che «insieme ad altre donne aiutarono Gesù e i discepoli con i beni che avevano». Poi, nei quattro vangeli, compare sempre tra le donne di Galilea presenti al momento della crocifissione, sepoltura e risurrezione di Gesù. Quando si menzionano i nomi di alcune di queste donne, il primo nome è quello di Maria Maddalena, tranne che nella crocifissione in Giovanni, dove compare per prima “la madre di Gesù”. (Mt 27,55-56,61; 28,1-11. Mc 15,40-41.47; 16,1; 16,9-11. Lc 23,49.55-56; 24,9-11. Gv 19,25; 20,1-2; 20). Anche Giovanni narra magnificamente come Maria incontra e riconosce Gesù nel giardino della risurrezione quando sente il suo nome: lei è la prima persona che incontra il Risorto e riceve anche la responsabilità di dire a ciascuno di noi: «Ho visto il Signore» (Gv 20,11-18).

Affermare che da Maria Maddalena «erano usciti sette demoni» (Lc 8,2) è un'espressione simbolica. I numeri, come sappiamo, non hanno solo valore numerico; dire che da Maria fossero usciti “sette demoni” potrebbe dire di lei che era una donna straniera, malata, con un difetto fisico, lebbrosa, nubile, vedova, senza figli. La domanda che mi pongo è perché sosteniamo che Maria Maddalena fosse una prostituta. Forse ogni prostituta è una donna posseduta da un demone? E allora come mai nessun uomo guarito da Gesù e presentato come indemoniato è mai stato presentato negativamente con connotazioni morali o sessuali.

Un'altra possibile interpretazione sarebbe quella di sospettare che Maria Maddalena abbia infastidito alcuni perché aveva una forte personalità e valori non consoni a una donna, secondo la mentalità dal patriarcato storico e dal maschilismo. Secondo questa ipotesi Maria poteva essere era una donna libera, potente, indipendente, leader e che disponeva di risorse economiche

Poi da dove proveniva? Nel contesto culturale del tempo Gesù era riconosciuto come un uomo della città di Nazaret. Maria invece era detta “Maddalena” perché, non avendo un padre,  un marito o un figlio maschio; allora era conosciuta dal luogo da cui proveniva. 

Doveva essere così per la donna cananea (Mt 15,22), o la samaritana (Gv, 4,1-45) e quindi anche questa donna di Magdala, la nostra Maria Maddalena. 

Il nome di questa località chiamata Magdala deriva da Migdal in ebraico, o Magdala in aramaico, e significa fortezza o torre; un tempo era conosciuta come Tarichea, il nome greco di una ricca città sulla rotta commerciale fra l’Egitto e la Siria. Magdala era una città della Galilea, sorgeva sulle rive del lago di Tiberiade ed era edificata in un amplia pianura ricca d’acqua. In quella cittadina si commerciavano pesce salato, prodotti agricoli e tessuti tinti grazie all’abbondanza di acqua.

Grazie alla ricerca storica e all'archeologia sappiamo molte cose su questa importante città: al tempo di Alessandro Magno, quando il greco era la lingua internazionale parlata lungo le rotte commerciali, a Tarichea c’erano lussuose case che contrastavano con le povere abitazioni del villaggio di Cafarnao, menzionato nel Vangelo, a soli otto chilometri da li. Durante la dominazione romana si ricorda la ribellione dell’anno 54 aC, come reazione alla esose imposte con le quali i romani opprimevano le provincie dell’impero, quando un contadino occupò la città di Tarichea-Magdala. finché i romani non sedarono la rivolta. Anni dopo fu nota la violenza di Erode il Grande, nominato re dai Romani nel 37 aC: nella regione dei monti di Arbela, vicino a Magdala, lui fece incendiare le caverne dove si sarebbero nascosti i ribelli considerati nemici dei romani e banditi.

Sorprendentemente nel Nuovo Testamento non ci sono testi che fanno riferimento a Maria Magdalena il cui nome è molto noto nella narrazione evangelica: dov'era Maddalena quando negli Atti degli Apostoli si raccontano i meriti degli uomini? Solo l'apostolo Paolo menziona una Maria (Rm 16,6), non riconosciuta come la nostra Maria Maddalena. Invece troviamo molte altre storie fra gli scritti apocrifi, testi “segreti e riservati” nei quali si valorizza Maria Maddalena in modo concreto e intrigante. I documenti rinvenuti a Nag Hammadi, nel 1945, nell'Alto Egitto, meritano uno studio approfondito.

La storia successiva afferma che Maria Maddalena, nel 200 dC, era conosciuta come seguace di Gesù e propagatrice del vangelo di Gesù. Sant'Ippolito di Roma (170-235), teologo e martire, la proclamò “Apostola degli Apostoli” e fu così riconosciuta dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa. 

Invece, più di 300 anni dopo, papa Gregorio Magno (540-604) propagò l'idea che fosse una prostituta interpretando in quel modo il testo che fa riferimento ai sette demoni (Lc 8,2) e forse anche Lc 7,36-50 che menziona una peccatrice che unge i piedi di Gesù. Molti storici affermano che non è possibile accettare un atto di malafede da parte di Papa Gregorio Magno e invece, in atteggiamento di pastore, aiutava ad affrontare i disordini e le violenze della fine dell'Impero Romano ricordano la certezza del perdono di Dio e l'accoglienza di ogni peccatore. 

Le diverse interpretazioni a proposito di Maria Maddalena si sono poi consolidate dopo lo scisma tra la chiesa ortodossa d’oriente e quella romana d’occidente avvenuto nel 1054: nel culto delle chiese orientali si distinguevano le tre donne: la peccatrice anonima presentata da Luca, Maria Maddalena e Maria di Betania. Nella chiesa occidentale si consolidava l’immagine della prostituta pentita e perdonata che sintetizzava le tre donne.

In una settimana di studio dedicata a Maria Maddalena abbiamo concluso l'incontro con una Celebrazione della Vita, proclamando il testo di Gv 20,11-18. Mentre il lettore stava ancora leggendo: “va’ dai miei fratelli e di’ loro” una giovane donna si alzò e gridò: “ho visto il Signore!” E fissando gli occhi su diverse persone della comunità, le indicava con il dito e ripeteva: “ho visto il Signore quando davi da mangiare agli affamati! Ho visto il Signore in una giornata calda, quando davi da bere a quelli che avevano sete nei campi! Ho visto il Signore quando hai accolto quella famiglia migrante nella tua casa! Ho visto il Signore quando voi mamme avete organizzato una bazar per vestire i nudi! Ho visto il Signore ogni volta che tu, tu e tu consolavate e visitavate un malato! Ho visto il Signore ogni giorno quando andavi a insegnare ai carcerati. Ho visto il Signore!”... e allora la comunità si alzò e si abbracciò. Ancora una volta i poveri e gli impoveriti mi hanno insegnato a capire la Bibbia!

* Mercedes de Budalles Diez, è Master in Scienze Religiose presso l'Università Metodista di São Paulo. Articolo pubblicato su: www.cebi.org.br

Quattro giorni di incontri, di lavori e di confronto sempre preceduti dalla messa mattutina e conclusi con una preghiera. Un’occasione preziosa, quella offerta dal Pontificio Consiglio Cultura, per riparlare del mondo delle donne a 360 gradi, manifestando la volontà di ascoltarle, di dare loro voce e di conoscere quello sguardo sul mondo che solo loro possono dare. Voci “troppe volte silenziate” in passato come ha affermato Mons. Ravasi in occasione dell’evento inaugurale al Teatro Argentina. Con questa Plenaria anche la Chiesa ha compiuto un primo passo verso un ascolto e un’accoglienza del femminile e lo ha fatto partendo proprio da un documento preparatorio che è stato redatto da donne attive in diversi ambiti: religiose, attrici, giornaliste, psicologhe e molte altre. 

I lavori si sono svolti seguendo quattro temi: Tra uguaglianza e differenza: alla ricerca di un equilibrio; La “generatività” come codice simbolico; Il corpo femminile: tra cultura e biologia; Le donne e la religione: fuga o nuove forme di partecipazione alla vita della Chiesa?. La cosa forse più interessante ci spiega suor Mary Melone è stata la ricchezza culturale della Plenaria. “Era presente una maggioranza di esponenti europei e del Nord Europea, docenti di Parigi, il Rettore dell’Università di Lovanio, una professoressa giapponese, membri sacerdoti dell’Asia e del mondo africano. È stato molto importante, perché la sensibilità nei confronti di ciò che riguarda il mondo, il vissuto della donna, è molto diverso ed è arricchente vedere le varie prospettive, le sensibilità, il modo di accostarsi alle diverse domande, alle esigenze delle donne. Soprattutto nella mattinata dedicata al corpo della donna le varie sensibilità sono emerse con una diversificazione e ricchezza che mi hanno colpita.” 

Proprio nell’intervento sul corpo della donna significativo è stato l’apporto di suor Eugenia Bonetti, Missionaria della Consolata, che dopo 24 anni di missione in Kenya, dal suo rientro in Italia è in prima linea nell’intervento contro la prostituzione, la tratta delle donne e il loro sfruttamento che passa attraverso il corpo. Dalla testimonianza di suor Eugenia Bonetti suor Mary Melone sottolinea come “la donna sfruttata, assoggettata, usata, è la donna che resiste, che ha ancora voglia di riscattarsi, che riesce ancora a dire ‘Aiutami!’ e riesce comunque a trovare la possibilità di pensare ad altre strade anche in situazioni senza uscita, soffocanti. Quindi credo che poi al di là di tante sottolineature questi momenti sono veramente il riconoscimento della forza delle donne nella società e nella chiesa.” In fondo, continua suor Mary, “parlare della donna significa riconoscere la forza della donna a tutti i livelli. Dalla loro tenacia nella sofferenza, nell’affrontare le difficoltà, nel custodire la speranza, nel lottare per il loro riconoscimento. Non mi pare che le donne siano la parte rassegnata della vita.”

Suor Mary Melone, prima donna Rettore di un’università Pontificia nonché docente di Teologia dogmatica all’Antonianum ha partecipato ai lavori della Plenaria con un intervento sul tema dedicato alle donne e la Chiesa e con lei quindi entriamo nel vivo della questione. Dopo aver notato quanto papa Francesco da sempre dimostri attenzione nei confronti delle donne e quanto in ogni circostanza abbia sollecitato una riflessione sul femminile ormai non più procrastinabile, ci soffermiamo sulle sue parole rivolte ai partecipanti all’Assemblea Plenaria: “Voi donne sapete incarnare il volto tenero di Dio, la sua misericordia, che si traduce in disponibilità a donare tempo più che a occupare spazi, ad accogliere invece che ad escludere. In questo senso, mi piace descrivere la dimensione femminile della Chiesa come grembo accogliente che rigenera alla vita.” Sono parole che denotano una grande sensibilità e attenzione alla donna: “Io credo che l’uso di questo linguaggio per papa Francesco sia molto legato alla sua esperienza e alla sua esperienza di Dio.”, spiega suor Mary Melone. “La Misericordia è stato uno dei temi dominanti del suo pontificato. Legare la donna a questi temi penso che sia un segnale molto importante; è come se nella visione di Dio la donna avesse il compito di avere un riflesso particolare di questo tratto che caratterizza l’amore di Dio. L’amore di Dio è soprattutto un amore di Misericordia dice il papa e guarda caso le donne hanno questo tratto, questo compito di attestare la Misericordia. Io credo comunque che questo renda giustizia anche alle peculiarità che sono proprio nostre; non è un caso che alcuni aspetti della donna siano stati poi causa anche di un suo essere messa da parte, però l’importanza che noi diamo alle relazioni è la nostra ricchezza, qualche volta anche la nostra fragilità, ma è vero che per noi le relazioni sono fondamentali.” 

Un’attenzione alle relazioni manifestata concretamente nelle professionalità svolte dalle donne, anche in ambito universitario ad esempio “alla donna non interessa far solo la lezione e finire, c’è la relazione con lo studente, c’è l’importanza di dargli una motivazione, c’è la disponibilità all’attenzione, all’ascolto, al farsi carico. C’è questa attitudine nostra a mettere una professionalità all’interno di una priorità data al tratto relazionale senza il quale ci sembra che non abbia senso quello che facciamo. Quindi il fatto di tornare a queste dimensioni, sottolineare il valore ad esempio della tenerezza - quante volte il Papa parla di questo volto di Dio della tenerezza - e legarlo alle donne penso che sia un’indicazione molto importante. Quasi ci carica del compito, della grande responsabilità di essere un riflesso privilegiato dell’amore di Dio perché ce l’abbiamo dentro, questo non è così scontato, quindi è già un grande riconoscimento il ruolo che noi abbiamo nella Chiesa, essere portatrici di questa testimonianza dell’amore di Dio è un compito che è grande.” 

Tornando alle parole di Papa Francesco e alla sua attenzione nei confronti della donna, suor Mary precisa che “riflettono anche molto la conoscenza ed esperienza che lui ha del mondo femminile, un’esperienza molto libera nei confronti delle donne, senza alcun pregiudizio, molto positiva, molto rispettosa, mi sembra. Fondamentalmente il Papa guarda le donne con positività, senza timori, e questo è molto bello. Sembra che abbia fatto anche l’esperienza di rapporto con le donne molto bella, molto libera, molto ricca perché ha saputo cogliere gli aspetti positivi. Ci valorizza sempre, si vede che stima le donne forse per la sua esperienza positiva anche per la formazione che ha avuto però credo che venga fuori proprio dalla sua capacità di mettersi in relazione…questa sua capacità di guardare negli occhi, anche le donne, senza timore, è come se avesse guardato negli occhi il mondo delle donne senza timore, con grande libertà.” 

Attenzione del Papa quindi alle donne, riflessione della Chiesa, ma temi quali il sacerdozio femminile ad esempio sono da prendere in considerazione? “Papa Francesco si è espresso con chiarezza come Magistero nell’Evangelii Gaudium a proposito della questione del sacerdozio, è chiusa, però è anche vero che bisogna dare ruoli di responsabilità. Questa parola l’ha detta con una chiarezza inequivocabile. Bisogna coinvolgere le donne nei ruoli di responsabilità. Al di là delle donne cardinali o delle donne a capo di dicasteri il fatto che comunque l’organizzazione proprio dei ruoli vada ripensata per uno spazio maggiore anche per la responsabilità affidata alle donne penso che sia quello che il Papa vuole. Ci sono dei ministeri che noi non possiamo avere che sono legati alla potestas sacerdotale ma ci sono delle cose come ad esempio guidare un’università che non sono legate al sacerdozio e che possono essere anche assegnate a delle donne quindi questo credo che sia nella mente del Papa.” 

Infatti, sempre nel discorso ai partecipanti alla Plenaria, Papa Francesco a proposito del ruolo della donna nella Chiesa ha detto: “Qui i credenti sono interpellati in modo particolare. Sono convinto dell’urgenza di offrire spazi alle donne nella vita della Chiesa e di accoglierle, tenendo conto delle specifiche e mutate sensibilità culturali e sociali. È auspicabile, pertanto, una presenza femminile più capillare ed incisiva nelle Comunità, così che possiamo vedere molte donne coinvolte nelle responsabilità pastorali, nell’accompagnamento di persone, famiglie e gruppi, così come nella riflessione teologica.” 

A proposito di presenza femminile nell’ambito della riflessione teologica chiediamo a suor Mary il suo parere: “Nel mio intervento alla Plenaria dicevo in maniera un po’ provocatoria: ‘Se facciamo teologia, noi facciamo teologia ‘femminile’, se la fanno gli uomini è teologia. Come dire la nostra è di seconda serie perché delle donne; che bisogno c’è di mettere questo aggettivo. Qualche volta si percepisce questo atteggiamento nei confronti delle donne. Meno cultura abbiamo più siamo dominabili. È stata una tentazione anche per la Chiesa, non dico voluta però, l’impedimento per le donne di uno studio della teologia poteva avere anche questo significato, in fondo il mondo della teologia era appannaggio degli uomini e quindi noi dovevamo solo accettare quello che veniva detto. L’accesso alla teologia è stata comunque una conquista grande perché ridà dignità alle donne, anche nel modo di riflettere sul mistero di Dio, anche noi abbiamo una percezione di questo mistero che è importante. Possiamo dire qualche cosa, possiamo aiutare come hanno fatto i teologi di grandi generazioni a capire qualcosa del mistero di Dio, anche noi possiamo.” 

La stessa nomina di suor Mary Melone a Rettore di una Università Pontificia ha creato scalpore: “Il fatto che abbia suscitato tanto stupore vuol dire che non siamo abituati che certi tipi di cariche non sono per le donne e questo interroga molto” e precisa poi che la nomina viene presentata dall’Università e ratificata dal Dicastero della Congregazione per l’educazione cattolica che dà il nulla osta, così come del resto l’incarico di docenza di Teologia dogmatica viene ratificato dalla Santa Sede, quindi oltre alla grande fiducia accordatale dai frati minori dell’Università Antonianum, ciò dimostra che “l’apertura è stata grande anche da parte della Santa Sede.” 

L’istruzione e la cultura femminile resta sempre e comunque un ambito su cui ancora lavorare proprio per conferire più forza alle donne, soprattutto in ambienti più poveri ed emarginati in cui la donna viene lasciata sola. Perciò è importante “trovare delle modalità per cui la donna possa scegliere liberamente e non sia lasciata sola. La possibilità di accesso delle donne allo studio di base è una delle prime cose, perché la donna assume consapevolezza di se e questo è importante. Questo è forse uno dei primi ambiti in cui non va lasciata sola perché la povertà, la mancanza di risorse, colpisce soprattutto le donne. Questi aspetti potrebbero far muovere la Chiesa ancora di più rispetto a quello che già fa soprattutto nelle zone di povertà a sostenere l’accesso delle donne. La cultura è una forza che fa dimenticare la propria dignità, quindi fa paura.” 

In quest’anno dedicato alla Vita Consacrata chiediamo a suor Mary se il tema della generatività trattato in maniera ampia dalla Plenaria, sia riconducibile anche alla vita consacrata femminile: “La generatività intesa come rapporto privilegiato con la vita, la capacità di essere custodi ma anche di avere una possibilità di assumerne la cura, quindi farla sviluppare, essere un grembo vitale in questo senso. Generatività in senso molto ampio, dall’arte alla capacità professionale, soprattutto poi nelle relazioni. Credo si tratti di un riconoscimento dovuto alla vita consacrata.” prosegue suor Mary “È vero che la vita consacrata ha un carattere di generatività notevole in tutti gli ambiti nel senso che la relazione tra vita consacrata (soprattutto femminile) e custodia della vita è incredibile. La generatività è la capacità di vedere dove la vita è fragile e, soprattutto nella vita consacrata, assumerne la custodia. Questo la vita consacrata l’ha sempre fatto: nell’educazione dei bambini, dei giovani, nel mettersi a fianco ai malati, dovunque. Se in quest’anno ciò venisse davvero riconosciuto penso che potrebbe essere per noi stessi uno stimolo a recuperare questa potenzialità grande che ci caratterizza come consacrati, essere al servizio della vita, presenze generative. Penso che sia una missione affascinante.” 

Al termine della nostra chiacchierata Suor Mary ci ricorda una frase di un vescovo che può rappresentare un punto di partenza per la riflessione sulla donna: “Durante la Plenaria un’espressione è stata molto interessante, mi ha colpito molto da parte di un vescovo che diceva ‘Credo che la Chiesa debba continuare in un cammino sulle donne che è quello di prenderle sul serio.’ A me è piaciuta tantissimo questa espressione perché è come riconoscere che le donne nella Chiesa fanno già tanto, hanno già tanti ruoli, portano già tanto nella Chiesa. Forse non sempre siamo prese sul serio, questo credo che un pochino sia vero. Mi è piaciuta l’espressione nel senso di riconoscere che forse una ridistribuzione di ruoli di responsabilità che pure ci deve essere e a cui il papa fa riferimento passi comunque attraverso una condizione previa che è quella di prendere sul serio, cioè di riconoscere il valore di quello che le donne fanno, perché fanno già tanto.” 

Prima di salutarci suor Mary Melone ci confida un sogno che è emerso proprio a conclusione dell’Assemblea Plenaria ed è la proposta da parte di suor Eugenia Bonetti, ripresa poi da Lucetta Scaraffia, di un Sinodo sulle donne. “Suor Eugenia ha detto ‘Lasciatemi sognare, forse io non lo vedrò, ma spero che ci sia un Sinodo sulla donna, fatto da donne, per le donne e con le donne.’ Un Sinodo sulla donna avrebbe certamente l’importanza di rimettere a tema tutte queste tematiche. Credo che gli aspetti siano stati toccati in maniera completa, forse la modalità è stata quella di un primo approccio di culture femminili come era il titolo della Plenaria e quindi riprendere in maniera un po’ più approfondita ed estesa con l’apporto di esperienze ecclesiali molto diverse così come è in un Sinodo con la collegialità sarebbe forse una possibilità diversa rispetto a questo importante momento come è stata la Plenaria, è stata importantissima, però forse un primo passo. Certamente se si arrivasse a un Sinodo sulla donna in cui le donne comunque parlassero…se le donne trovassero lo spazio in un Sinodo per dire sé stesse come Chiesa alla Chiesa, penso che questi temi potrebbero essere forse approfonditi, ampliati, forse si aggiungerebbero aspetti che sono stati solo accennati. Sicuramente la prospettiva di un Sinodo è importante e non solo per la questione del tempo, è la prospettiva di una Chiesa collegiale che si interroga, avrebbe una forza diversa. Poi a un Sinodo ci si arriva con una preparazione, un coinvolgimento di tutta la Chiesa, come se la Chiesa si interrogasse tutta. Una Chiesa che si interroga con amore, con passione su se stessa. ” 

Fonte: laperfettaletizia.com

 

Traccia di lavoro per l’Assemblea Plenaria
Roma, Pontificio Consiglio della Cultura, 4 – 7 febbraio 2015

Premessa

«Sono convinta che la specie ‘umana’ si sviluppa come specie doppia ‘uomo’ e ‘donna’; che l’essenza dell’essere umano, cui non deve mancare alcun tratto, sia nell’uno che nell’altra si manifesta in un duplice modo; e che l’intera struttura dell’essenza mette in evidenza questa specifica impronta» (Edith Stein, La donna. Questioni e riflessioni, Roma 2010, pp. 227–228).

Il lavoro della Plenaria, con il contributo prezioso dei Membri e Consultori, attraverso quattro tappe tematiche, cercherà di cogliere alcuni aspetti delle culture femminili per individuare dei possibili percorsi pastorali, affinché le comunità cristiane siano in grado di ascoltare e dialogare con la contemporaneità anche su questo ambito. L’espressione “culture femminili” non significa dividerle da quelle maschili, ma manifesta la consapevolezza che esiste uno “sguardo” sul mondo e su tutto ciò che ci circonda, sulla vita e sull’esperienza, che è proprio delle donne. Tendenzialmente presente nel tessuto di tutte le culture e le società, possiamo cogliere questa singolare prospettiva nella famiglia e nel lavoro, nella politica e nell’economia, nello studio e nelle situazioni decisionali, nella comunicazione e nella letteratura, nell’arte e nello sport, nella moda e nella cucina, ecc. Questo testo, elaborato da un gruppo di donne alla luce delle considerazioni pastorali inviateci dai Membri e Consultori, ci guiderà nelle riflessioni.

All’alba della storia umana, le società dividevano ruoli e funzioni tra maschio e femmina in modo rigoroso. Ai maschi spettava la responsabilità, l’autorità e la presenza nella sfera pubblica: la legge, la politica, la guerra, il potere. Alle donne apparteneva la riproduzione, l’educazione, e la cura della specie umana nell’ambito

domestico. Nel mondo antico europeo, nelle comunità del continente africano, in civiltà antichissime come quelle sviluppatesi nell’ “universo” asiatico, le donne, dunque, esercitavano i propri talenti nell’ambito della famiglia e delle relazioni personali, mentre non frequentavano la sfera pubblica, o ne erano escluse. Le regine e le imperatrici ricordate nei libri di storia sono notevoli eccezioni alla regola.

Dalla metà dell’Ottocento in poi, soprattutto in Occidente, sono rimesse in discussione sia la divisione tra “spazi” maschili e femminili, sia la sua normalità. Le donne rivendicano uguaglianza; non accettano più il ruolo di deuxième sexe, ma stessi diritti, come il diritto di voto, l’accesso all’istruzione superiore e alle professioni. Così, la strada è aperta verso la parità tra i sessi.

Questo passaggio non è stato e non è privo di difficoltà. Infatti, nel passato (ma solo nel passato?) le donne hanno dovuto lottare per poter esercitare professioni o assumere ruoli decisionali che apparivano esclusivamente destinati alla parte maschile. Così, gli ambiti di riflessione si estendono in modo planetario nelle differenti culture, si trasformano e si presentano con sfumature diverse, talvolta intrecciandosi anche con movimenti politici e fortemente ideologizzati. In questo orizzonte globalizzato e fortemente dialettico l’esigenza di trovare delle risposte diventa sempre più urgente. La nostra Plenaria è impegnata a cogliere e comprendere la specificità femminile nel considerare temi come funzione, ruolo, dignità, uguaglianza, identità, libertà, violenza, economia, politica, potere, autonomia ecc. 


 TEMA I. Tra uguaglianza e differenza: alla ricerca di un equilibrio

Vi sono delle differenze

Oggi, generalmente parlando, le donne cercano forme di conciliazione tra la vita professionale e gli impegni familiari. Possono rinunciare alla maternità ma, se hanno figli, non evitano l’impegno di allevarli, educarli e proteggerli. Se non sono sposate e non hanno figli, le donne, in ogni modo, accolgono, includono, si adoperano per la mediazione, sono capaci di tenerezza e di perdono molto più degli uomini. Oltre al diverso modo di essere genitori, vi è una differenza tra femminile e maschile nelle tecniche di risoluzione dei problemi, nella percezione dell’ambiente, nei modelli di rappresentazione e cicli di riposo, per citare solo alcune categorie. Cancellare le differenze significa impoverire l’esperienza personale. In questo senso è giusto non accettare una neutralità imposta ma valorizzare la differenza.

L’onda ugualitaria, però, è continua, tocca tutti gli ambiti della vita sociale e quasi tutte le istituzioni umane e le culture. È così forte che, negli ultimi anni, in Occidente, si è giunti ad affermare che non esista alcuna differenza: il soggetto è neutro, sceglie e costruisce da sé la propria identità; è proprietario di sé e risponde in primo luogo a se stesso. Tuttavia, nel rivendicare parità, raramente le donne rinunciano alla propria differenza. Un esempio tratto dalla realtà può illustrare molto bene l’affermazione. Il coordinatore di una conferenza internazionale presenta il primo relatore: è Michelle, nata 65 anni fa in un paese europeo; in patria, è stata una delle prime donne a laurearsi in fisica e la prima donna Rettore di Università; da alcuni anni è presidente di una delle più importanti associazioni accademiche europee; il coordinatore le chiede quale dei tanti titoli che ha conseguito preferisca; la risposta di Michelle è: il titolo che preferisco è “nonna “ e vorrei farlo più spesso di quanto riesca. Anche se Michelle non può fare la nonna quanto vorrebbe, questo “titolo” fa parte integrante della sua identità di persona e le permette di auto– definirsi. L’interrogativo, allusivamente pungente, che rimane sotteso all’esempio citato è: la medesima situazione, con protagonista maschile, avrebbe avuto la stessa risposta?

Uguali e diverse, insieme?

In una modernità dove il lavoro è la via maestra e la più solida per evitare la povertà e l’esclusione, le donne chiedono lavoro, talvolta anche una carriera, e il riconoscimento di questo impegno in termini di status e di denaro pari agli uomini. 

Reclamano spazio nella sfera pubblica uguale a quello concesso agli uomini. Domandano di essere considerate persone nella propria interezza, non solo subalterne. Moltissimi paesi del mondo hanno addirittura modificato i propri sistemi giuridici per riconoscere l’equilibrio e la condivisione delle responsabilità tra moglie e marito, madre e padre.

All’inizio del terzo millennio la soggettività femminile tendenzialmente si esprime nell’armonia tra questi due punti. Nel mondo esistono molte culture femminili ognuna delle quali, con modi, forme e tempi propri, è impegnata nell’individuare una proporzione, anche per evitare due estremi rischiosi di questo processo: l’uniformità, da un lato e, dall’altro, l’emarginazione. La differenza e l’uguaglianza delle donne non è contro, ma con, perché l’esperienza storica della condizione femminile ha insegnato alle donne che la neutralità è in realtà una forma di dispotismo, e ci fa uscire dall’umano.

  • La differenza (tra uomo e donna) ha generato una radicale disuguaglianza. Dove cercarne le radici: nell’antropologia culturale? Nella detenzione del potere, saldamente nelle mani di chi (uomini) è tradizionalmente riconosciuto più abile nel comando?
  • La questione di “genere” (gender), può essere legata, in qualche maniera, a questa visione “disuguale” tra uomo e donna, da cui deriva la pretesa di crearsi una identità “culturale”? Può esserci qualche nesso soprattutto a livello di tensioni sociali?
  • Le categorie della “reciprocità” e della “complementarietà” possono essere una chiave di lettura e un possibile percorso di vita, oppure si devono individuare altre categorie?
  • L’uguaglianza come persone umane necessita della differenza per dare pienezza alla Parola di Dio che crea: «Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza ... E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1,26–27). Quale linguaggio usare, oggi, per rendere comprensibile questa Parola alle persone? La narrazione biblica conserva ancora un’intrinseca forza argomentativa?  

 

TEMA II. La “generatività” come codice simbolico

Le numerosissime indagini di carattere etico prima ancora che giuridico ci hanno convinto che il tema della generatività sia uno dei più dibattuti e controversi nell’attuale orizzonte culturale, sociale e politico dell’Occidente, ma non solo (basti pensare a questioni come maternità surrogata, utero in affitto, fecondazione medicalmente assistita omologa ed eterologa, ecc.). Da questa consapevolezza è maturata la scelta di leggere la categoria in chiave simbolica, evitando la complessità di una lettura sociologica, giuridica e bioetica che avrebbe richiesto ben altra analisi e tempi molto più lunghi per la ricerca e il confronto.

Ricorrendo a qualche semplificazione, possiamo affermare che un percorso generativo si divide in quattro momenti: desiderare, mettere al mondo, prendersi cura e, infine, lasciar andare. Dunque, una generatività che, in quanto atto antropologico originario e come codice simbolico, si manifesta anche negli spazi pedagogici (educazione alla fede, attività pastorale, formazione scolastica), nel dare vita a strutture sociali, culturali ed economiche ispiratrici di valori, idee, principi e prassi orientati al bene comune, allo sviluppo integrale dell’uomo e all’impegno solidale.

Punto di partenza di ciascun essere umano

La generatività ruota, imprescindibilmente, intorno ai corpi delle donne. È l’universo femminile, infatti, che – per una predisposizione naturale, spontanea, si potrebbe dire bio-fisiologica – da sempre, custodisce, conserva, accudisce, sostiene, crea attenzione, consenso e cura intorno a colui che viene concepito, si sviluppa, nasce e deve crescere. La fisicità delle donne – che rende il mondo vivo, longevo, capace di estendersi – nel grembo materno trova la sua massima espressione. Il corpo della donna è il punto di partenza di ciascun essere umano, la fonte prima della risposta all’angoscia di morte. Nel corpo della donna ha luogo la vita prenatale: essa ha un valore e un’importanza fondamentale perché lascia un’impronta iniziale nel corpo e nel cervello in formazione del bambino.

Far venire al mondo un essere umano, dunque, è molto più che generarlo o partorirlo, implica aiutarlo a sviluppare il proprio potenziale per realizzarsi e vivere una vita piena, in cui le crisi e le difficoltà possano essere affrontate con risorse intra e inter personali. In questo orizzonte generativo, la mens (le neuroscienze insegnano) emerge dalle attività del cervello le cui strutture e funzioni sono direttamente influenzate dalle esperienze interpersonali, a partire dalla vita prenatale. Si tratta di un processo biologico, quello dell’integrazione, che viene stimolato da relazioni fondate sulla sicurezza, l’empatia, la sintonizzazione emotiva, la cooperazione e la comprensione.

Altri contesti della “libertà generativa”

Così, poiché ogni relazione ha un impatto sul cervello e la mente, la generatività si può esprimere in ogni relazione, in ogni momento della vita, declinandosi in molte forme. Allora, promuovendo la vita buona, di fatto si diventa generativi, imprimendo la propria firma nell’esistenza di coloro che ci sono affidati. Questo può avvenire in molteplici contesti, dalla famiglia ai luoghi dell’educazione, della cura, dell’informazione e alle aziende. Donne imprenditrici e manager, ad es., che coltivano processi gestionali fondati sul rispetto, l’accoglienza, la valorizzazione delle differenze e delle competenze, generano e proteggono la vita esprimendo fecondità. Tali processi sono alla base di un futuro pienamente umano, baluardo contro una involuzione della specie umana, rischio possibile laddove si coltivino in modo disarmonico le logiche della competizione e del potere.

  • Il primo contatto col mondo e il primo sguardo sulla vita ogni essere umano li riceve al femminile. C’è un sufficiente riconoscimento del valore delle donne in questo segmento imprescindibile della vita umana?
  • Il ruolo centrale delle donne che accompagnano verso la pienezza dell’umano è riconosciuto nelle società e anche nella Chiesa a tutte le latitudini?
  • Il «lavoro di cura» è ancora ritenuto una “questione di donne” (angeli del focolare)? Viene riconosciuto anche economicamente? Come traduciamo questa espressione a livello sociale? E nella Chiesa?
  • La nascita di nuovi modalità e spazi generativi (relazioni, amicizie, sostegno, solidarietà, condivisione, ecc.) può essere facilitata anche dalla rete virtuale. Quale spazio trovano le donne, nel mondo delle comunicazioni sociali, per esprimersi?

 

TEMA III. Il corpo femminile: tra cultura e biologia

Il corpo femminile

Il corpo per la donna – come per altro accade anche nell’esperienza maschile – rappresenta, in senso culturale e biologico, simbolico e naturale, il luogo della propria identità. Esso è soggetto, mezzo, spazio dello sviluppo e dell’espressione dell’io, luogo di convergenza di razionalità, psicologia, immaginazione, funzionalità naturali e tensioni ideali. Il corpo femminile, dunque, si pone quale filtro di comunicazione con l’altro, in uno scambio, continuo e inevitabile, tra individuo e contesto. Così l’identità femminile si trova ad essere il punto di convergenza delle fragilità quotidiane, delle vulnerabilità, della mutabilità, del molteplice, tra vita emotiva interiore e fisicità esteriore.

La chirurgia estetica può essere inquadrata come una tra le tante possibili manipolazioni del corpo che ne esplorano i limiti rispetto al concetto di identità. Una specificità che nel mondo contemporaneo è sottoposta a pressioni fino al punto da

provocare patologie (dismorfofobia, disturbi alimentari, depressione...) o “amputare” le possibilità espressive del volto umano così connesse con le capacità empatiche. La chirurgia estetica, quando non è medico-terapeutica, può dunque esprimere aggressione all’identità femminile, mostrando il rifiuto del proprio corpo in quanto rifiuto della “stagione” che si sta vivendo.

Se dunque il corpo è il “luogo di verità” dell’io femminile, nell’imprescindibile intreccio tra cultura e biologia, esso è anche il luogo del “tradimento” di questa verità. L’uso indiscriminato e indifferenziato che la comunicazione, in tutte le sue declinazioni, dalla pubblicità (allusione sessuale e svilimento del ruolo) ai media, ha operato del corpo femminile, ne è un esempio incontestabile. Nessuna battaglia politica o sociale è riuscita a scardinare un meccanismo così profondamente radicato quale quello dello sfruttamento del corpo femminile a fini commerciali.

L’aggressione del corpo della donna

Secondo le stime dell’Onu, al mondo, più del 70 per cento delle persone che vivono nell’indigenza, sono donne: donne povere, incolte, in condizioni di sfruttamento, di pericolo, di sudditanza, di difficoltà, cioè in situazioni che limitano profondamente le loro possibilità di conoscenza, informazione, emancipazione e liberazione; donne menomate dalla depressione che le rende imbelli, prive di coraggio, asservite agli uomini; donne che accettano una loro presunta inferiorità e che sono condizionate dalle consuetudini culturali delle società nelle quali vivono. Quindi, la povertà è sia causa sia conseguenza della violenza sulle donne.

In uno scenario simile, il corpo delle donne può divenire luogo simbolico del “nulla”, dell’essere “oggetto”, attraverso il nascondimento, la mutilazione e la costrizione del corpo, fino ad arrivare all’eliminazione di ogni soggettività, di qualunque espressione di vita e di pensiero. In questo senso la prostituzione può essere considerata la più diffusa forma di “schiavitù”, anche nelle società civili e democratiche. Quando si parla della violenza perpetuata sulle donne – a cominciare dalle bambine – si parla, anche e soprattutto, della violazione dei principi e dei valori sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e dai successivi atti nazionali ed internazionali in difesa e a tutela dei diritti umani (che evocano immediatamente il comando biblico di non opprimere l’orfano e la vedova (cf Es. 22,21). Se è vero, infatti, che tutti gli individui godono di uguali diritti in quanto esseri umani, nessun alibi – sia esso culturale o sociale – dovrebbe mai essere impiegato per legittimare, minimizzare o addirittura tollerare la violenza di genere. Ma questo accade ancora oggi in considerazione dal fatto che, proprio nella discriminazione e negli stereotipi legati ai ruoli, la violenza sulle donne affonda le sue radici più profonde.

Il femminicidio è l’omicidio della donna “in quanto donna”, per impadronirsi di qualcosa che viene ritenuto un diritto esclusivo, ricorrendo all’umiliazione e alla violenza, sia fisica sia psicologica. Così, l’aborto selettivo, l’infanticidio, le mutilazioni genitali, i delitti d’onore, i matrimoni obbligati, il traffico delle donne, le molestie sessuali, gli stupri – che in alcune zone del mondo diventano perfino di massa ed etnici – sono alcune tra le ferite più profonde quotidianamente inflitte all’anima del mondo, passando per il corpo delle donne e delle bambine, rese vittime silenziose e invisibili. Va potenziata, allora, la formazione di quanti vivono a stretto contatto con la violenza, ma va anche promossa una cultura della convivenza tra donne e uomini, nella consapevolezza che il mondo è affidato alle une e agli altri in egual misura.

La «violenza domestica» – quella inflitta dagli uomini di casa, anche padri o fratelli – è la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 16 e i 44 anni. La fredda statistica ci pone due domande: Perché una donna viene uccisa da un marito, un fidanzato, spesso compagni o ex compagni di anni di vita, padri di figli cresciuti insieme? Perché una donna al primo spintone, o anche alle prime parole selvagge, non allontana da sé per sempre l’uomo che la minaccia, brucia l’amore coniugale, lo stravolge, lo profana fino all’estremo? 

  • “La chirurgia estetica è come un burqa di carne”. Questa la definizione molto pertinente, anche se sferzante, data da una donna. Lasciata la libertà di scelta a tutti, non è che siamo sotto il giogo culturale del modello femminile unico? Pensiamo alle donne usate nella pubblicità e nella comunicazione di massa?
  • Da generatori di vita a produttori? L’orizzonte scientifico ci interpella: lo scenario del generare a prescindere dal corpo, soprattutto femminile, la chiamata all’esistenza di un essere umano avulsa dalla relazione dei genitori prima e tra la madre e il figlio poi non significa andare verso la deriva di un corpo–produttore e non più generatore? Possiamo trascurare la sofisticata interazione tra cultura, biologia e tecnologia?
  • Il corpo esprime l’essere di una persona, più che una dimensione estetica fine a se stessa: come evitare un approccio puramente funzionale (seduttività, mercificazione, uso a fini di marketing) al corpo delle donne? 

 

TEMA IV. “Le donne e la religione: fuga o nuove forme di partecipazione alla vita della Chiesa?”.

Dalle donne emergono domande sofferte e sincere. Cerchiamo di ascoltare il loro disagio plurale di fronte a una iconografia femminile un po’ obsoleta nella quale fanno fatica a rispecchiarsi e riconoscersi. Potremmo aprire questa ultima sessione di lavoro con una serie di interrogativi: quale annuncio kerigmatico per le donne, che non sia confinato in una visione moralistica? Quali indicazioni per una rinnovata prassi pastorale, per un cammino vocazionale verso il matrimonio e la famiglia, verso la consacrazione religiosa, in considerazione della nuova coscienza di sé che le donne hanno acquisito? Perché così poche e inadeguate risposte alla valorizzazione del loro corpo, dell’amore fisico, ai problemi della maternità responsabile? Perché la pur grande presenza delle donne nella Chiesa non ha inciso nelle sue strutture? Nella prassi pastorale, perché attribuire alla donna solo quei compiti che uno schema, forse, un po’ irrigidito da residui ideologici e ancestrali le attribuisce?

Ieri. «Ma viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora nella quale la donna acquista nella società una influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. È per questo, in un momento in cui l’umanità conosce una così grande trasformazione, che le donne illuminate dallo spirito evangelico possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere» (Messaggio del Concilio alle donne). E ancora: «[Uomini e donne] apportino la ricchezza del proprio dinamismo alla costruzione del mondo», perché «oggi è urgente, sia nella società civile che nella Chiesa, un lavoro di risveglio e di promozione femminile. Si tratta di proteggere la dignità della donna, rispettando sempre ciò che è genuinamente femminile (è questa la vera uguaglianza), ed evitando che la donna, nel suo sforzo legittimo per far riconoscere la sua uguaglianza di dignità con l’uomo, nello sforzo per inserirsi responsabilmente in una società marcatamente maschilista, perda la sua femminilità. Nel rispetto di questa originalità della donna si basa il vero sviluppo della posizione femminile» (Commissione di Studio sulla donna nella società e nella Chiesa). Attraverso questa concisa evocazione del Concilio Vaticano II e del lavoro della Commissione succitata, chiudiamo il nostro sguardo al recente passato, che tutti ricordiamo.

Oggi. Lo sguardo al presente ci fa correre il rischio della retorica o dei luoghi comuni. Sono le donne le prime che hanno creduto, sono loro le prime testimoni. Ed è proprio a loro, alle mamme e alle nonne in primis, che Papa Francesco ha chiesto di continuare a portare l’annuncio di speranza e di risurrezione. Le donne, infatti, rappresentano da sempre per la Chiesa una sorta di fortezza silenziosa della fede, a loro è da sempre demandato il compito di educare i bambini alla vita da credenti. Un esercito di maestre, catechiste, mamme e nonne che però a ben guardare la realtà della Chiesa di oggi sono figure che sembrano appartenere a un piccolo mondo antico che va sempre più scomparendo. Infatti, è proprio a partire dalle giovani che la crisi sta prendendo piede. In occidente, le donne che hanno tra i 20 e i 50 anni vanno di meno a Messa, scelgono di meno il matrimonio religioso, pochissime ancora seguono una vocazione religiosa, e più in generale esprimono una certa diffidenza verso la capacità formativa degli uomini di religione. Che cosa non funziona, oggi, dal momento che l’immagine di donna che gli uomini di Chiesa in genere conservano non corrisponde più alla realtà? Oggi le donne non trascorrono più i pomeriggi a recitare il rosario o a prendere parte alle varie pratiche religiose, sono spesso donne lavoratrici, non di rado top manager impegnate quanto e più degli uomini, perché molte volte su di loro ricade anche la cura della famiglia. Sono donne che hanno raggiunto, magari con fatica, posti di prestigio all’interno della società e del mondo del lavoro a cui non corrisponde alcun ruolo decisionale e di responsabilità all’interno della comunità ecclesiale. Non si discute qui di sacerdozio femminile che peraltro, stando alle statistiche interessa pochissimo le donne. Se, come dice Papa Francesco, le donne hanno un ruolo centrale nel Cristianesimo, questo ruolo deve trovare una corrispondenza anche nella vita ordinaria della Chiesa.

Uno sguardo al futuro. Il terreno, si sa, è minato da pregiudizi e arroccamenti su posizioni ancestrali e alimentate con il combustibile della tradizione e di un eccesso di presenza maschile spesso refrattaria a qualsiasi confronto. Non è più il tempo di un automatico incasellamento di ogni richiesta femminile nel grande contenitore del femminismo, nel quale convivono spesso rivendicazioni più o meno condivisibili. Ogni epoca storica è segnata da conflitti e aspettative, che oggi ci rivelano inderogabile la complementarietà tra uomo e donna. Un terreno difficile da arare ma che darebbe frutti in abbondanza, anche alla stessa Chiesa.

Non si tratta di attuare una rivoluzione contro la tradizione. In altri termini le voci femminili del buon senso non pensano e non vogliono strappare vesti e poltrone agli uomini, attuando un ribaltamento di potere tra i sessi né, tantomeno, indossare qualche berretta color porpora, a scapito del riconoscimento delle donne con tutte le loro peculiarità femminili. L’obiettivo realistico potrebbe essere quello di aprire alle donne le porte della Chiesa affinché offrano il loro contributo in termini di competenze ma anche di sensibilità, intuito, passione e dedizione, nella piena collaborazione e integrazione con la componente maschile.

  • Quali spazi vengono proposti alle donne nella vita della Chiesa? Le accogliamo tenendo conto delle specifiche e mutate sensibilità culturali, sociali e di identità? Forse, proponiamo modalità di partecipazione a partire da schemi maschili che a loro non interessano?
  • Ci siamo mai chiesti quale tipo di donna è necessario alla Chiesa oggi? La loro partecipazione la pensiamo e la elaboriamo insieme con loro? Oppure consegniamo dei modelli preconfezionati, che non incontrano le loro aspettative o rispondono a interrogativi ormai superati?
  • Le donne fuggono dalla Chiesa? Forse in alcune aree culturali questo è vero, altre zone geografiche potrebbero suggerire elementi preziosi da proporre e nuovi orizzonti verso cui volgere lo sguardo. Il dibattito pastorale tra esperienze diverse, in cui le donne hanno la possibilità di far sentire la loro voce e di offrire la loro disponibilità al servizio, non potrebbe diventare una modalità “sinodale” di vivere la fede e di “abitare” nella Chiesa?

Quali sono le caratteristiche della presenza delle donne nelle diverse società e culture, da cui potremmo trarre ispirazione per un rinnovamento della pastorale così da consentire una loro più attiva partecipazione alla vita della Chiesa?

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