Cristo Missionario

Published in Missione Oggi

Il concilio Vaticano II presenta la missione in termini ecclesiologici. In Lumen Gentium presenta la Chiesa come «sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».[1] Sulla base della cattolicità del popolo di Dio, Lumen Gentium 13 presenta la missione come «chiamata a questa cattolica unità del popolo di Dio che prefigura e promuove la pace universale». Lumen Gentium 17 poi, sullo sfondo del mandato del Risorto, descrive la missione come apostolica, legata perciò al compito di testimonianza da essi ricevuto fino ai confini della terra, e come cooperazione a quello Spirito che opera per portare a compimento il disegno divino. La missione è così descritta come onus fidei disseminandae affidato a tutti i discepoli.[2]

In modo ancora più netto, il decreto Ad Gentes insiste sul legame tra missione e Chiesa. Al di là di Ad Gentes 2, che parla di natura missionaria della Chiesa peregrinante,[3] il termine più usato dal documento è certamente munus che, più che natura, indica quanto dalla natura scaturisce, cioè il compito, il dovere, l’impegno missionario della Chiesa.[4] Il termine ritorna ben sette volte. In Ad Gentes 6 il termine torna due volte: la prima per indicare un compito ecclesiologico guidato dal collegio episcopale e partecipato da tutti i cristiani con la loro preghiera e la loro cooperazione e la seconda per descriverlo in base alla predicazione del vangelo e alla plantatio ecclesiae.[5] Gli stessi concetti ritornano in Ad Gentes 37. 38: se  il n. 38 ribadisce il carattere gerarchico di un impegno missionari risalente agli apostoli, tramite i vescovi, il n. 37 lega la crescita delle comunità alla sollecitudine per la salvezza universale e ne ricava una riaffermazione di quel compito missionario che presenta come “nobilissimo compito”.[6]

Diversa è la posizione di Gaudium et Spes che intitola il quarto capitolo della Prima Parte: La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo. In quel contesto, il documento insiste con forza sui compiti storici di una Chiesa «chiamata a formare, già nella storia dell’umanità, la famiglia dei figli di Dio» e che, condividendo la sorte e il cammino dell’umanità, è «come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo». Abbiamo qui una sottolineatura del cammino storico della Chiesa che persegue «un proprio fine di salvezza» ma, per farlo, «non solo comunica all’uomo la vita divina ma anche diffonde la sua luce» sulla dignità delle persone umane, sulla compagine sociale, sulla fatica quotidiana delle persone e la loro ricerca di senso, di gioia e di pace.[7] Nella vita e nell’attività della Chiesa, abbiamo qui la centralità di Cristo; in modo nitido, Gaudium et Spes 45 porrà Cristo al centro della vita umana e delle sue ricerche: «Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni».

Non credo sia legittimo, come a volte si fa, esaltare Lumen Gentium e Ad Gentes lasciando fra parentesi Gaudium et Spes; a mio parere, pur nella differenza delle prospettive, le due tesi sono complementari. Lumen Gentium e Ad Gentes sviluppano la missione della Chiesa risalendo alla vita trinitaria e affermando così lo stretto nesso lasciando fra comunione e missione; poiché la comunione trinitaria – impostata sull’amore – è una comunione aperta, rivolta al di fuori di se stessa, tale deve essere anche la comunione della Chiesa. Poiché la vita trinitaria comprende la alleanza con l’intera umanità mediante il popolo di Dio, così la vita della Chiesa si radica nella comunione trinitaria ma vive la sua missione in una impegnativa condivisione della storia umana.

Questo rivolgersi verso la storia e la società umana è quanto Gaudium et Spes prova ad esprimere. Certamente la sua prospettiva la rende particolarmente attenta alle profonde trasformazioni che hanno investito le organizzazioni e, più in genere, l’intera umanità, dalla fine del colonialismo al declino del mondo occidentale, dalle possibilità di sviluppo ai drammi della povertà, della mancanza di democrazia e di violazione dei più elementari diritti umani,  dal valore della scienza e della tecnica ai loro rischi, dal crollo dei valori etici alla crisi antropologica innescata dalla secolarizzazione e dalla globalizzazione ma questa sensibilità arricchisce società e la chiesa e ne rende più credibile la missione. Per questa via, le due visioni conciliari vanno sintetizzate ed entrambe valorizzate e non contrapposte. È quanto proverò a fare.

 

  1. L’eredità conciliare e lo sviluppo post-conciliare nel cammino delle Chiese

Senza sviluppare tutto questo cammino[8] e, ancor meno, i dibattiti sul concilio e sul post-concilio, vorrei richiamare l’importanza della Evangelii Nuntiandi. Poiché, a parere di Paolo VI, il sinodo del 1971, troppo assorbito dalla problematica del ministero presbiterale, non aveva approfondito abbastanza il secondo tema, quello della “giustizia nel mondo”, egli lo indicherà come l’argomento del sinodo del 1974: l’evangelizzazione nel mondo moderno. Basta rileggere le tre domande con cui Evangelii Nuntiandi 4 introduce la tematica per coglierne l’attualità: «che ne è oggi dell’energia nascosta della buona novella, capace di colpire profondamente la coscienza dell’uomo? fino a quale punto e come questa forza evangelica è in grado di trasformare veramente l’uomo di questo secolo? quali metodi bisogna seguire nel proclamare il vangelo affinché la sua potenza possa raggiungere i suoi effetti?».

            Al di là della indicazione della evangelizzazione come un processo comprensivo di molteplici aspetti[9] e della puntuale precisazione del suo contenuto,[10] mi sembra doveroso ricordare che essa pone al centro Cristo evangelizzatore. Questo passaggio della comprensione della missione dal munus ecclesiale allo evangelium Dei personificato in Gesù è decisivo: «Gesù medesimo, vangelo di Dio, è stato assolutamente il primo e il più grande evangelizzatore».[11] Questa visione cristologica permette di cogliere meglio sia il contenuto come i metodi dell’evangelizzazione: riportato a Gesù, il contenuto del vangelo è tanto il regno quanto la croce che ne precisa la singolare gloria mentre le modalità di proclamazione di questo vangelo sono la predicazione instancabile di questo vangelo ed il suo accompagnamento di segni evangelici, il più grande dei quali è il fatto che «i piccoli, i poveri sono evangelizzati, diventano suoi discepoli e si riuniscono “nel suo nome”».[12]

Per quanto non sia detto esplicitamente, è evidente il rapporto profondo, di identità, tra Cristo e il regno. Gesù e il regno sono un unico mistero annunciato dagli stessi gesti: accogliere il regno è diventare discepolo di Gesù e seguire Gesù è vivere in base a quel regno rispetto al quale «tutto diventa “il resto” che è “dato in aggiunta”».[13] È quanto Origene indicava come autóbasiléia; «egli [Gesù] compie la rivelazione completandola econfermandola con ogni manifestazione che fa di sé medesimo, mediante le parole e le opere, i segni e i miracoli e, più particolarmente, mediante la sua morte, la sua risurrezione e l’invio dello Spirito di verità».[14]

Chiarito così il quadro cristologico della evangelizzazione, Paolo VI per un verso indica nella frattura tra vangelo e cultura moderna il dramma della nostra epoca[15] e, per un altro, pone uno stretto rapporto tra il vangelo di Gesù ed il ministero della Chiesa.[16] In poche parole, l’evangelizzazione comprende due realtà tra loro profondamente intrecciate: una realtà obiettiva e divina – il vangelo di Gesù Cristo – ed un ministero umano, quello della Chiesa. La loro diversità ed il loro intreccio comporta non solo il munus, il servizio della Chiesa al vangelo, ma anche l’evangelizzazione della Chiesa stessa. «La Chiesa nasce dall’azione evangelizzatrice di Gesù e dei dodici. […]Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. […]Ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore».[17]

            Si può allora concludere che «la missione è più di uno strumento pratico e necessario della diffusione della chiesa. La missione non è a disposizione della chiesa: entrambe sono a disposizione dello Spirito».[18] Precisando meglio il senso della Chiesa, H. Berkhof sosterrà che «la chiesa è il risultato provvisorio della missione» chiarendo però subito che, come risultato provvisorio, la Chiesa «è un tipo di risultato in cui il movimento [della missione dello Spirito] ha raggiunto il suo fine».[19] In modo più scolastico C. Geffré dirà che «non è la Chiesa che definisce la missione. É la missione che determina il volto della Chiesa, affinché essa sia il segno escatologico del Regno di Dio»[20] e A.M. Henry scriverà che «l’Église est une société de convertis mais aussi une société de conversion. On ne cesse pas de s’y detourner du Malin et de se porter vers Dieu».[21]

            Nasce così un nuovo concetto di missione che Redemptoris Missio 4-30 proverà a chiarire. La scelta cristologica comporta una valorizzazione della figura di Gesù ma è comparso un pluralismo religioso che considera Gesù un fenomeno particolare e non definitivo;[22] comporta un recupero della dimensione escatologica con l’affermazione dirompente del regno ma i credenti sono ormai alle prese con forme discutibili di regnocentrismo;[23] comporta una rinnovata attenzione alla forza ed alla energia dello Spirito ma ecco il nascere di teologie che affermano una economia dello Spirito indipendente da quella del Verbo.[24] Questa è quella in cui la teologia si muove oggi ma la centralità di Cristo, vangelo di Dio e sommo evangelizzatore, resta il cardine del nostro discorso.

 

  1. Il volto missionario di Gesù

Il volto missionario di Gesù non rappresenta solo un aspetto, una modalità tra le tante, a cui ricorrere per qualificare una figura sempre poliedrica e sorprendente. Parlare del volto di Gesù significa parlare di quanto manifesta il segreto della sua vita, indagare il cuore della sua personalità, la radice ultima della sua missione. Il volto dell’altro – dirà E. Lévinas – è la sua maniera di significare, di rendersi evidente. Per questo Gesù è il volto di Dio, il volto di quell’Altro che supera ogni nostra attesa e ogni nostra immaginazione. L’epifania del volto è come una breccia nella crosta della propria chiusura che, esponendosi al rischio di guardare l’altro e di esserne ri-guardato, di inquadrare l’altro nel mio mondo di significati e di essere a mia volta inquadrato nel suo, diventa l’origine di una responsabilità etica o – è possibile – l’inizio di uno scontro e di una violenza. In realtà è la negazione della diversità dell’altro e la pretesa di ricondurlo al nostro io a esprimere egoismo e violenza; l’accoglienza dell’altro è invece la sviluppo di relazioni illuminate da una volontà etica. In Gesù, volto di Dio, il Padre si fa evidente nel suo amore e nella sua misericordia.

«Noi chiamiamo volto – scriverà sempre Lévinas – il  modo in cui l’Altro si presenta».[25] Il volto non è l’insieme di qualità che formano l’immagine che l’incontro con l’altro mi lascia ma, al di là di quanto io penso, ha valore e significato di per sé: non consiste nella relazione con qualcos’altro, non può diventare un contenuto afferrabile dal pensiero ma è incontenibile di modo che, conducendoci oltre noi stessi, ci introduce a una responsabilità, a una relazione interpersonale. Ora il cuore della personalità divina è la relazione d’amore intesa come struttura originaria del suo essere; da qui lo stupore e lo sconcerto per il “silenzio di Dio” di fronte alle tragedie umane. Il suo amore potente si esprime solo nella povertà e nella nudità con cui Dio si rende parte della nostra miseria, la condivide e, proprio in questo, la redime e la cancella. Come un padre, Dio distingue da sé la sua creatura pur sapendo di averla generata; come una madre che ha portato il figlio nel suo grembo, Dio lo ama come cosa sua e sceglie di imparare dolorosamente a rispettarne l’originalità differente.

In forza di questo amore che accompagna la storia umana, il volto che Gesù offre ai suoi contemporanei non è quello di chi insegna una dottrina ma è quello di una persona che cammina con loro. Volto umano di Dio, Gesù non si impone per autorità divina; non chiede nemmeno l’adesione alle proprie opinioni ma resta a disposizione di chi, accogliendolo, stabilisce con lui una interazione. Gesù, insomma, è a misura di comunicazione umana: può essere incontrato, amato, rifiutato perché ha assunto la totalità delle espressioni storiche, corporee, parentali, sociali della vita umana. Questo spiega la forza di irraggiamento della sua vita ma anche la pretesa di chi vorrebbe rinchiuderlo nel suo piccolo mondo palestinese di due mila anni fa.

Almeno due atteggiamenti si dovrebbero ricordare come significativi della sua personalità. Il primo atteggiamento era la sua sconcertante libertà di fronte alle cose: «non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete: la vita non vale più del cibo e il corpo più del vestito?».[26] Il rapporto con le cose materiali è spesso cruciale per il nostro stesso vivere: lungi dall’essere schiava delle cose, legata al loro uso e consumo o al loro accumulo,[27] la persona come la intende Gesù è concentrata attorno ad un senso ben più profondo: la relazione con l’abbá. Da qui la fiducia e l’abbandono nelle sue mani. Mettendo sotto accusa «chi accumula ricchezze solo per sé e non si arricchisce davanti a Dio», Gesù insegnerà che «la vita non dipende dai beni che uno ha».[28]

Il secondo atteggiamento – cuore di ogni libertà – è per Gesù la coltivazione della relazione con l’abbá. Soprattutto nella preghiera.[29] Lungi dal ridursi ad un obbligo, la preghiera è per Gesù il modo di riportare la vita, con i suoi bisogni, al Padre. Il tasso di insistenza e di importunità che può comportare l’insistere a pregare è come sanato da questo pieno e fiducioso abbandono in Dio: «ti ringrazio o Padre, creatore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così è piaciuto a te».[30] Con la sua azione e la sua predicazione, Gesù rilancia questo sovrano regnare di Dio sulla vita e sulla storia. Questo divino regnare ha a che fare con le folle dei poveri e dei malati che seguono Gesù, con la vedova di Nain distrutta dalla morte dell’unica figlia, con la vergogna della emorroissa, con l’indemoniato di Gerasa e via dicendo; quando queste persone riconoscono la presenza dell’Abbá e lo lasciano agire nella loro vita, si collocano nell’area del regno e la loro vita inizia a cambiare.

 

  1. La figura storica della missione: Gesù pellegrino e ospite

La metafora del cammino è probabilmente la più adatta per spiegare la figura storica della missione di Gesù; legata ad una esperienza generale dell’umanità, è utilizzata dalle scritture per esprimere l’esperienza umana del vivere e quella religiosa dell’incontro con Dio. Israele, ad esempio, confessava la sua fede ricordando la sua storia così: un arameo in cammino era mio padre;[31] la stessa meta a cui Israele tende – la terra promessa, la discendenza – non gli appartiene ma è di Dio.[32] Di conseguenza confesserà: io sono straniero sulla terra;[33] ammonirà pure: non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto.[34] Il tema del cammino è quindi un dato di fede ed una consapevolezza esistenziale; non stupisce quindi che entri nella preghiera e che qualifichi l’intera concezione credente della vita con il suo bisogno di Dio.

La metafora del cammino chiede una provvisorietà ed uno stile di vita che abbandona il primato del sapere e la centralità del possedere. Questo atteggiamento critico è evidente nel confronto tra le figure di Ulisse e di Abramo, tra le due realtà dell’uomo greco e di quello biblico. Il primo, Ulisse, percorre un cammino destinato al ritorno nella sua vecchia casa, un cammino cioè che – nella sua conclusione – esalta una dimora già conosciuta nella quale la sicurezza e la tranquillità sono il premio di un’avventura conclusa bene. Il secondo invece parte per un viaggio di cui non conosce né la meta né la logica: Abramo è il tipo di chi, alle prese con l’infinito e il divino, inizia un percorso che non può risolversi nel ritorno alla vecchia dimora ma che si risolve nella fedeltà ad una promessa che è la frontiera di un mondo che non si conosce.

Ecco allora il cammino di Gesù. Non sappiamo bene perché ha lasciato Nazaret ma il suo cammino per le strade della Palestina – secondo Mt 8,20 il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo – è tanto l’epifania del divino, cioè la rivelazione di un Amore sconcertante che si prende cura dell’umano e lo valorizza, quanto la sua trascendenza e cioè l’esperienza di un evento che resta inafferrabile. La vertigine della gloria di Dio si rivela nella ricerca del povero, della vedova e dell’orfano, del pubblicano e della prostituta di cui questo Amore si prende cura. È questo il cuore della figura di Gesù: l’evento glorioso di un regno che si identifica con quella sua persona umana che si realizza nell’amore crocifisso e nella carità umile e servizievole.

3.1. Gesù pellegrino della Parola: l’annuncio del regno

Il cammino biblico non è un vagabondaggio senza senso: è un muoversi lungo una direttrice che si raccoglie nella speranza e si lascia guidare dalla fede. Il senso di questo peregrinare evangelico di Gesù è chiarito dal testo di Mt 9,35-38[35] che raccoglie l’itineranza di Gesù sia attorno alla “compassione”, cioè attorno all’amore attivo e gratuito di Dio, sia attorno alle immagini del pastore di fronte ad un gregge disperso e dell’operaio messianico alle prese con un’opera che lo supera. L’attiva espressione di Gesù, pastore e operaio messianico, è descritta da tre atteggiamenti: l’insegnare nelle sinagoghe, il proclamare il vangelo del regno ed il curare malattie ed infermità. Un passo affine – Mc 6,34[36] – raccoglierà l’atteggiamento del pastore compassionevole attorno all’insegnamento di “molte cose” e preciserà questo insegnamento con il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci che pone termine a quella fame che li spinge a cercare Gesù.

            La compassione è partecipazione al dolore dell’altro: indubbiamente legata ad una componente psicologica, va però compresa come una forza attiva, una specie di solidarietà che spinge a prendere posizione e ad impegnarsi. Il verbo greco utilizzato – splagchnízomai – ritorna 12 volte nel Nuovo Testamento e, di solito, mette a fuoco il mondo emotivo di Gesù il cui cuore, traboccante di compassione, incarna ed esemplifica la compassione di Dio.[37] Bisogna aggiungere che, se per un verso la compassione di Gesù evoca l’amore del Padre, per un altro rimanda a pecore senza pastore[38] che esprimono l’immagine di un popolo e di una umanità senza più riferimenti. Teologi protestanti coreani, corifei della teologia minjung,[39] legheranno questa compassione di Gesù alle sofferenze delle folle presenti nel vangelo di Marco: óchlos in greco; le sofferenze delle folle vengono così collegate a quel Gesù che incarnerebbe nella sua persona la sofferenza di una doppia opposizione: quella dei poveri con le classi benestanti e religiose della Galilea e di Gerusalemme e quella tra il mondo rurale e quello cittadino. La “compassione” di Gesù sarebbe una partecipazione più intensa a queste sofferenze e colorerebbe il suo messaggio dei risvolti di una theologia crucis.

            Insieme alla compassione, vanno ripresi i tre verbi di Mt 9,35: insegnare, annunciare, guarire. Per quanto non sia escluso che alcuni accenti vengano dalla comunità post-pasquale, questi tre verbi presentano l’itineranza apostolica di Gesù come una realtà complessa, non appiattibile sul solo kerusséin. È attraverso questa triplice azione che si coglie a fondo la complessità e la ricchezza di quel “vangelo del regno”[40] non riducibile ad un semplice messaggio. Per quanto il linguaggio della missione sia ancora più ricco e vario di questi tre verbi, resta il fatto che gli stessi tre verbi sono ripresi con lo stesso ordine anche in Mt 4,23. Si dovrà aver presente che il brano è un sommario e che questo suggerisce di non enfatizzare la differenza tra insegnamento e proclamazione come se fossero due attività nettamente diverse, la prima costruita sulla spiegazione delle scritture e la seconda sull’annuncio della buona novella. L’intento del testo è quello di illustrare la presenza e l’energia del regno: educa, rinnova e guarisce investendo la totalità della vita e delle persone.

È certo interessante che uno di questi tre verbi – l’insegnare – non ritorni nelle indicazioni che Gesù dà ai suoi discepoli nella missione pre-pasquale. A me piace pensare che questo avvenga in base alla convinzione ribadita in Mt 23,8. 10: «voi non fatevi chiamare maestri perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli». Peregrinando, Gesù non mira ad arricchire l’uomo di conoscenze teologali ma ad incontrarlo nei suoi limiti per salvarlo; in questo impegno Gesù appare dotato della capacità di conferire senso e dignità all’avventura della libertà umana chinandosi con misericordia sulle sue miserie, peccati compresi. Il suo ministero itinerante apre la storia ad un futuro nuovo che non viene dalle capacità umane.

3.2. Gesù, ospite accolto e accogliente

Il peregrinare di Gesù conosce delle pause, delle soste riposanti: sono i momenti di Gesù, ospite accolto e accogliente. Due passi, più di altri, esprimono questi atteggiamenti: Lc 10,38-42; Lc 19,1-10. Il primo ricorda l’ospitalità di Betania e le diverse maniere di accogliere Gesù: il servizio di Marta e l’ascolto di Maria che possiamo e dobbiamo integrare come due modalità dell’unica figura del discepolo di Gesù.[41] Il secondo richiama come l’ospitalità sia sempre un dono che riempie di gioia e introduce alla conversione. L’episodio, centrato sulla corrispondenza tra il cercare di vedere Gesù (v. 3) e il cercare e salvare ciò che era perduto (v.10), illumina come la ricerca umana trovi il suo ultimo, vero significato solo in un incontro con il movimento della misericordia di Dio.

            I due episodi presentano Gesù come ospite, più probabilmente, come invitato. L’episodio di Marta illustra chiaramente come l’ospitalità sia legata ad un rituale che deve rendere l’ospite/invitato partecipe della parte più bella e più riuscita della propria vita casalinga ma proprio questo “mettere in mostra” la propria felicità e la propria ricchezza si scontra con l’atteggiamento della sorella ma soprattutto con quello di Gesù che obbliga Marta a risalire alla sostanza stessa dell’ospitalità, cioè la persona stessa dell’ospite, la sua presenza: Marta, Marta – gli dirà Gesù – tu ti preoccupi per troppe cose quando una sola è necessaria. Questa cosa necessaria è la persona di Gesù su cui Maria ha concentrato tutta la sua attenzione. L’episodio di Zaccheo, nell’incrocio delle due ricerche, mostra la conclusione di quanto è solo alluso nell’episodio di Betania: la conclusione è che l’incontro con Gesù ed il suo regno chiede la conversione radicale di Zaccheo e stravolge quella logica di accumulo di denaro attorno a cui aveva costruito tutta la sua vita.

La missione di Gesù si incontra così con molteplici atteggiamenti umani: l’agitarsi e il preoccuparsi per troppe cose, l’ascolto del vangelo, la sua pratica nella conversione della vita. L’interrogativo che questa missione pone risulta ben chiaro: la missione deve riportare in primo piano l’interrogativo sul baricentro della propria vita sottraendolo e risollevandolo dal fare. La missione non è un salvare le persone ma mira a risvegliare la loro libertà riportandola di fronte alle questioni veramente centrali;[42] solo poi viene l’annuncio. L’ospitalità caratterizza così una missione mai invadente ma semplice e delicata; nel suo riportare al centro la verità ultima, cioè la presenza di Gesù, l’ospitalità rimanda al “farsi prossimo” di Gesù,[43] al suo sedere a mensa con peccatori e pubblicani,[44] alla gioia della comunione ritrovata nel perdono[45] come alle dinamiche concrete in cui quel perdono si realizza.

            A questi racconti ne va aggiunto un altro: quello di Lc 7,36-50. Qui Gesù non è solo l’ospite o l’invitato ma è lui stesso a dover mettere in atto una vera ospitalità, correggendo – ed in questo insegnando – la mancanza di ospitalità del padrone di casa. Più che colui che è accolto, Gesù è qui colui che accoglie. L’episodio è quello della peccatrice che, senza parole, entra e piange, bagna e asciuga i piedi di Gesù, riempie del profumo dell’unguento la casa. Al suo comportamento fa da pendant quello di Simone, il padrone di casa: è su questo confronto in ordine a Gesù che il brano si concentra. La differenza tra i due – il fariseo e la donna – sta nel fatto che, mentre la donna fa di Gesù il centro delle sue speranze, il fariseo pone la legge, la Torah, tra lui e Gesù. In questo modo ingabbia Gesù nella legge o, almeno, nella legge come lui la intende. Gesù ne esce malconcio: «se costui fosse un profeta saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». Il fariseo mostra in questo modo di non capire né Gesù né la giustizia di Dio che Gesù incarna.

L’insegnamento di Gesù è un discernimento del comportamento dei due non già in base ai loro ruoli sociali ma in ragione dell’amore misericordioso di Dio. Illustrando il profondo rapporto tra la giustizia di Dio e l’amore, divino e umano, Gesù ne mostra il risultato nella prassi del perdono. Il perdono non è dimenticare le offese ma è piuttosto la forza che interrompe il circolo della colpevolizzazione e restituisce ad una persona la sua dignità e il suo futuro. Se è tipico del fariseo ridurre una persona alle sue azioni, è proprio di Dio richiamare che ogni persona è un dono che vale molto più dei suoi sbagli.

 

Conclusione

 

Queste due figure del pellegrino e dell’ospite sono entrambe espressione di un amore misericordioso. In sintonia con Paolo, potremmo dire che la missione trova qui una singolare prospettiva di comprensione: si muove nella linea di quel Dio-Amore che, da ricco che era, si è fatto povero perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà. Alla base delle due immagini sta quella alleanza radicale con cui Dio chiama l’uomo al suo servizio; senza sostituirsi alla libertà della risposta umana, la missione proclama questa verità e testimonia quella misericordia che si china sulla persona e sui suoi sbagli. Così facendo, Dio traccia davanti alle persone un itinerario spirituale che la Chiesa deve far di nuovo risuonare. Questa fedeltà di Dio che educa la nostra libertà e rende capaci di una risposta è presentata da Osea 11,3 con una immagine dolcissima: «ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare».

Questa fedeltà di Dio all’uomo va oltre la dimensione della Chiesa e della stessa fede. Anche coloro che sono lontani dalla fede, sperimentano questa vicinanza di Dio. dopo aver esaminato gli episodi del centurione di Mt 8,5-13, della sirofenicia di Mc 7,24-30, della morte di Gesù in Mc 15,38-39, del cieco nato di Gv 9,35-38 Congar concluderà che – per costoro – l’incontro con l’agire misericordioso del Dio di Gesù avviene «attraverso opzioni che si prendono nei confronti d’una verità […]ancora velata e che non si presenta in se stessa ma sotto altre specie ed altri nomi».[46] Per questo indicherà nell’amore ciò che è obiettivamente decisivo per la salvezza e presenterà questi episodi come «il campo dell’incognito di Dio: lo si incontra realmente, è realmente con lui che si stabilisce il dialogo ma non lo si chiama Dio, non si sa che è lui».[47] E continuerà osservando che vi è «una realtà privilegiata per servire da segno paradossale di Dio, in rapporto al quale gli uomini possono dichiarare il loro orientamento profondo, ed è il prossimo, il sacramento del prossimo!».[48] Centro della vita umana e luogo della rivelazione di Dio, l’amore è lo spazio della educabilità “in incognito” delle persone; spetta alla missione riconoscerlo e rivelargli il nome del Dio di Gesù.

 

 

[1] Lumen Gentium 1. 48. Lumen Gentium 9 parla della Chiesa come “sacramento visibile di unità salvifica”; Lumen Gentium 53 la colloca nel contesto di un “divino mistero di salvezza” che nella Chiesa è rivelato e continuato; Ad Gentes 5 la presenta più sinteticamente come “sacramento di salvezza”..

[2][2] La stessa terminologia sarà ripresa in Ad Gentes 23.

[3] Il “natura” compaia 12 volte in Ad Gentes ma, per lo più, si riferisce alla natura umana di Cristo o a quella umana in generale; solo 2 volte – entrambe in Ad Gentes 6 – riprende l’insegnamento del n. 2 circa la natura missionaria della Chiesa ma senza particolari aggiunte.

[4] La terminologia non è del tutto precisa: assieme a munus, si usa anche officium, onus, opus e altri.

[5] Questa presentazione ecclesiologica della missione trova una decisiva conferma in Ad Gentes 6 là dove il decreto precisa che «il fine proprio di questa attività missionaria è l’evangelizzazione e l’impiantazione della Chiesa nei popoli e gruppi in cui ancora non ha messo radici». Qui evangelizzazione e plantatio sono le tesi delle scuole di Münster e di Lovanio; menzionandole entrambe, il Concilio segnala la sua intenzione di non voler operare una scelta tra le due ma di voler piuttosto lasciarle al libero dibattito teologico.

[6] Le altre citazioni descrivono il compito missionario dei vari membri della Chiesa. Ad Gentes 20 richiama il compito missionario del vescovo; Ad. Gentes 17 parla di quello dei catechisti, veri cooperatori del ministero sacerdotale; Ad Gentes 23 insiste sul dovere missionario di ogni cristiano.

[7] Tutte queste citazioni sono prese da Gaudium et Spes 40.

[8] Si veda per questo G. Colzani, Missiologia contemporanea. Il cammino evangelico delle Chiese:1945-2007, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, 62-119.

[9] Evangelii Nuntiandi 17-24. Il n. 17 la presenta come una realtà «ricca, complessa e dinamica».

[10] Evangelii Nuntiandi 25- 39. Pur ricco di indicazioni, il capitolo ha il suo centro nel n. 27 che insegna che «l’evangelizzazione conterrà sempre anche – come base, centro e insieme vertice del suo dinamismo – una chiara proclamazione che in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta ad ogni uomo come dono di grazia e misericordia di Dio stesso».

[11] Evangelii Nuntiandi 7.

[12] Evangelii Nuntiandi 12.

[13] Evangelii Nuntiandi 8.

[14] Evangelii Nuntiandi 12.

[15] Evangelii Nuntiandi 20.

[16] Basta pensare ad Evangelii Nuntiandi 14: «il mandato di evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione essenziale della Chiesa. […]Evangelizzare infatti è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare e insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio del Cristo nella S. Messa che è il memoriale della morte e della sua gloriosa assunzione».

[17] Evangelii Nuntiandi 15. Più avanti, Paolo VI osserverà che «l’evangelizzazione non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale dell’uomo. Per questo l’evangelizzazione comporta un messaggio esplicito adattato alle diverse situazioni» (Evangelii Nuntiandi 29).  In seguito l’Esortazione apostolica osserverà che «la Chiesa collega ma non identifica giammai liberazione umana e salvezza in Gesù Cristo perché sa per rivelazione, per esperienza storica e per riflessione di fede, che non ogni nozione di liberazione è necessariamente coerente e compatibile con una visione evangelica dell’uomo, delle cose e degli avvenimenti» (Evangelii Nuntiandi 35). Il problema che aveva travagliato il Sinodo del 1974 appare così delimitato a destra e a sinistra, nell’ambito del tradizionalismo ed in quello del terzomondismo; non è però risolto: il problema teologico rimane.

[18] H. Berkhof, Lo Spirito Santo e la chiesa. La dottrina dello Spirito santo [1964], Jaca Book, Milano 1971, 45.

[19] H. Berkhof, Lo Spirito Santo e la Chiesa, 46.  Lo stesso autore aggiunge: «una chiesa che fosse semplicemente un movimento dinamico, estroverso, attivista, non sarebbe lo strumento di Dio perché non annuncerebbe con la sua stessa esistenza». In questa medesima linea S. Dianich parlerà di Chiesa estroversa: S. Dianich, Chiesa estroversa. Una ricerca sulla svolta dell’ecclesiologia contemporanea, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1987 mentre Ch. Duquoc insisterà sulla provvisorietà della Chiesa: Ch. Duquoc, Chiese provvisorie. Saggio di ecclesiologia ecumenica, Queriniana, Brescia 1985; Id., «Credo la Chiesa»: precarietà istituzionale e regno di Dio [1999], Queriniana, Brescia 2001.

[20] C. Geffré, «L’evoluzione della teologia della missione dalla Evangelii Nuntiandi alla Redemptoris Missio», in Le sfide missionarie del nostro tempo, E.M.I., Bologna 1996, 68.

[21] A.M. Henry, Esquisse d’une théologie de la mission, Cerf, Paris 1959; Id., «Mission d’hier, mission de demain», in Vatican II. L’activité missionnaire de l’Église, Cerf, Paris 1967, 411-440 ; Id., La mission en quête d’église, «Parole et Mission. Dossiers» 2(1972), 35-78.

[22] Redemptoris Missio 5-6; Dominus Iesus 14.

[23] Redemptoris Missio 17; Dominus Iesus 19.

[24] Redemptoris Missio 29; Dominus Iesus 10. 12.

[25] Certo resta sempre vero il monito di Es 33,20: «nessun uomo può vedere il mio volto e restare vivo»ma, forse, dobbiamo imparare a comprendere questo versetto nel senso che qui “vedere il volto” è la pretesa di una conoscenza di dominio inconciliabile con il mistero dell’altro.

[26] Mt 6,25.

[27] Si vedano i lavori di G. Theissen, Gesù e il suo movimento. Analisi sociologica della comunità cristiana delle origini, Claudiana, Torino 1979; Id., Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti, Genova 1987; Id., Vissuti e comportamenti dei primi cristiani. Una psicologia del cristianesimo delle origini, Queriniana, Brescia 2010.

[28] Lc 12,21. 15.

[29] Mt 6,5-15; Lc 11,1-13.

[30] Mt 11,25-26.

[31] Dt 26,5.

[32] Lv 25,23: la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini.

[33] Sal 119,19.

[34] Es 23,9.

[35] Mt 9,35-38: «Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. 36Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. 37Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi! 38Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!”».

[36] Mc 6,34: «34Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose».

[37] Basta pensare a Lc 15,20 dove indica l’atteggiamento del padre misericordioso nei confronti del figlio che aveva abbandonato la casa o a Lc 7,13 dove invece indica il sentimento di Gesù per la madre di Nain che ha perduto il suo unico figlio.

[38] Vi è forse qui un rimando a Nm 27,17. Nei vv. 15-23, in cui il testo è inquadrato, Mosè prega Dio perché gli dia un successore e non lasci il popolo senza guida; Dio gli indicherà Giosué che dovrà venir preparato al compito di guida del popolo. Allo stesso modo, Gesù prega qui perché Dio gli dia successori.

[39] V. Küster, A Protestant Theology of Passion. Korean Minjung Theology Revisited, Brill, Leiden - Boston 2010. In particolare va tenuto preente il saggio di Ahn Byung-Mu e la prefazione di Kwang-Sun Suh; su tutto si veda la mia recensione in Bibliographia Missionaria 2011.

[40] È lo stesso vangelo che Mc 1,14 indica come “vangelo di Dio”.

[41] Se Lc 10,41-42 sottolinea i limiti del servire come facile dispersione della vita del discepolo sotto il peso delle preoccupazioni, Mt 7,26 richiama i limiti dell’ascolto che stanno nella stoltezza del non-agire, costruendo così la propria casa sulla sabbia.

[42] Si vedano in proposito le osservazioni di Taylor che, nella società contemporanea, vede l’azione della Chiesa come volta a sviluppare le aspirazioni alla fullness controbattendo così le esperienze della fragilization: Ch. Taylor, A Secular Age, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA) – London 2007 (ed. italiana: L’età secolare. Feltrinelli, Milano 2009).

[43] Lc 10,34.

[44] Mt 11,19; Lc 19,7.

[45] Lc 15,7. 31-32.

[46] Y. Congar, «Salvezza dei non evangelizzati», in Id., La mia parrocchia vasto mondo. Verità e dimensioni della salvezza, Paoline, Roma 1963, 168. Tra l’altro osserva che la scelta della fede avviene – nell’episodio del cieco nato – in base allo «atteggiamento profondo che ha preso nei confronti del “segno” e di Colui che, ancora nascosto, significava il suo accostamento in questo segno» (ivi).

[47] Y. Congar, «Salvezza dei non evangelizzati», 182.

[48] Y. Congar, «Salvezza dei non evangelizzati», 188. Poco più avanti insiste sui medesimi concetti: «è necessario parlare del “mistero del prossimo” e questo nel senso preciso nel quale la parola “mistero” designa, nel linguaggio dei Padri, una realtà che ha un senso al di là di se stessa, nella linea della realtà ultima verso la quale è diretta tutta la storia della salvezza».

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