Evangelizzare i giovani: missione impossibile?

Published in Missione Oggi

«La buona notizia è questa: ogni generazione
viene al mondo con i fondamentali che deve avere;
sono idealisti come noi, goffi come noi,
teneri come noi, stupidi come noi che volevamo
cambiare il mondo in ogni momento.

La cattiva notizia è questa: trovano noi.
E noi siamo un po’ cambiati»
(Pierangelo Sequeri).

 

         Nel prendere la parola, porgo a ciascuno di Voi un cordialissimo saluto; e sono molto grato per questo invito ad offrire una riflessione sull'evangelizzazione dei giovani, che dovrebbe diventare sempre di più il grande tema pastorale della Chiesa. Quando alcuni anni fa ho coniato l'espressione "prima generazione incredula", l'intento era quello di richiamare l'attenzione ecclesiale esattamente su tale questione. Con quell'espressione intendevo e intendo definire sommariamente il difficile rapporto dei giovani e delle giovani, nati dopo il 1981, con la fede cattolica. Costoro non si pongono contro Dio o contro la Chiesa, ma stanno iniziando a vivere - e a vivere pure una certa ricerca di spiritualità - senza Dio e senza la Chiesa. Incredulità significa la loro fatica a comprendere la rilevanza della fede nel personale percorso di accesso all'età adulta; significa difficoltà a rispondere a questa domanda: a che cosa mi serve la fede quando sarò adulto? Intorno a tale domanda si concentra a mio avviso la sfida seria posta dell'annuncio del Vangelo oggi.

         Una sfida seria, in quanto alla domanda sul legame tra fede ed essere adulti, infatti, si può imparare a rispondere solo nel gioco relazionale delle generazioni; ad esso - a questo snodo della intergenerazionalità (che con una parola più ecclesiale possiamo chiamare lo snodo della testimonianza) - dobbiamo restituire l'importanza essenziale in ogni atto educativo, anche per quello relativo alla fede.

         Ero convintissimo di ciò allora e lo sono ancora di più oggi, confermato da quanto si può leggere nella prima enciclica di Papa Francesco, la Lumen Fidei; al numero 38 vi si legge: «La trasmissione della fede, che brilla per tutti gli uomini di tutti i luoghi, passa anche at­traverso l’asse del tempo, di generazione in gene­razione. Poiché la fede nasce da un incontro che accade nella storia e illumina il nostro cammino nel tempo, essa si deve trasmettere lungo i secoli». In altre parole, non si diventa credenti da soli, isolatamente, ma all'interno di relazioni significative.

         La fede si deve trasmettere, allora; cioè: la generazione adulta deve trasmettere la fede alla generazione che viene; deve cioè creare quelle condizioni perché si possa apprezzare la luce che la fede dona all'esperienza umana. Questa è la strada maestra dell'evangelizzazione dei giovani. Ora "trasmettere la fede" è null'altro che l'impegno degli adulti a creare le condizioni testimoniali, familiari, sociali, culturali ed ecclesiali che permettano ai ragazzi e ai giovani di cogliere e vivere quella verità circa il cristianesimo che papa Benedetto XVI ha espresso in modo mirabile nella sua prima enciclica Deus caritas est (passaggio ora citato anche dall'Evangelii gaudium): «All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».

         Con il mio piccolo saggio provavo a dire che questa cosa non funziona più. Allora ho asserito la cosa molto cautamente. Oggi mi sento molto più confortato da quel bagno di realtà cui ci invita ancora Papa Francesco che, in Evangelii gaudium, scrive che «negli ultimi decenni, si è prodotta una rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana nel popolo cattolico» (n. 70). Senza dimenticare il suo primo memorabile discorso alla Diocesi di Roma circa l'aggiornamento necessario alla parabola del pastore che si mette in cerca della pecorella smarrita, lasciandone sole ben 99. Allora disse che oggi bisogna spesso lasciarne una nell'ovile e andare a cercare le altre 99!

 

         La mia ipotesi di lavoro intorno all'evangelizzazione dei giovani sempre più difficile oggi è la seguente: per comunicare la fede serve una testimonianza adulta della fede; poiché, tuttavia, l'adulto oggi ci manca, dobbiamo inventarci "gli adulti".

         Spero di aver stuzzicato la Vostra curiosità. Ed ecco l'itinerarium mentis della mia odierna comunicazione:

 

  • per prima cosa focalizzerò l'attenzione su quanto emerge dalle recenti indagini che ci restituiscono la fatica dei giovani di oggi con la fede;
  • in secondo luogo cercherò di dare una lettura complessiva di questi dati nella direzione già annunciata della sfida della trasmissione della fede;
  • in terzo luogo proverò a cogliere le ragioni di questo rapporto difficile nella prospettiva già segnalata dell'adulto che ci manca;
  • in quarto luogo indicherò alcuni orientamenti generale per la nostra azione ecclesiale in ordine alla comunicazione della fede di "generazione in generazione".

 

  1. I dati delle indagini più recenti sul rapporto giovani e fede

         Iniziamo dall'ascolto dei dati delle più recenti indagini sul rapporto tra giovani[1] e fede cristiana[2]. Sono ovviamente cose di cui tutti abbiamo consapevolezza. Il mio è il semplice sforzo di dare un contorno a tale consapevolezza. Le indagini dalle quali assumo i dati sono le seguenti:

 

  • Indagine Iard per il Centro di orientamento pastorale svolta nel 2004 e pubblicata nel 2006 con il titolo Giovani, religione e vita quotidiana (il Mulino);
  • indagine della rivista Regno, svolta nel giugno del 2009 e coordinata dal prof. Paolo Segatti dell'Università degli studi di Milano (cfr. il sito www.regno.it);
  • indagine della Diocesi di Novara, nell'ambito del progetto "Passio", svolta nel mese di marzo del 2010 e affidata all'Istituto Iard di Milano (cfr. google.it);
  • indagine qualitativa (cioè con l'utilizzo di interviste aperte) su un campione di 72 giovani della Diocesi di Vicenza, realizzata dall'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto e confluita nel volume C'è campo? del 2010 (nel 2013 ne è stata pubblicata una sintesi presso la casa editrice Àncora: Fuori dal recinto);
  • altra indagine dello stesso ente di ricerca sull'intera regione ecclesiastica del Triveneto (dati del 2011, cfr il sito www.regno.it);
  • l'indagine di Franco Garelli intitolata Religione all'italiana (il Mulino);
  • indagine sulla condizione giovanile in Italia, svolta dall'Istituto Toniolo dell'Università Cattolica di Milano (il Mulino, I edizione 2013 e II edizione 2014),
  • indagine Eurisko / Chiesa Valdese: Gli italiani, la religione, la Bibbia (cfr A. Melloni, ed., Rapporto sull'analfabetismo religioso in Italia, EDB, 2014).
  • indagine proposta nel volume di M. Brambilla, Tu credi? (Vita e Pensiero, 2014).

 

Quali sono i dati più evidenti di queste indagini?

 

1) il primo è il cosiddetto "salto generazionale": il fatto cioè che coloro che sono nati dopo il 1981 rappresentano la fascia di popolazione più "lontana" dall'universo ecclesiale (Segatti usa il temine "più estranea", l'ultimo Report della cattolica parla di "generazione post-cristiana"), in termini di dichiarazione di cattolicità, di affermazione del credere, di assiduità alla preghiera personale e alla frequenza ai riti religiosi. La cosa che colpisce è proprio lo stacco che cresce negli ultimi cinque-sei anni in modo progressivo: si passa da una differenza con le generazioni precedenti di 15-20 punti sino ad arrivare anche a 50 punti. Quindi siamo davanti a qualcosa di più di un semplice effetto di avanzamento della secolarizzazione. La differenza Nord-Sud riguarda solo la dichiarazione di cattolicità, con una maggiore punta al Sud.

 

2) Il secondo elemento è che nelle nuove generazioni non c'è più una sostanziale differenza di genere. I mutamenti più evidenti sono esattamente sulla linea femminile. E questo è un grande inedito per il nostro cattolicesimo. Questo ci conferma nel pensare che siamo dinanzi a un trend generazionale. Non c'è solo un effetto del ciclo di vita, ma la manifestazione di un cambiamento più profondo. Si aprono nuovi scenari (papa Francesco, questione donna, Report 2015 Cattolica).

 

3) Provando ad andare più in profondità, troviamo che nei nostri ragazzi e nei nostri giovani la religione rimane quasi sempre e quasi solo come una sorta di "rumore di fondo", pur avendo per lunghi anni frequentano la parrocchia e l'insegnamento di religione a scuola. Insomma dopo 1000 minuti di prediche, 5000 minuti di catechismo e 500 ore di religione a scuola, nella maggior parte di loro la religione non incide quasi per nulla sul processo di creazione della propria identità. Dichiarano francamente che faticano a capire a che cosa serva la fede nel cammino verso l'età adulta, verso la maturità.

4) In molti resta una sete di spiritualità, ma molto spesso ha un carattere anarchico e molto centrato su di sé. Va nella direzione di una sorta di benessere e sostegno psicologico che non in quella dell'apertura all'alterità (cfr problema xenofobia).

 

5) Emerge con particolare forza la centralità della testimonianza e dell'interesse religioso da parte degli adulti significativi e da parte dei pari, nel caso di gruppi giovanili religiosi, nel cammino verso l'interiorizzazione di un'identità religiosa integrata.

 

6) Ovviamente sono confermate alcune cose ampiamente conosciute:

- un deciso analfabetismo biblico;

- una forma di semicredenza verso molti contenuti del dogma cristiano e anche verso la stessa persona di Gesù Cristo;

- l'allergia verso una morale che si basi esclusivamente sul precetto e sull'interdizione;

- lo scandalo verso forme di ricchezza e di potere che ostentano o che ricercano alcuni rappresentanti della Chiesa;

- il ricordo spesso negativo circa la qualità media della vita delle parrocchie (luoghi di invidie e di risentimenti, e soprattutto di ipocrisia) e della vita liturgica (in particolare l'omelia).

 

7) Un ultimo dato ci interroga non poco ed è il fatto che i giovani non riescano a cogliere la differenza qualitativa del Vangelo rispetto ad altri testi del passato.

 

  1. Lettura complessiva

         I dati sopra riportati ci dicono che siamo sostanzialmente di fronte a una radicalizzazione delle difficoltà del rapporto tra la religione cattolica e il mondo giovanile. A differenza del passato, in particolare, non incide più per esempio la questione sessuale o la volontà di differenziazione dall'universo mentale, politico, religioso dei genitori.

         Siamo piuttosto dinanzi a una generazione – quella nata dopo il 1981 – che non si pone contro Dio e contro la Chiesa, ma che sta imparando a vivere – e a vivere pure la propria ricerca spirituale – senza Dio e senza la Chiesa. Nulla ci autorizza a pensare un passaggio da "non cattolico" ad "ateo" o ad "agnostico". Il trend generale è piuttosto quello dell'estraneità (cfr. il film Corpo celeste), carattere che non indica un essere contro, ma un essere senza. O ancora un essere post-cristiani, come si esprime cautamente il Report 2015 della Cattolica sulla condizione giovanile in Italia. (Comprendo che le mie affermazioni suonino abbastanza radicali, ma questo serve anche al dibattito tra noi).

         A mio avviso ora solo una prospettiva intergenerazionale può dare ragione e conto di questa situazione: è possibile cogliere fino in fondo le ragioni dell'inedito credere/non credere dei giovani italiani, unicamente prendendo in considerazione le generazioni che hanno preceduto questa che io ho chiamato prima generazione incredula. Chiamando cioè in causa la questione della testimonianza.

         Per essere piuttosto diretti, la crisi di fede cattolica che qui si annuncia non è da addebitare alla generazione nata dopo il 1981, ma alla generazione degli adulti. L'evangelizzazione dei giovani ci apparirà una sorta di missione impossibile sino a quando non avremo la forza e l'onestà di inserirla in un contesto più ampio di mutazione dell'umano nei confronti della fede.

         Si tratta in verità di riconoscere che i dinamismi fondamentali della cinghia di trasmissione della fede, tra le generazioni, si sono inceppati. Ed è questa una verità che la comunità dei credenti fa fatica a cogliere, a causa – scusate l'espressione un po' forte – dell'eccessiva enfasi data da noi tutti al catechismo parrocchiale.

         In verità, il luogo ove ogni bambino può efficacemente imparare la presenza benevola di Dio, e cioè il fatto che Dio abbia qualcosa a che fare con la felicità, con la custodia e la promozione dell’umano, non sono prima di tutto la Chiesa o la lezione del catechismo, quanto piuttosto gli occhi e l'interesse religioso della madre e del padre, e a seguire gli occhi e l'interesse di tutti gli adulti significativi con cui viene a contatto, crescendo.

         Se è dagli adulti che le nuove generazioni ricevono l'orientamento fondamentale dell'esistenza verso Dio, potremmo anche dire il primo annuncio, dobbiamo riconoscere che da quarant’anni a questa parte gli adulti non onorano più questo compito.

         I giovani di cui i sociologi evidenziano l'estraneità alla fede sono in verità figli di genitori, di adulti, che non hanno dato più spazio alla cura della propria fede cristiana: hanno continuato a chiedere i sacramenti della fede, ma senza fede nei sacramenti, hanno portato i figli in Chiesa, ma non hanno portato la Chiesa ai loro figli, hanno favorito l’ora di religione ma hanno ridotto la religione a una semplice questione di un’ora. Hanno chiesto ai loro piccoli di pregare e di andare a Messa, ma di loro neppure l’ombra, in Chiesa. E soprattutto i piccoli non hanno colto i loro genitori e gli adulti significativi con cui sono entrati in contatto nel gesto della preghiera o nella lettura del vangelo.

         A conferma di ciò, cito Alessandro Castegnaro, il quale ha registrato il fatto che dalle interviste da lui effettuate con i giovani non emerge alcuna traccia di una preghiera fatta in famiglia[3]. Inoltre basterebbe prestare attenzione ai tanti adulti presenti nella tv: non pregano mai, non hanno alcuna devozione, non esercitano alcuna pratica di pietà.

         C'è poi pure da tenere conto del significativo ampliamento della platea di adulti di riferimento per i nostri ragazzi e i nostri giovani, sin dalla tenera età. Questo è un fatto importante e decisivo per la decifrazione dell'umano da parte dei piccoli (si pensi a quanti docenti, pediatri, dentisti, istruttori incontrano).

         Si tratta, allora, di prendere atto che gli adulti attuali, la maggior parte di loro, hanno imposto una divergenza netta tra le istruzioni per vivere e quelle per credere, una divergenza che, pur non negando direttamente Dio, ha avallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e all’oratorio e pure la scuola di religione fosse un semplice passo obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della società. In una parola, la teoria del catechismo non trova riscontro nella pratica della famiglia e in generale degli adulti significativi, e la fede diventa una cosa da bambini e finché si è bambini.

         Si è dunque molto ridotto il catecumenato familiare e sociale, cioè quella silenziosa ma efficace opera di testimonianza del mondo adulto, che la nostra azione pastorale normalmente presuppone, quale prima iniziazione alla fede. Più sinceramente, è l'ora di dirci tutta la verità: il Dio degli adulti è un Dio estraneo ai giovani. Più precisamente perché il Dio degli adulti è un Dio estraneo alla religione cattolica.

         Qui si apre un capitolo molto delicato che riguarda le ragioni profonde dell'interruzione della cinghia di trasmissione/comunicazione della fede nel nostro Paese e che rende ragione del titolo del nostro incontro circa l'impossibilità quasi di annunciare il Vangelo ai giovani. Perché il Dio degli adulti è diventato un Dio estraneo ai giovani e alla religione cattolica?

 

  1. L'adulto che ci manca

         Se proviamo ad interrogarci sull'identità della generazione adulta, in particolare quella nata tra il 1946 e il 1964, la prima e principale caratteristica di essa è data dal fatto che, in prospettiva intergenerazionale, è una generazione che ama più la giovinezza che i giovani. Con le parole lucide di Francesco Stoppa si deve dire che «La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane»[4].

         La generazione nata tra il 1946 e il 1964 ha compiuto, nei fatti, una vera e propria rivoluzione copernicana tra le età della vita nell’immaginario collettivo. Ed ha riscritto il significante "diventare adulti" in quello di " restare giovane", liquidando la realtà stessa dell'adultità[5].

         Per questo oggi al centro dell’immaginario collettivo vige il desiderio di restare giovane. E non si intende qui la giovinezza dello spirito. No: si intende proprio la giovinezza nella fisicità delle sue caratteristiche, oltre i limiti dei suoi originari e inconfondibili tratti (età, capacità riproduttiva, genuinità dello sguardo sul reale). Solo se riesci a mostrare la giovinezza nel modo di vestire, nella traccia del tuo corpo, nel modo di considerare l’esistenza come possibilità sempre aperta, solo allora hai diritto alla felicità. La giovinezza è grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l'affermazione della propria sensualità, del proprio successo, del proprio fascino.

         Quella degli adulti è perciò una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo e sta procedendo ad un inquinamento senza precedenti del nostro immaginario umano di base. Si pensi alla lingua che parliamo. La cosa che stupisce molto al nostro tempo è l’ampiezza con cui si utilizza l'aggettivo "giovane". Di persona deceduta con i 70 anni, è facile sentir affermare che "è morta giovane"; a un quarantenne-cinquantenne che aspira a qualche ruolo dirigenziale, nella società o nella Chiesa, è addirittura più comune che gli venga detto di pazientare: "sei ancora molto giovane"; viceversa se si parla di qualche fatto di cronaca che investe ragazzi di scuola media inferiore, i giornali non ci pensano due volte a rubricarlo sotto "disagio giovanile" o "bullismo giovanile"; pure nella comunità ecclesiale con l’espressione "incontro dei giovani" spesso capita di intendere una riunione di preadolescenti e di adolescenti, senza dimenticare infine le più recenti categorie di "giovanissimi", di "giovani adulti" e da ultimo di "adultissimi".

         Tirato troppo verso l’alto o troppo verso il basso, il termine giovane sembra non essere più in grado di indicare quel gruppo specifico di cittadini che hanno un’età compresa tra i 15 e i 34 anni[6]. Più precisamente dalle nostre parti, giovane è diventato un aggettivo ecumenico: non conosce frontiere né alcuna sorta di limite.

         E questo perché per coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964 la giovinezza non può finire. Non deve finire. E da quest'amore per la giovinezza poi discende una lotta senza quartiere contro la vecchiaia e tutte le sue manifestazioni.

         Pensate alle tinte per i capelli, agli interventi estetici, alle creme e alle pillole blu, agli stili di vita “adulterati” degli adulti, alle manie dietetiche, ai lavori forzati in palestra, con lo jogging e il calcetto ecc... La pubblicità, inoltre, che ha studiato bene questo tratto degli adulti (che sono coloro che hanno concretamente poi i soldi), non usa altro linguaggio che quello della giovinezza e contribuisce all'inquinamento del nostro spirito. Per questo il mercato non offre (agli adulti in particolare) solo prodotti, ma alleati per lotta contro il tempo che passa, alleati per la giovinezza: lo yogurt che ti fa andare al bagno con regolarità, l’acqua che elimina l’acqua, le creme portentose che contrastano il cedimento cutaneo, nutrono i tessuti, proteggono dagli agenti patogeni, rimpolpano, ristrutturano, ecc...

         E come non restare basiti rispetto all'idea principale della pubblicità per la quale il nemico numero uno sia la vecchiaia? Nulla si vende che prima non abbia, almeno come promessa, affermato di essere contro l'invecchiamento, anti-age. E la cosa funziona. Nonostante la crisi economica, il settore della cosmesi in Italia non conosce parole come stagnazione o recessione: il suo fatturato complessivo è di 9 miliardi l'anno.

         E cosa dire ancora della percezione diffusa delle età della vita? Quando inizia infatti da noi la vecchiaia? Lapidario è al riguardo Ilvo Diamanti: «[…] Colpisce che il 35 per cento degli italiani con più di quindici anni (indagine Demos) si definisca “adolescenti” (5 per cento) oppure “giovani” (30 per cento). Anche se coloro che hanno meno di trent’anni non superano il 20 per cento. Peraltro, solo il 15 per cento si riconosce “anziano”. Anche se il 23 per cento della popolazione ha più di sessantacinque anni. D’altronde, da noi, quasi nessuno “ammette” la vecchiaia. Che, secondo il giudizio degli italiani (come mostra la stessa indagine condotta pochi anni fa: settembre 2003), comincerebbe solo dopo gli ottant’anni. In altri termini, vista l’aspettativa di vita, in Italia si “diventa” vecchi solo dopo la morte»[7]. E una tale vecchiaia che diventa nemico "numero uno" cambia il sentimento di vita.

         Nessuno insomma ammette la vecchiaia: è parola che non trovi neppure su wikipedia! Oggi vecchio è sinonimo di rimbambito, rincitrullito, babbeo. C'è forse oggi un complimento più bello per un adulto del "ma come sembri giovane!" e viceversa c'è forse oggi un'offesa della quale è possibile pensarne una maggiore del "ma come ti sei invecchiato!"? Se uno vuole rompere definitivamente le relazioni con qualcuno, basta, la prima volta che lo vede, fargli presente di quanto sia invecchiato, per constatare quella persona letteralmente sparire dal proprio orizzonte di vita.

         Ma se la vecchiaia a causa del mito della giovinezza finisce nel cono dell’irrealtà, nel cono della maledizione, nel cono di ciò che le persone per bene e politicamente corrette evitano di nominare, essa trascina con sé anche l’età adulta, che di fatti oggi nessuno onora più. Maledire la vecchiaia significa disconoscere la verità della finitezza dell'essere umano e la logica che ne preside allo sviluppo e cioè che «la rinuncia è la condizione della crescita»[8].

         La stessa malattia non è più interpretata come un messaggio - come sintomo - che ci giunge dal nostro corpo nella sua globalità (del tipo: non esagerare, mangia di meno, riposati ecc.), ma come un temporaneo e specifico blocco o disturbo da eliminare prima possibile, per riprendere la nostra pazza corsa, senza spesso sapere neppure dove andiamo.

         E cosa dire della morte? Oggi nessuno muore: basta guardare ai manifesti funebri. La gente scompare, viene a mancare, si spegne, compie un transito, si ricongiunge, ma nessuno muore! E la medicina ormai tratta la morte alla stregua di una malattia. Non a caso si parla della nostra come di società postmortale[9].

         Ma che umano è uno che non sa dare del tu alla morte? La grande sapienza filosofica di ogni tempo e cultura ci ha insegnato che uno diventa adulto solo quando è capace di questo "tu": il tu alla morte.

         La giovinezza è pertanto la grande macchina di felicità degli adulti odierni, l’unica fonte di umanizzazione. È il bene. Per questo i maestri di oggi sono i figli, i giovani, ed è saltato in aria ogni possibile dialogo educativo.

         Il punto è che tutto questo non è solo questione di estetica, né solo di etica. È questione teologica. Dio compare ogni volta che l'uomo cerca la propria felicità, il proprio ben-essere al mondo. Il segreto non detto della generazione adulta è il seguente: noi crediamo solo alla giovinezza quale luogo della destinazione felice dell'umano. Proprio una tale virata degli adulti verso il culto della giovinezza rende pertanto la loro testimonianza del vangelo della vita buona, quando c'è, una testimonianza scialba, esangue, inefficace.

         Qui si interrompe la sinergia tra Chiesa e adulti, tra Chiesa e mondo della famiglia, tra Chiesa e sentimento diffuso dell'umano, ed è per questo che la proposta della fede cattolica va ad impattare, nell'universo giovanile, su un sequestro della questione della felicità e del compimento dell'umano da parte dell'idolo della giovinezza, che come abbiamo visto censura l'esperienza del limite, il lavoro della crescita e l'insuperabilità della fragilità e della malattia, e che conduce sino all'esorcizzazione linguistica della vecchiaia e della morte. Si tratta cioè di tutti quegli snodi vitali, su cui si costruisce il possibile incontro tra le generazioni e la trasmissione di un sapere dell'umano, toccato e fecondato dalla parola del Vangelo.

         L'adulto in presa diretta crede solo alla giovinezza e solo questo può comunicazione.

        

  1. Il compito davanti a noi

         Dinanzi a questo paesaggio, che cosa si tratta di fare? Da parte mia suggerisco cinque livelli di lavoro che dovremmo intercettare nel nostro impegno missionario:

- a livello di immaginari diffusi: rievangelizzare l'adultità

- a livello di (primo) annuncio: rincentrare l'amore di Dio

- a livello liturgico: nuova iniziazione all'esperienza della preghiera

- a livello pastorale: più pratica della fede ai bimbi e più catechesi ai genitori

- a livello di testimonianza: la festa è il nostro "marchio"

 

1) Sollecitare la presa in carico del problema con quanto detto finora. Dobbiamo rievangelizzare l'adultità, oltre che gli adulti. Ciò concretamente comporta di restituire dignità e tensione morale alla dimensione adulta dell'esistenza e di creare le condizioni per sottrarre gli adulti attuali all'incantamento e incatenamento in cui sono oggi finiti. Ci serve perciò un discorso e un tono nuovi per parlare dell'ambizione del diventare adulti. Non possiamo apprezzare solo la giovinezza e solo ciò che farmaceuticamente e chirurgicamente vi rassomiglia. Dobbiamo riaffermare e riargomentare che crescere non è il peggiore dei mali possibili, non è la più grande delle maledizioni che possa toccare ad un uomo. Che c'è vita oltre la giovinezza. Si richiede pertanto un'opera di grande ripulitura della figura dell'adulto, recuperandone i tratti essenziali, inscritti nel suo essere responsabile del mondo nei confronti dei figli e dei figli nei confronti del mondo; nel suo stare fedele alla priorità ontologica del volere il bene dei figli sul volere bene ai figli; nella sua importantissima testimonianza a favore della generazione che viene circa il fatto che, anche nella sua strutturale dimensione di mancanza, la vita è degna del desiderio umano.

         A questi adulti odierni che cercano sempre altra giovinezza, altra vita, dobbiamo portare il lieto annuncio che in verità l'uomo è fatto anche per una giovinezza altra, per una vita altra. È l'ascolto di questo annuncio, per l'adulto, la premessa e la promessa indispensabile per poter benedire la contingenza dell'esistenza umana e poter recuperare che in questo consista il suo compimento: nel godere che altri possano andare oltre lui, possano vedere e conoscere più di lui. Essere più di lui. In una parola, nel donarla, la vita. Da qui le ulteriori indicazioni di lavoro.

 

2) Per liberare dall’incantamento della giovinezza significa sostanzialmente permettere agli adulti di scoprire che ciò che ogni idolo promette e non dona è quell’amore di cui abbiamo bisogno per poter amare noi stessi, quella benedizione di cui abbiamo bisogno per poter benedire noi stessi, quell’ospitalità affettuosa e misericordiosa di cui necessitiamo per poter ospitare con affetto e misericordia noi stessi. Nessun idolo è capace di ciò. Dirò di più: nessun essere umano è capace di ciò. Né mio padre né mia madre né mio fratello né mia sorella né mia moglie né mio marito né mio figlio né mia figlia né il mio amante né la mia amante né il mio compagno né la mia compagna. Nessuno, proprio nessuno. La parola del Vangelo è al riguardo di una precisione chirurgica: Ama Dio è la prima parte dell’ordine (giusto) dell’amore (Lc 10,27). È una priorità ontologica. Tutti vogliamo amore. Ma il punto di partenza, per il Vangelo, resta quell’Ama Dio. Riconosci cioè innanzitutto e soprattutto Dio quale presenza benedetta e benedicente sulla tua vita. Corrispondi al Suo amore. Da qui devi partire. Per non perderti nell’avventura della vita, devi partire dal cielo. È questo amore precedente di Dio, che siamo chiamati a riconoscere, ad autorizzarci ad amare, accogliere, ospitare la nostra esistenza. Allora puoi amarti perché sei amato, allora potrai amare gli altri come te stesso e te stesso nella verità di quel mistero che ciascuno di noi è, senza aver più bisogno di botulino, viagra, yogurt regolarizzanti, bevande energizzanti, cocaina, e tutto l’armamentario della nostra lotta continua contro la vecchiaia, la malattia e la morte.

         Un nuovo più chiaro annuncio di questo amore di Dio, di questo amore verso Dio attende i credenti di oggi. Di conseguenza urge pure maggiore impegno per diffondere quella parola che da parte a parte di quell’amore è eco, testimonianza, appello: la Parola appunto.

 

3) Sempre su questo versante propositivo, si dovrà ancora molto lavorare per avviare una nuova iniziazione alla preghiera degli uomini e delle donne del tempo presente. Il luogo e il tempo in cui prende forma concreta il dialogo amoroso tra l’uomo e Dio è lo spazio e il tempo della preghiera. Oggi però non solo la gente non conosce più le preghiere, più radicalmente ha perso il senso stesso della preghiera, del pregare. In verità, noi preghiamo in quanto riconosciamo il nostro essere “precario” e lo accettiamo senza risentimenti e frustrazioni. Si può essere, infatti, (un) precario solo in forza di una preghiera ascoltata, nella misura di un permesso concesso: la preghiera accolta è la condizione di possibilità di ogni precarietà. E la vita umana è fortemente segnata dalla precarietà, dalla finitezza, dalla mancanza, dal limite, che sono pure risvolti della nostra singolarità e irripetibilità. Proprio per vivere con verità questa situazione ci serve pregare. La preghiera è il luogo con cui venire a patti con quella mancanza fondamentale che segna il mistero dell’uomo sulla terra e nella storia. Ponendoci dinanzi all’istanza di Dio, la preghiera ci dona la grazia di poterci riconciliare con noi stessi, di sfondare la cappa soffocante delle nostre preoccupazioni e idiosincrasie, di rimettere la nostra causa e la nostra fatica, il nostro patire e il nostro lottare alla speranza di un futuro e di una promessa possibili, di poter finalmente immaginare la nostra mancanza.

         Iniziare o meglio re-iniziare alla preghiera, alla preghiera personale, alla preghiera quotidiana, alla preghiera degli adulti soprattutto, è la grande via perché la fede possa di generazione di generazione riprendere il suo cammino.

 

4) A livello di catechesi mi permetto una piccola sottolineatura che forse potrà urtare: non dobbiamo forse riconosce che con la nostra catechesi strutturata abbiamo in quale misura "rubato" ai genitori il ruolo di iniziatori alla fede dei loro figli? Noi facciamo semplicemente paura ai genitori con le nostre armante di catechisti, catechismi e formazione continua... Per trovare qualche equilibrio, direi che ai bimbi, ai ragazzi e ai giovani il cristianesimo non va dimostrato, ma mostrato, sul vivo nelle forme della prossimità. Tutto il tempo che ci resta dedichiamolo ai genitori. Come?

  • sostenere il loro cammino verso la maturazione adulta, organizzando un corso sul "mestiere dell'adulto";
  • porre l'accento sulla fede come esperienza di preghiera (personale, familiare e ecclesiale), offrendo corsi di introduzione alla preghiera;
  • accostarli alla Scrittura come grande mappa dell'umano che è comune a tutti e a tutti i tempi, partendo per esempio dalla forza umanizzante dei Dieci Comandamenti (cf Benigni) e dalla "pedagogia" delle relazioni di Gesù (già significativa quello con la Madre), costruendo percorsi di lectio divina mirati;

 

5) Resta, infine, un ultimo profilo che deciderà la buona volontà della comunità ecclesiale di giocare la sua parte in questo delicato passaggio d’epoca. Riguarda la verità e la forza con cui saprà interrogarsi e riformarsi al suo interno. Proprio i giovani ci dicono che i nostri ambienti non sono per nulla "giovanili". Lo dico con una battuta di cui mi scuso in anticipo: a volte quando giro per le parrocchie non possono non farmi una domanda secca: ma la gente va in Chiesa perché si è depressa oppure è depressa perché va in Chiesa?

         Qui c'è un bel nodo teologico, pastorale, spirituale, mistagogico da sciogliere. Per sciogliere il quale, si tratta, come scrissero dieci anni fa i vescovi italiani, di «offrire occasioni di esperienza comunitaria e di espressione di festa, per liberare l'uomo da una duplice schiavitù: l'assolutizzazione del lavoro e del profitto e la riduzione della festa a puro divertimento. La parrocchia, che condivide la vita quotidiana della gente, deve immettervi il senso vero della festa che apre alla trascendenza» (Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia, 8). La vita della Chiesa deve recuperare e rilasciare a vantaggio di tutti questo "vero senso della festa", che non può non ricordare l'insistito appello di Benedetto XVI alla gioia e di Francesco all'alegría del Evangelio. Il pensatore canadese Charles Taylor, nella sua monumentale opera L'età secolare, ha con forti accenti rimproverato alla comunità cristiana di aver marginalizzato il carattere “festivo” della dimensione religiosa propria di ogni essere umano: cioè il carattere di gioia, di letterale ri-creazione, di ospitalità, di comunione e comunicazione, di elaborazione del negativo, di liberazione, di interruzione, che è efficace preludio ad una nuova e più convinta irruzione, immissione nella quotidianità. Nella festa c'è il vero antidoto contro ogni disperazione, contro ogni incantamento, contro ogni tentazione di immaturità e giovanilismo. Nella festa ci è data la forza di reggere - a testa alta, con speranza - alla vita che cambia e che ci cambia. E di poter pensare con gioia al futuro.

Buona Missione!

 

[1] 15-34 anni; molte indagini hanno come riferimento l'età compresa tra 18 e 29.

[2] È opportuno ricordare che tutte queste indagini sono state realizzate prima della rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI e dell'elezione di Papa Francesco. Il duplice evento, come è sotto gli occhi di tutti, sta ridefinendo la posizione di molti nei confronti della religione cattolica.

[3] Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, C'è campo?, 87.

[4] F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011, 9-10.

[5] Cfr M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010, 42-43.

[6] Sul tema si veda Livi Bacci, Avanti giovani, alla riscossa, 13-18.

[7] I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, Milano 2009, 64.

[8] G. Cucci, La crisi dell'adulto. La sindrome di Peter Pan, Cittadella, Assisi 2012, 67, che cita pure M. Scheler, Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano 1975, 53.

[9] Cfr. C. Lafontaine, Il sogno dell'eternità. La società postmortale, Medusa, Milano 2009.

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