Oggi abbiamo l’occasione di ringraziare insieme il Signore per il Sermig, che è una specie di grande albero cresciuto a partire da un piccolo seme. Così sono le realtà del Regno di Dio. Il piccolo seme il Signore l’ha gettato a Torino all’inizio degli anni Sessanta. Un tempo molto fecondo, basta pensare al Pontificato di San Giovanni XXIII e al Concilio Vaticano II. In quegli anni sono germogliate nella Chiesa diverse esperienze di servizio e di vita comunitaria, a partire dal Vangelo. E là dove c’è stata una continuità, grazie ad alcune vocazioni che hanno ricevuto risposte generose e fedeli, queste esperienze si sono strutturate e sono cresciute cercando di corrispondere ai segni dei tempi. 

Il Sermig, Servizio Missionario Giovani, è una di queste. È nato a Torino da un gruppo di giovani; ma sarebbe meglio dire: da un gruppo di giovani insieme al Signore Gesù. Del resto, Lui lo disse chiaramente ai suoi discepoli: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). Dai frutti si vede chiaramente che al Sermig non si è fatto mero attivismo, ma si è lasciato spazio a Lui: a Lui pregato, a Lui adorato, a Lui riconosciuto nei piccoli e nei poveri, a Lui accolto negli emarginati. Sempre Lui, guardando Lui.

Nella storia del Sermig ci sono tanti avvenimenti, tanti gesti che si possono leggere come piccoli e grandi segni di Vangelo vivo. Ma tra tutti questi ce n’è uno che, in questo momento storico, risalta con una forza straordinaria. Mi riferisco alla trasformazione dell’Arsenale Militare di Torino nell’Arsenale della Pace. Questo è un fatto che parla da solo. È un messaggio, purtroppo drammaticamente attuale, che si deve ripetere continuamente.

Anche qui, dobbiamo stare attenti a non “uscire di strada”. L’Arsenale della Pace –come le altre realizzazioni del Sermig, e in generale tutte le opere delle comunità cristiane– è un segno del Vangelo non tanto per i numeri che quantificano l’operazione. Non bisogna fermarsi a questo. L’Arsenale della Pace è frutto del sogno di Dio, potremmo dire della potenza della Parola di Dio. Quella potenza che sentiamo quando ascoltiamo la profezia di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, / delle loro lance faranno falci; / una nazione non alzerà più la spada / contro un’altra nazione, / non impareranno più l’arte della guerra» (2,4). Ecco il sogno di Dio che lo Spirito Santo porta avanti nella storia attraverso il suo popolo fedele. Così è stato anche per voi: attraverso la fede e la buona volontà di Ernesto, di sua moglie e del primo gruppo del Sermig è diventato il sogno di tanti giovani. Un sogno che ha mosso braccia e gambe, ha animato i progetti, le azioni e si è concretizzato nella conversione di un arsenale di armi in un arsenale di pace.

E che cosa si “fabbrica” nell’Arsenale della Pace? Che cosa si costruisce? Si fabbricano artigianalmente le armi della pace, che sono l’incontro, il dialogo, l’accoglienza. E in che modo si fabbricano? Attraverso l’esperienza: nell’Arsenale i giovani possono imparare concretamente a incontrare, a dialogare, ad accogliere. Questa è la strada, perché il mondo cambia nella misura in cui noi cambiamo. Mentre i signori della guerra costringono tanti giovani a combattere i loro fratelli e sorelle, ci vogliono luoghi in cui si possa sperimentare la fraternità. Ecco la parola: fraternità. Infatti il Sermig si chiama “fraternità della speranza”. Ma si può dire anche l’inverso, cioè “la speranza della fraternità”. Il sogno che anima i cuori degli amici del Sermig è la speranza di un mondo fraterno. È il “sogno” che ho voluto rilanciare nella Chiesa e nel mondo attraverso l’Enciclica Fratelli tutti (cfr n. 8). Voi condividete già questo sogno, anzi, ne fate parte, contribuite a dargli carne, a dargli mani, occhi, gambe, a dargli vita. Di questo voglio rendere grazie a Dio con voi, perché questa è un’opera che non si può fare senza Dio. Perché la guerra si può fare senza Dio, ma la pace si fa solo con Lui.

Cari amici del Sermig, non stancatevi mai di costruire l’Arsenale della Pace! Anche se l’opera può sembrare conclusa, in realtà si tratta di un cantiere sempre aperto. Questo voi lo sapete bene, e infatti in questi anni avete dato vita all’Arsenale della Speranza a San Paolo del Brasile, all’Arsenale dell’Incontro a Madaba in Giordania, all’Arsenale dell’Armonia a Pecetto Torinese. Ma tutte queste realtà: la pace, la speranza, l’incontro, l’armonia, si costruiscono solo con lo Spirito Santo, lo Spirito di Dio. È Lui che crea la pace, la speranza, l’incontro, l’armonia. E i cantieri vanno avanti se chi ci lavora si lascia lavorare dentro dallo Spirito. Voi mi direte: e chi non crede?, e chi non è cristiano? Questo a noi può sembrare un problema, ma certo non lo è per Dio. Lui, il suo Spirito, parla al cuore di chiunque sappia ascoltare. Ogni uomo e donna di buona volontà può lavorare negli Arsenali della pace, della speranza, dell’incontro e dell’armonia.

Tuttavia, ci vuole qualcuno che abbia il cuore ben radicato nel Vangelo. Ci vuole una comunità di fede e di preghiera che tiene acceso il fuoco per tutti. Quel fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra e che ormai arde per sempre (cfr Lc 12,49). E qui si vede anche il senso di una comunità di persone che abbracciano integralmente la vocazione e la missione della fraternità e la portano avanti in maniera stabile.

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio tanto per questo incontro, e soprattutto per la vostra testimonianza e il vostro impegno. Andate avanti! La Madonna vi custodisca e vi accompagni. Vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.

Discorso di papa Francesco ai membri del Servizio Missionario Giovani (Sermig), 7 gennaio 2023

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Abbiamo appena concluso il mese di ottobre, il mese missionario che, attraverso il messaggio di Papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale, ci ricorda e ci aiuta a vivere il fatto che la Chiesa è missionaria per natura.

Nel suo messaggio, il Papa evidenzia tre espressioni chiave che riassumono i fondamenti della vita e della missione dei discepoli: "perché siate miei testimoni", "fino agli estremi confini della terra" e "lo Spirito Santo scega su di voi e voi riceva la sua forza".

Il messaggio indica che in queste espressioni c'è il cuore dell'insegnamento di Gesù ai discepoli in vista della sua missione nel mondo. I discepoli saranno testimoni di Gesù grazie allo Spirito Santo che riceveranno; e sono resi testimoni non per i loro meriti, ma per pura grazia di Dio. Proprio come Gesù è il primo inviato e missionario del Padre, ogni discepolo è chiamato ad essere missionario e testimone di Cristo. E quella comunità di discepoli (la Chiesa) non ha altra missione che evangelizzare il mondo rendendo testimonianza a Cristo.

Come non leggere e adattare questo messaggio di Papa Francesco al momento di Kairos e di grazia che il nostro Istituto sta vivendo in questa fase di preparazione al XIV Capitolo Generale? Se preghiamo per riscoprire la bellezza e l'entusiasmo della nostra missione ad gentes, sarà perché quella bellezza e quell'entusiasmo sono stati diluiti, indeboliti o passati in secondo piano.

Il documento preparatorio del Capitolo ci presenta la realtà mutevole del mondo, della missione, della teologia della missione, dell'Istituto. Nello stesso tempo ci invita, in atteggiamento di ascolto dello Spirito Santo, a non lasciarci scoraggiare di fronte alle nuove sfide che questi cambiamenti generano, a non essere indifferenti alle novità che ci vengono presentate, e a non aver paura di cambiare noi stessi. Sebbene cambino molte delle circostanze che ci circondano, anche se cambia il modo di vedere e di agire la missione, anche se cambiano lo stile di vita, le dinamiche sociali, i progetti politici, le espressioni culturali, il messaggio del Regno di Dio e il mandato di Gesù Cristo ai suoi discepoli è ancora valido.

Ai discepoli è chiesto di vivere la loro vita personale nella chiave della missione. Gesù li invia "ad essere suoi testimoni" non solo per compiere la missione, ma anche e soprattutto per vivere la missione loro affidata; non solo per testimoniarlo, ma soprattutto per essere suoi testimoni. "La prima motivazione per evangelizzare è l'amore di Gesù che abbiamo ricevuto, quell'esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più" (Evangelii gaudium, 264).

L'indicazione "fino ai confini della terra" dovrebbe interrogarci e spingerci ad andare sempre oltre i soliti luoghi. La Chiesa è e sarà sempre in cammino verso nuovi orizzonti geografici, sociali ed esistenziali, verso situazioni umane "limiti" per testimoniare l'amore di Cristo. Come dice la lettera di indicazione al Capitolo, "non possiamo essere missionari 'seduti', ma dobbiamo avere il coraggio di uscire sempre cercando il suo volto".

"Riceveranno la potenza dello Spirito" perché nessuno può rendere piena testimonianza a Cristo senza l'ispirazione e l'aiuto del suo Spirito. Per questo ogni discepolo missionario di Cristo è chiamato ad essere attento alla voce di quello Spirito di Dio per ricevere costantemente la sua forza e la sua ispirazione. E siamo proprio noi, riferendoci al Capitolo Generale, nella fase dell'ascolto della realtà e del discernimento della voce dello Spirito di Dio.

Riscoprire la bellezza e l'entusiasmo della nostra missione ad gentes non è compito esclusivo dei Padri Capitolari, è un dovere di tutti noi, il Capitolo Generale appartiene a tutti noi, e dobbiamo sentirci motivati ad aggiornare e ravvivare il carisma di consolazione così oggi più che mai opportuno che il Beato Fondatore ci ha lasciato in eredità. Questo tempo ci offre nuove opportunità di evangelizzazione e di missione ad gentes e di consolazione. "Camminiamo e collaboriamo, tutti insieme, con grande fiducia nel Signore perché tutto il cammino capitolare sia un tempo di grande semina, un tempo favorevole e fecondo per aiutarci ad essere autentici consacrati per la missione!" (lettera di indicazione), e riscoprire così la bellezza e l'entusiasmo della nostra missione ad gentes.

*Juan Pablo de los Rios è il superiore dei Missionari della Consolata in Colombia

La Missione Giovani è una delle attività che la Gioventù Missionaria della Consolata (JMC) svolge ogni anno con l'obiettivo di rafforzare lo spirito e il carisma della famiglia della Consolata, offrendo ai giovani l'opportunità di vivere la spiritualità e il carisma della missione nei luoghi più bisognosi. Ogni anno l'esperienza si svolge in una città o in un luogo dove la gente sente il desiderio e la sete di Dio.

A causa della pandemia, negli ultimi tre anni l'iniziativa non si è potuta celebrare ma si sono svolti vari incontri online dove ogni giovane ha potuto condividere la propria missione.

In questo Mese Missionario 2022 siamo stati invitati a riflettere sul tema "La Chiesa è missione", con lo slogan "Sarete miei testimoni" (At 1,8), parole tratte dall'ultimo colloquio di Gesù risorto con i suoi discepoli prima della sua Ascensione al cielo, secondo gli Atti degli Apostoli: "Avrete forza quando lo Spirito Santo sarà sceso su di voi; e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1,8). Oggi questa chiamata è rivolta a tutti i cristiani che sono incoraggiati a testimoniare Cristo nel mondo.

Dal 13 al 16 ottobre, con la Missione Giovani, nella città di Jaguararí, seguendo l’invito di Gesù, ci siamo impegnati a proclamare il Vangelo. I giovani che hanno partecipato hanno visitato le famiglie, i malati e le persone più bisognose, benedicendo e pregando con le persone sull'esempio della Madre di Gesù che si affrettò a visitare la cugina Elisabetta, portandole consolazione, gioia e speranza.

Durante la formazione e la preparazione per questa missione concreta i giovani avevano detto: "vogliamo vivere questa esperienza senza paura, ma con la certezza che la Chiesa è Missione, i giovani sono missione. Per questo vogliamo essere testimoni di Gesù in mezzo alla gente e con la gente".

In questa attività abbiamo riunito con gioia circa 40 giovani provenienti dalle città di Jaguarari, Monte Santo e Feira de Santana, disposti ad assumere le parole del nostro Padre Fondatore Giuseppe Allamano: "La missione nella bocca, nella mente e nel cuore". La nostra Madre Consolata, il nostro Beato Giuseppe Allamano, Irene Stefani e Leonella Sgorbatti intercedano per noi.  

* Padre Josky Menga, IMC, è coordinatore dell'AMJV in Brasile e animatore a Bahia.

Cari fratelli e sorelle!

Queste parole appartengono all’ultimo colloquio di Gesù Risorto con i suoi discepoli, prima di ascendere al Cielo, come descritto negli Atti degli Apostoli: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (1,8). E questo è anche il tema della Giornata Missionaria Mondiale 2022, che come sempre ci aiuta a vivere il fatto che la Chiesa è per sua natura missionaria. 

Fermiamoci su queste tre espressioni-chiave che riassumono i tre fondamenti della vita e della missione dei discepoli: «Mi sarete testimoni», «fino ai confini della terra» e «riceverete la forza dallo Spirito Santo».

1. «Di me sarete testimoni» 

È il punto centrale, il cuore dell’insegnamento di Gesù ai discepoli in vista della loro missione nel mondo. Tutti i discepoli saranno testimoni di Gesù grazie allo Spirito Santo che riceveranno: saranno costituiti tali per grazia. Ovunque vadano, dovunque siano. L'identità della Chiesa è evangelizzare.

La forma plurale sottolinea il carattere comunitario-ecclesiale della chiamata missionaria dei discepoli. Ogni battezzato è chiamato alla missione nella Chiesa e su mandato della Chiesa: la missione perciò si fa insieme, non individualmente, in comunione con la comunità ecclesiale e non per propria iniziativa. Non a caso il Signore Gesù ha mandato i suoi discepoli in missione a due a due; la testimonianza dei cristiani a Cristo ha un carattere soprattutto comunitario. Da qui l’importanza essenziale della presenza di una comunità, anche piccola, nel portare avanti la missione.

Ai discepoli è chiesto di vivere la loro vita personale in chiave di missione: sono inviati da Gesù al mondo non solo per fare la missione, ma anche e soprattutto per vivere la missione a loro affidata; non solo per dare testimonianza, ma anche e soprattutto per essere testimoni di Cristo. I missionari di Cristo non sono inviati a comunicare sé stessi, a mostrare le loro qualità e capacità persuasive o le loro doti manageriali. Hanno, invece l'altissimo onore di offrire Cristo, in parole e azioni, annunciando a tutti la Buona Notizia della sua salvezza con gioia e franchezza, come i primi apostoli.

Perciò il vero testimone è il “martire”, colui che dà la vita per Cristo, ricambiando il dono che Lui ci ha fatto di Sé stesso. «La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più» (Evangelii gaudium, 264).

Infine, a proposito della testimonianza cristiana, rimane sempre valida l’osservazione di San Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Evangelii nuntiandi, 41). Perciò è fondamentale, per la trasmissione della fede, la testimonianza di vita evangelica dei cristiani.

Nell'evangelizzazione, perciò, l'esempio di vita cristiana e l'annuncio di Cristo vanno insieme. L'uno serve all'altro. Sono i due polmoni con cui deve respirare ogni comunità per essere missionaria. Esorto pertanto tutti a riprendere il coraggio, la franchezza, quella parresia dei primi cristiani, per testimoniare Cristo con parole e opere, in ogni ambiente di vita.

2. «Fino ai confini della terra» 

Esortando i discepoli a essere i suoi testimoni, il Signore risorto annuncia dove essi sono inviati: «A Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Emerge ben chiaro qui il carattere universale della missione dei discepoli. Si mette in risalto il movimento geografico "centrifugo", quasi a cerchi concentrici, da Gerusalemme, considerata dalla tradizione giudaica come centro del mondo, alla Giudea e alla Samaria, e fino "all'estremità della terra". Esso ci dà una bellissima immagine della Chiesa "in uscita" per compiere la sua vocazione di testimoniare Cristo Signore, orientata dalla Provvidenza divina mediante le concrete circostanze della vita. 

L’indicazione “fino ai confini della terra” dovrà interrogare i discepoli di Gesù di ogni tempo e li dovrà spingere sempre ad andare oltre i luoghi consueti per portare la testimonianza di Lui. Malgrado tutte le agevolazioni dovute ai progressi della modernità, esistono ancora oggi zone geografiche in cui non sono ancora arrivati i missionari testimoni di Cristo con la Buona Notizia del suo amore. D’altra parte, non ci sarà nessuna realtà umana estranea all’attenzione dei discepoli di Cristo nella loro missione. La Chiesa di Cristo era, è e sarà sempre “in uscita” verso i nuovi orizzonti geografici, sociali, esistenziali, verso i luoghi e le situazioni umane “di confine”, per rendere testimonianza di Cristo e del suo amore a tutti gli uomini e le donne di ogni popolo, cultura, stato sociale. 

3. «Riceverete la forza dallo Spirito Santo» 

Annunciando ai discepoli la loro missione di essere suoi testimoni, Cristo risorto ha promesso anche la grazia per una così grande responsabilità: «Riceverete la forza dello Spirito Santo e di me sarete testimoni» (At 1,8).

(Il giorno di pentecoste comincia) l'era dell'evangelizzazione del mondo da parte dei discepoli di Gesù, che erano prima deboli, paurosi, chiusi. Lo Spirito Santo li ha fortificati, ha dato loro coraggio e sapienza per testimoniare Cristo davanti a tutti.

Come «nessuno può dire: "Gesù è Signore", se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3), così nessun cristiano potrà dare testimonianza piena e genuina di Cristo Signore senza l'ispirazione e l'aiuto dello Spirito. Perciò ogni discepolo missionario di Cristo è chiamato a riconoscere l'importanza fondamentale dell'agire dello Spirito, a vivere con Lui nel quotidiano e a ricevere costantemente forza e ispirazione da Lui.

Cari fratelli e sorelle, continuo a sognare la Chiesa tutta missionaria e una nuova stagione dell’azione missionaria delle comunità cristiane. E ripeto l’auspicio di Mosè per il popolo di Dio in cammino: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!» (Nm 11,29). Sì, fossimo tutti noi nella Chiesa ciò che già siamo in virtù del battesimo: profeti, testimoni, missionari del Signore! Con la forza dello Spirito Santo e fino agli estremi confini della terra. Maria, Regina delle missioni, prega per noi!

Messaggio completo in ITALIANO e INGLESE

Partecipando al VII Simposio di Teologia india in Panama, dal 3 all'8 ottobre, padre Vilson Jochem ha rilasciato un'intervista esclusiva alla rivista Missões, parlando del lavoro con le popolazioni indigene e delle sfide della missione.

Padre Wilson, raccontaci la tua vocazione

Sono Vilson Jochem, sono nato in una famiglia di agricoltori nel comune di Atalanta, nell'interno dello Stato di Santa Catarina, in Brasile.

Quando parlo della mia vocazione, potrei dire, come San Paolo, che il Signore mi ha chiamato “fin dal grembo di mia madre”. Dico questo perché, dopo aver festeggiato i dieci anni di ordinazione, mia madre ha raccontato che quando era incinta di me, nelle sue preghiere chiedeva che se avesse avuto un figlio maschio sarebbe diventato sacerdote e la stessa richiesta l'ha fatta il giorno del mio battesimo.

Così che quando a scuola mi chiedevano cosa volessi fare da grande, la risposta normale era che sarei stato un sacerdote. In realtà quando avevo 13 o 14 anni ho cominciato a pensare di nuovo a questa possibilità: fu allora che cominciai a dire ai miei genitori che volevo andare in seminario.

E perché con i Missionari della Consolata?

Tutto indicava che sarei andato con i Francescani Minori, che erano quelli che lavoravano nella mia parrocchia. Eppure nel 1986 padre Dante Possamai passò dal collegio dove studiavo, parlando delle Missioni e chiedendo se qualcuno voleva essere missionario.

Ricordo bene quando dissi a mia madre: "per fare il prete non è importante il dove", decisi di scrivere a padre Dante e iniziai questo cammino vocazionale. Dio sa come fare le sue cose.

Raccontaci della tua formazione

Sono entrato nel seminario minore nel 1987. Nel 1990 ho cominciato gli studi di Filosofia; nel 1993 ho fatto l’anno di noviziato a Bucaramanga (Colombia) e il 9 gennaio 1994 ho emesso la prima professione religiosa. Dal 1994 al 1999 ho frequentato i corsi di Teologia a Bogotá, prima la teologia di base e poi anche una specializzazione.

Il giorno della mia ordinazione è stato il 30 ottobre 1999 ad Atalanta, la mia città natale, quindi quest'anno compio 23 anni di sacerdozio.

Il mio primo incarico è stato il Venezuela dove mi trovo attualmente. Nei primi anni ho lavorato nell'animazione missionaria e vocazionale; il lavoro con i giovani è stato un'esperienza bellissima e ho imparato tanto. Ho svolto questo incarico fino al 2005.

Dal 2005 al 2018 ho lavorato con gli indigeni Warao nello Stato di Delta Amacuro. Dal 2018 al 2021 sono stato in amministrazione e dal 2021 sono tornato a lavorare con gli indigeni Warao, dove mi trovo attualmente.

Quali li sfide più importanti, e quali le maggiori soddisfazioni?

Le sfide incontrate in questi anni di vita missionaria sono state molte. Dal punto di vista dell'animazione missionaria e vocazionale posso dire che la principale è stata quella di sapere capire e camminare al ritmo dei giovani, sperimentando la loro stessa realtà per poterli accompagnare nei loro desideri e preoccupazioni. 

Se siamo disposti a stare loro vicini possiamo anche provocare il loro impegno. Un elemento davvero gratificante è stata la "Caminada Juvenil Misionera", un'attività che abbiamo iniziato nel mese di ottobre 2003 per celebrare il mese missionario in modo diverso, camminando e riflettendo sulla realtà missionaria della Chiesa.

Il lavoro con le popolazioni indigene Warao è stato fonte di molte più sfide. Entrare in un'altra cultura significava imparare a vivere la vita e anche la fede in modo diverso e con ritmi diversi. Quelle che erano le mie priorità non sempre erano le loro; si trattava di un altro modo di vivere e di fare le cose.

Poi bisognava imparare a muoversi sui fiumi e in qualche occasione, come Pietro, mi son trovato a dire: "Aiuto, Signore, stiamo per affondare". Con il passare del tempo è stata un'esperienza di grande ricchezza e mi ha reso una persona migliore.

Ricordo alcune frasi: "Padre devi imparare ad amare questo popolo, con i suoi difetti, per scoprire le sue tante virtù". 

Da gioia scoprire l'affetto che le comunità hanno per noi, vedere la disponibilità e l'entusiasmo che provano per le nostre visite periodiche. Dicevano: "Abbiate pazienza, aspettate almeno dieci anni e comincerete a capire; siete i nostri sacerdoti, faremo un cammino insieme, uniti alla comunità".

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Il lavoro pastorale con le popolazioni indigene è una delle priorità dei Missionari della Consolata in America. Che bilancio fai di questo lavoro?

Il primo elemento è la presenza, il sapere stare in mezzo ai popoli nativi. Questa presenza richiede anche permanenza, non basta andare per qualche anno.

Seguendo la metodologia dei nostri stessi primi missionari, così come la ricordiamo anche nella Conferenze di Muranga, si tratta di conoscere la cultura, la lingua e la cosmovisione di ogni popolo. È necessario entrare nel loro mondo, perché siamo noi che andiamo da loro per imparare a stare con loro, valorizzando la ricchezza del loro vivere comunitario: solo in quel contesto potremo proporre in modo opportuno il vangelo di Gesù.

Cerchiamo sempre di incoraggiare i popoli indigeni a essere sempre più protagonisti della loro storia, e anche a scoprire la presenza di Dio nel loro passato e nel loro presente.

Un altro elemento indispensabile è quello di valorizzare all'interno della Chiesa e della società la saggezza e il contributo dei popoli originari per un mondo più umano, capace di rispettare il rapporto con gli altri e con la natura. Creare quell’armonia con l'ambiente che permette la continuità della vita.

Una grande richiesta che riceviamo dai popoli indigeni è che nelle case di formazione si lavori e si studi anche la teologia india, in modo che non sia conosciuta solo da alcuni addetti ai lavori ma da tutti coloro che un giorno potranno lavorare con loro. 

Evidentemente dovrà arrivare il giorno in cui loro stessi sapranno elaborare la loro propria teologia, con metodologia e contenuti propri, non necessariamente ereditati dalla razionalità occidentale. Non è un percorso semplice né corto, il Consiglio Episcopale Latinoamericano sta cercando di favorirlo.

Le sfide di essere missionario oggi

Essere missionari oggi comporta come prima sfida quella di aprire la mente e il cuore alla cultura in cui siamo inseriti. È un processo piuttosto arduo, perché richiede di aprire la mente al nuovo e mettere in secondo piano la propria cultura, il proprio modo di pensare, per essere disposti a iniziare un nuovo processo di apprendimento. La Chiesa oggi ci chiede di saper camminare con le comunità e i popoli, non come padroni ma come compagni, come fratelli e sorelle. "Mi sono fatto Giudeo con i Giudei... Greco con i Greci, schiavo con gli schiavi... Mi sono fatto tutto come tutti gli altri per conquistare alcuni a Cristo". (1 Cor 9,20-23)

*Maria Emerenciana Raia è redattrice della rivista Missões da dove è tratta questa intervista

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