Un Nuovo Umanesimo

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Discorso alla Città – Sant’Ambrogio 2014

Vorrei, per iniziare, ribadire che Expo 2015 «può, rappresentare una occasione perché la Milano del futuro trovi la sua anima. Fin da ora, tanto il tema “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” – che ci invita a considerare il creato come dimora di cui avere cura e come risorsa da utilizzare con equilibrio –, quanto la presenza della grande maggioranza dei Paesi del mondo con l’arrivo di milioni di visitatori, costituiscono una salutare pro-vocazione. Pongono tutte le componenti della società di fronte (pro) ad un invito (vocazione) che non può essere disertato da nessuno»

  1. C’è bisogno di un nuovo umanesimo
  2. Una situazione complessa

Il contesto sociale, politico ed economico in cui Milano e le terre ambrosiane si stanno preparando ad Expo 2015 appare tuttavia segnato più dall’incertezza e dalla sfiducia che dallo slancio vitale proprio di chi tende ad una meta in grado di generare vita compiutamente e quindi anche benessere condiviso, sviluppo sostenibile, ripresa economica ed equità internazionale. Le difficoltà del tempo presente sono evidenti – cito solo la persistente crisi economico-finanziaria e il suo risvolto drammatico sul lavoro soprattutto dei giovani, o l’incertezza che ancora domina il panorama socio-politico del nostro paese – e non vanno certo nascoste, ma non spiegano da sole lo scoraggiamento che sembra prevalere in molti ambiti sociali e culturali. Il presente travaglio, che segna il passaggio di millennio, ci vede, comprensibilmente, camminare a tentoni. E si è talora tentati di ricorrere a narrazioni sulla vita della nostra città che indugiano più sugli aspetti disgreganti che su quelli costruttivi.

  1. il presente chiede una radicale novità

Di fronte alle terribili violenze cui sono sottoposti ogni giorno cristiani, uomini delle religioni e cercatori di giustizia in Medio oriente e non solo, alla persistente situazione di radicale ingiustizia che nel sud del pianeta condanna alla miseria fino alla morte per fame milioni di persone, al riproporsi ininterrotto della tragedia degli immigrati che arrivano alle nostre coste e, per stare ai temi dell’Expo, dell’incremento della povertà – anche nelle nostre città evolute e ancora opulente –, chi di noi non desidera uno scatto di umanità che cerchi di mettere la parola fine a tutte queste dolorose realtà? Tutti sentiamo, con particolare intensità, l’urgenza di un cambiamento, di una novità radicale.

  1. Tratti di un nuovo umanesimo

Considerando questo quadro complessivo, Papa Francesco non ha usato mezzi termini per giudicare la situazione economica in cui versa il pianeta: «La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano!» . Il Papa indica in tal modo la strada: rimettere l’uomo al centro.

Ecco che si affaccia la parola umanesimo. Ma non si deve parlare in astratto di un umanesimo buono per tutte le stagioni. Solo se sorge dal di dentro dei ritmi e dei processi dell’attuale travaglio storico si può parlare di nuovo umanesimo. Si deve intendere bene il senso dell’aggettivo nuovo. Il nuovo non è l’inedito ad ogni costo. Piuttosto nuovo è camminare non perdendo l’origine, è un ricominciare. Così fecero i romani dopo i greci e dopo gli ebrei. Enea lascia Troia portando in braccio il padre Anchise, tenendo per mano il figlioletto Julo e trapianta l’antico in un suolo nuovo. Il cristianesimo partecipa di questo atteggiamento che può ben definire l’anima dell’Europa. Basti pensare al rimando imprescindibile dell’annuncio di Cristo al popolo dell’elezione. In questo contesto non è necessario soffermarsi a descrivere il percorso dell’umanesimo e neppure sulla riflessione critica intorno ad esso sviluppatasi lungo tutto il secolo XX e in questi primi lustri del nuovo millennio. Un percorso che è giunto a parlare addirittura di “postumanesimo” (lasciare alle spalle l’umanesimo) o “transumanesimo” (attraversare l’umanesimo per giungere ad una nuova cosmovisione, quella della civiltà tecnica e delle reti). Con questi due termini si fa di solito riferimento a una stagione culturale – con tutte le implicazioni esistenziali della parola “cultura” – che, in modo più o meno polemico, nel pensare e nell’organizzare la vita personale e sociale, non si è curata della centralità dell’uomo. Non di rado i sostenitori di tale posizione hanno accusato l’occidente di aver ceduto ad un antropocentrismo esasperato, responsabile – per stare al tema dell’Expo riferito al pianeta – di molti e spesso irreversibili disastri ambientali.

Su queste basi, come parlare di nuovo umanesimo e come descriverlo mostrando che di questo hanno bisogno Milano e le terre ambrosiane per trovare l’anima del loro futuro?

Per parlare di nuovo umanesimo i cristiani debbono anzitutto far fronte, in modo costruttivo, alla critica rivolta all’umanesimo antropocentristico. Centralità dell’uomo non significa che dall’uomo tutto abbia origine e nell’uomo tutto trovi destinazione. Una tale lettura prescinde dall’insegnamento costante della Sacra Scrittura, secondo il quale l’uomo non è un individuo isolato, ma un essere in relazione:

- in primo luogo egli è in relazione con il Creatore che gli ha dato liberamente e gratuitamente la vita: l’uomo, infatti, è donato a se stesso. È su questo rapporto con il Creatore che si fonda la dignità dell’uomo: «“Le tue mani – dice – mi hanno modellato”. Dice “mani”, al plurale, e non “mano” (…) Nell’opera della creazione dell’uomo, sembra che non sia troppo ciò che sarebbe stato troppo per far esistere tutto l’universo. Con una sola mano ha stabilito il cielo, come sta scritto, mentre le due mani di Dio hanno dato forma all’uomo»;

– inoltre è solidale con tutti gli altri uomini e donne che costituiscono la famiglia umana: ridurre l’uomo ad “individuo” a sé stante è profondamente ingiusto perché non consente di riconoscere il carattere responsabile dell’umana libertà: ogni uomo è un dono per gli altri;

– e infine è in relazione con tutto il creato, che gli è stato donato come dimora di cui prendersi cura e, in funzione di tale scopo, anche come risorsa: tutto il creato è un dono per tutti gli uomini.

L’umanesimo nuovo di cui abbiamo bisogno pertanto può efficacemente ancora riferirsi ad una adeguata lettura del Libro della Genesi a proposito della creazione. Una lettura che “risitui” l’uomo, voluto da Dio, al riparo da una posizione di dominio e di sfruttamento degli altri e del creato.

Questa benefica rivisitazione non domanda per nulla di superare “l’umanesimo”. Il termine, infatti, preso nel suo significato generale, insiste sul dato elementare della dignità e del primato della persona umana inserita nelle sue relazioni costitutive. A questa visione invita l’insegnamento del Concilio Vaticano II, riproposto da tutti i Pontefici in questi ultimi cinquant’anni: l’uomo che «in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso» non può «ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé».

Il nuovo umanesimo sarà quindi, in termini originali, un umanesimo del “dono di sé” da parte di ogni uomo e di ogni donna, attraverso il loro essere costitutivamente in-relazione.

L’appassionata ricerca di senso, presente nella comune esperienza degli uomini e nella riflessione degli svariati saperi in questa fase di passaggio al Terzo Millennio, mostra notevoli consonanze foriere di benefico dialogo con questa visione. Il nuovo umanesimo scommette sull’io-in-relazione rinunciando all’illusione di un io ridotto al suo proprio esperimento.

  1. Il contributo dei cristiani

Perché la proposta di un “nuovo umanesimo” dovrebbe interessare direttamente la vita dei cristiani? o, se si vuole, perché l’Arcivescovo dedica il discorso di Sant’Ambrogio a questo argomento? Dal compito di offrire un contributo all’edificazione della vita buona nella società plurale centrato su un nuovo umanesimo, i cristiani non possono disertare anzitutto perché membri, a tutti gli effetti, della famiglia umana. Ma ancora di più perché sono seguaci di un Dio incarnato che ha assunto la condizione umana non solo per indicarci il destino di amore definitivo che ci attende dopo la morte ma, e proprio in vista di questo destino, per accompagnarci nel nostro quotidiano cammino su questa terra.

Ci illumina ancora il prezioso insegnamento del Vaticano II, che per la Chiesa del nostro tempo costituisce un punto di non ritorno: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia».

All’inizio del Terzo Millennio questo insegnamento conciliare appare ancora come una delle cose preziose che lo scriba evangelico estrae dal suo tesoro (cfr. Mt 13,52).

Per questa ragione, nella mia prima Lettera pastorale, che aveva come scopo di accompagnare la comunità ambrosiana nella preparazione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie, facendo riferimento ai temi della famiglia, del lavoro e della festa affermavo: «L’aver posto a tema questi tre fattori costitutivi dell’esperienza di ogni uomo e di ogni donna, esprime bene il nesso tra la fede e la vita e mostra efficacemente il grande realismo dell’esperienza cristiana» (A. SCOLA, Il bene della famiglia. Per confermare la nostra fede n. 3, Centro Ambrosiano, Milano 2011, 12). Proprio in forza di questo nesso, volli sottolineare, l’anno successivo, il fatto che «i cristiani sono presenti nella storia come l’anima del mondo, sentono la responsabilità di proporre la vita buona del Vangelo in tutti gli ambiti dell’umana esistenza. Non pretendono una egemonia e non possono sottrarsi al dovere della testimonianza» (ID., Alla scoperta del Dio vicino n. 12.4, Centro Ambrosiano, Milano 2012, 50). Su questa strada siamo arrivati ad identificare l’urgenza di un nuovo umanesimo: «L’impegno del cristiano non è un’estenuante ricerca di nessi tra il Vangelo e la vita, come se fossero due realtà disgiunte e da mettere artificiosamente insieme. È assai più semplice. Consiste nel documentare in prima persona che Gesù è “via, verità e vita” (Gv 14,6). Come annota acutamente il nostro padre Ambrogio: “Cristo è nostro, perché è vita” (…) Anche all’inizio di questo terzo millennio Gesù Cristo è feconda radice di un nuovo umanesimo. In tal modo l’incontro gratuito con Cristo si mostra in tutta la sua corrispondenza all’umano desiderio di pienezza. A tal punto che la necessaria verifica dell’autenticità della fede consiste proprio nella scoperta che essa “conviene” al cuore dell’uomo» (ID., Il campo è il mondo n. 4h, 44-45).

  1. Per Milano e le terre ambrosiane

L’urgenza, che la fede e la storia ci impongono, di stare ben radicati nell’attuale e complesso contesto socio-culturale delle nostre terre, domanda di riconoscere criticamente il valore – fecondità e limiti –della nostra tradizione gettando anche uno sguardo sul nostro passato recente. Ovviamente in questa sede si potranno fare solo cenni rapidissimi.

  1. Una tradizione feconda

Innanzitutto vale la pena ricordare una caratteristica propria del cattolicesimo lombardo fin dalla prima età moderna: il suo forte legame con l’umanesimo delle origini, che è nella sua quasi totalità un umanesimo cristiano, un umanesimo teocentrico. Un orientamento positivo fondato sulla consapevolezza che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio. Atteggiamento che non solo favorì un impegno religioso, umano, sociale nella vita ordinaria, ma si espresse in diverse opere educative ed imprenditoriali. Basti pensare alla promozione da parte di san Carlo dell’insegnamento della lettura ai ragazzi che frequentavano la dottrina cristiana o l’opera delle orsoline.

Ma possiamo anche accennare all’umanesimo lombardo come fattore fecondo di cultura e di socialità, capace di solido realismo e di duttile apertura. Sempre attento all’uomo “intero”, non soltanto alle sue esigenze spirituali o soltanto a quelle materiali e sociali. Lo dimostra assai bene la gloriosa vicenda della Ca’ Granda. Si tratta di un percorso variegato e costante nel mondo lombardo intriso di religiosità. Non si può evitare almeno un cenno al cosiddetto “illuminismo lombardo” – pensiamo al Verri, al Beccaria e, per certi aspetti, allo stesso Manzoni –, con la sua peculiare attitudine a coniugare le istanze innovatrici d’oltralpe con la tradizione culturale milanese. In un certo senso ne fu erede anche Carlo Cattaneo. Guardando la nostra storia possiamo parlare di un autentico umanesimo della responsabilità: piedi per terra e sguardo volto al cielo.

  1. Uno sguardo al passato recente

Questa tradizione ha continuato ad alimentare, anche se in variegati modi e con diversa intensità, le terre ambrosiane nel corso degli ultimi sessant’anni e ha consentito a Milano di affrontare impegnative trasformazioni sociali ed economiche, mettendo a frutto le sue risorse culturali di fondo, quali lo spirito innovativo, l’operosità, la capacità d’iniziativa applicata ai più diversi campi, compreso quello della solidarietà. Sono queste virtù morali e culturali che hanno reso Milano una città solidale, aperta a tutti, capace di accogliere e integrare le diversità, sempre nell’orizzonte della centralità della persona. Sono ancora presenti i benefici frutti di una stagione storica caratterizzata da uno sviluppo accelerato reso possibile nel dopoguerra dalle energie costruttive delle nostre genti e degli immigrati italiani che cominciavano a trovare tra di noi la loro nuova dimora. Con notevoli sacrifici si pose mano all’edificazione comune sviluppando l’industria metalmeccanica, il commercio al dettaglio e all’ingrosso, l’industria petrolchimica, l’industria delle costruzioni e dell’installazione di impianti.

A questa stagione seguì la deindustrializzazione degli anni ’70, accompagnata dalla contestazione studentesca (con l’occupazione delle cinque università milanesi) e, assai dolorosamente, dalla violenza terroristica (gli “anni di piombo”). L’inizio degli anni’80 vede avanzare la terziarizzazione dell’economia cittadina e, allo stesso tempo, una decrescita occupazionale e di popolazione, con la conseguente riorganizzazione dell’apparato produttivo e le relative rivendicazioni salariali e normative. Ma la centralità economica di Milano, in ambito nazionale e internazionale, viene favorita dalla concentrazione dell’attività finanziaria. Si apre la fase della cosiddetta “Milano da bere” con l’inedito peso dato al consumo e all’immagine. Non è casuale che gli anni (cronologicamente brevi) di questa fase coincidano con la prospettiva del “guadagno facile”, reso possibile proprio dalla finanziarizzazione dell’economia che mostrerà il suo volto perverso con la 5 grande crisi del 2008, i cui effetti sono tuttora, amaramente, evidenti per larghe fasce di produttori e di consumatori. Tra questi effetti occorre citare, per la sua bruciante attualità, la situazione in cui versano le case popolari nella nostra città, situazione in cui si concentrano troppi problemi sociali, istituzionali ed economici resi più complessi per il rapido flusso migratorio da paesi extracomunitari (si pensi al rapporto casa-lavoro, alla diffusione dell’illegalità, all’impotenza della politica, alla mancanza di finanziamenti per ristrutturazioni, risanamenti e nuove case, alle case vuote, agli sgomberi...). Si è giunti al paradosso di “abitanti senza case” e “case senza abitanti”. Proprio lo stile di vita della “Milano da bere” – favorito anche dallo sviluppo delle televisioni commerciali e dei mezzi di comunicazione intesi come “industria culturale” – è diventato il brodo di coltura entro il quale ha preso avvio un processo distorsivo dei meccanismi di riproduzione del capitale sociale e culturale della città che, al di là di ogni giudizio storico o politico, ha trovato drammatica espressione nella vicenda di Tangentopoli. Questa storia, anche se in parte rimossa e non consapevolmente assunta dalle nuove generazioni, continua a pesare, nel bene e nel male, sulla nostra Milano.

  1. Una nuova anima per Milano

I decenni trascorsi ci lasciano in eredità una oggettiva situazione di grave frammentazione. Milano e le sue terre sono alla ricerca di una nuova anima, capace di fondere in unità i tanti significativi frammenti di vita buona che nell’area metropolitana si accompagnano a pesanti contraddizioni. Non si tratta di compiere sintesi a tavolino, senza per questo voler ignorare l’importanza dell’analisi nella quale sono impegnati numerosi centri di ricerca nella nostra città. Come in ogni processo storico è necessario partire dal soggetto: il primo fattore di novità, infatti, è il porsi del soggetto stesso. Senza un soggetto nuovo, personale e sociale, non supereremo la grave crisi del desiderio che ci rende oggi incapaci di speranza, di slanci ideali, di passioni, di rischio, di avventura. Ci relega in una sorta di libertà immaginaria, in cui il desiderio – la cui ginnastica continua Agostino, così riconoscente a Milano, raccomandava –, è ridotto a puro piacere, se non a mero bisogno e pulsione ripetitiva che frantuma l’io e lo lascia privo di ogni riferimento e solidarietà vissuta. E tuttavia questi spunti di analisi critica trovano un contrappunto positivo in altri di segno opposto.

Assistiamo così al paradosso per cui ad un crescente processo di individualizzazione si accompagna il sorgere di forme nuove di relazioni, di legame sociale e di comunità. Ciò che ci interessa segnalare è il fatto che proprio negli anni del massimo sviluppo della “cultura del narcisismo”, con le sue ricadute di ordine sociale e morale, troviamo nelle nostre terre ambrosiane anche l’affermarsi di un nuovo processo di ri-socializzazione, esperienze capaci di produrre innovazioni.                                

La Chiesa ambrosiana non è stata estranea alla storia qui accennata Anzi, i cristiani lombardi l’hanno vissuta da protagonisti e la Chiesa stessa non ha fatto mancare la sua presenza e la sua missione dal secondo dopoguerra ai nostri giorni. Nella mia prima lettera pastorale Alla scoperta del Dio vicino ebbi modo di delineare sinteticamente il percorso della Chiesa in questi decenni presentando in chiave sintetica l’azione pastorale degli arcivescovi. Mi permetto, ora, di ricordarlo brevemente. Alla tensione educativa caratterizzante gli episcopati dei cardinali Schuster e Montini, tesi a risvegliare un cattolicesimo popolare che stava diventando progressivamente convenzionale, seguì la necessità di affrontare la rapida mutazione della società lombarda – sono gli anni del post-concilio e dell’episcopato del cardinale Colombo – intensificando la qualità della formazione attraverso una fitta rete di realtà educative, associative e culturali nonché grazie allo sviluppo dei nuovi movimenti ecclesiali. Dopo la profonda ferita del terrorismo e i cosiddetti “anni di piombo” si giunge alla già citata “gaia rassegnazione” della “Milano da bere”). Gli episcopati dei cardinali Martini e Tettamanzi offrono a tutti la fede, radicata nella Parola di Dio, come fonte inesauribile per un deciso incontro con gli uomini e le donne del nostro tempo capace di proporre percorsi comuni. La descrizione presente nella Lettera pastorale citata concludeva con queste parole: «Un filo rosso lega le fasi degli ultimi sessant’anni della nostra storia: il convincimento che la fede in Cristo Gesù è la grande risorsa per la vita personale e comunitaria della Chiesa e della società civile»,

  1. La via del nuovo umanesimo

La fiducia nella Provvidenza che guida la storia e non cessa, in ogni frangente, di offrirci preziose indicazioni per il cammino, fa del nostro tempo un kairòs, un momento di grazia. Con realismo guardiamo al travaglio di oggi con spirito di ad-ventura, cioè rivolti al futuro.

  1. Un maestro per l’oggi

Appena due mesi fa la nostra Chiesa ambrosiana, insieme alla Chiesa universale, ha ricevuto il dono della beatificazione di Giovanni Battista Montini, nostro arcivescovo divenuto Papa Paolo VI. Un dono particolarmente prezioso in questo momento per la luce che getta sulla situazione contemporanea e sul compito dei cristiani in vista dell’edificazione di vita buona in una società plurale. La figura e l’insegnamento di Paolo VI, infatti, mostrano ogni giorno di più la loro attualità e pregnanza. Fin dalla giovinezza e poi con sempre maggior evidenza durante gli anni del suo ministero ambrosiano, il Beato Montini non solo insistette con decisione sulla necessità di riconoscere l’origine dell’umanesimo in Gesù Cristo, ma ne indicò anche il metodo adeguato. Nel discorso del 6 gennaio 1955 al suo ingresso a Milano disse: «Il problema che a noi, in questa stessa circostanza, quasi programma, si pone è questo: abbiamo bisogno d’un cristianesimo vero, adeguato al tempo moderno. Problema che possiamo anche meglio formulare così: come possiamo noi adeguare la nostra vita moderna, con tutte le sue esigenze, purché sane e legittime, con un cristianesimo autentico?». La domanda ha come interlocutore privilegiato Milano: «Questo problema si pone in modo speciale, e sotto certi aspetti, unico, proprio alla nostra Milano; poiché a Milano, più che altrove in Italia, e forse più che altrove nel mondo, concorrono in alto grado i due dati del problema stesso: la ricchezza stupenda e secolare d’una tradizione religiosa – e voglio dire: di fede, di santità, di arte, di storia, di letteratura, di carità –, con una ricchezza meravigliosa e modernissima di vita – e voglio dire di lavoro, d’industria, di commercio, di arte, di sport, di politica». Veniva così identificata una specifica vocazione del cattolicesimo ambrosiano la cui cura il nuovo arcivescovo considerava prioritaria. Se oggi la situazione è assai diversa, non è però venuta meno questa sensibilità all’uomo concreto e al suo contesto storico. L’8 dicembre 1957, nell’omelia del pontificale in Duomo, l’arcivescovo Montini si chiede: «Chi è l’uomo?»

Rispondere a questa domanda con lo sguardo fisso in Gesù Cristo, fu uno dei contenuti essenziali della predicazione e del ministero pastorale del nuovo beato. È nota la sua insistenza sulla necessità di recuperare il senso religioso perché l’uomo contemporaneo possa “pensare Dio”. L’Arcivescovo è infatti convinto del fatto che «l’uomo moderno, se vuol essere coerente con la sua stessa razionalità, dovrà ritornare religioso». Siamo al cuore dell’insegnamento conciliare che Paolo VI, al termine del Vaticano II, sintetizzò così: «il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico […]: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo». Una preoccupazione che ha origini lontane. Basti un esempio: il 10 giugno 1923 un giovanissimo don Montini invitava il fratello Lodovico a «cercare l’uomo per cercare Dio» (Populorum progressio) arriverà a delineare un «umanesimo plenario», vero in quanto «aperto verso l’Assoluto» E Dio, scriveva mons. Montini nel 1930, si riflette in Cristo, Figlio dell’uomo: «Così Dio pensa, parla, agisce, nell’ambito umano. [...] Dio agli uomini, gli uomini a Dio»

L’umanesimo trascendente cui Montini fa riferimento assume le caratteristiche di un “umanesimo nuovo”, cioè “l’umanesimo di Cristo”. «E Cristo, venendo» aggiunge l’Arcivescovo «si sedette commensale alla nostra mensa, si fece compagno di viaggio, si fece socio, si fece amico, si fece collega, si fece uno di noi, cum hominibus conversatus est, si confuse anche Lui in mezzo alla folla degli uomini. Fu uno di noi, uno di noi» Cristo, infatti conosce l’uomo, «ha il senso del bisogno degli uomini».

L’insegnamento di Montini fu sviluppato da san Giovanni Paolo II che trovò un’espressione particolarmente felice in un passaggio della sua enciclica programmatica: «L’uomo è la via della Chiesa». Alla luce di questo magistero è possibile affermare che la proposta di un nuovo umanesimo non è altro che la capacità insita nella fede cristiana di generare cultura, cioè, di proporre agli uomini e alle donne di ogni tempo, partendo dal loro peculiare contesto storico, sociale e culturale un senso per vivere il quotidiano.

 

  1. Una proposta di vita buona

Per i cristiani la via per testimoniare un nuovo umanesimo inizia dall’esistenza di tutti i giorni. Si tratta di condividere l’esperienza a loro familiare che l’incontro con Gesù e la vita con Lui nella comunità cristiana rende possibile un modo più conveniente di amare e generare, di lavorare e di riposare, di educare, di condividere gioie e dolori, di assumere la storia, di accompagnare e prendersi cura della fragilità, di promuovere la libertà e la giustizia... Papa Francesco ha identificato la dimensione sociale di questa testimonianza, parlando del compito di diventare un popolo: «diventare un popolo (…) richiede un costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia». Insomma, si tratta di vivere, in tutte le situazioni e circostanze dell’esistenza, una vera “cultura dell’incontro”.

  1. a) Vita sociale e costumi

La proposta di vita buona con cui i cristiani vogliono contribuire alla promozione di un nuovo umanesimo in grado di ridare un’anima a Milano e alle terre ambrosiane, non può prescindere dalla considerazione dell’humus culturale che caratterizza l’odierna società plurale e che Milano condivide, pur con tutta la sua peculiarità, soprattutto con le metropoli occidentali. Ci siamo prima riferiti agli stili di vita spensierati della “Milano da bere”. La formula è stata spazzata via dal grave travaglio seguito al crollo dei muri, con l’imporsi sulla scena, sia universale che locale, di popoli di tutti i continenti. Le culture e le civiltà sono diventate “meticce”. Nonostante questo fatichiamo a lasciare alle spalle tali stili di vita che continuano a impregnare le forme di esistenza personale e sociale. Persino la politica tende a vivere solo di sondaggi d’opinione. Si assiste al diffondersi di una modalità più scaltra e attraente di “pensiero unico” che, al di là della varietà dei consumi e delle oggettive maggiori possibilità di scelta, trasmette l’idea che “tutto si acquista e tutto si vende”.

All’origine di questo modello ci sono desideri di emancipazione, espressività e successo riferiti al conseguimento di gratificazioni immediate, secondo una logica del carpe diem che è figlia di sentimenti ambivalenti di onnipotenza e insicurezza. Sul piano antropologico questo humus culturale caratterizza l’uomo post-moderno, disincantato verso le grandi narrazioni e le ideologie convenzionali, che si accomoda nel proprio “io” narcisistico, più forte dei suoi dubbi che delle proprie certezze. Considerando i risvolti sociali di questo stato di cose è necessario soffermarsi su una concezione frammentata dell’inscindibile rapporto tra diritti e doveri, che deve essere alla base di buone leggi: lo si vede in modo clamoroso nelle questioni legate al diritto alla vita e agli affetti.

Infatti, ad un’esasperata percezione dei diritti individuali – ogni desiderio soggettivo è tendenzialmente considerato un diritto –spesso non corrisponde il riconoscimento dei doveri correlati – altrettanto essenziale per la vita in comune– e, in questo modo, si pretende che le leggi proteggano, sanzionino quando non favoriscano il diritto alla realizzazione di ogni genere di desiderio. In tal modo «al concetto di diritto umano, che ha di per sé valenza universale, si sostituisce l’idea di diritto individualista ».

Questo spiega il paradosso per cui una conclamata domanda di libertà finisca per impigliarsi in un reticolato sempre più fitto di leggi. Senza il legame organico tra diritti-doveri-leggi, la sacrosanta esigenza di giustizia e di eguaglianza – che comporta il combattere la corruzione, la tecnocrazia e il burocratismo – si trasforma in astrazione o finisce per cadere nell’ideologia. In questo contesto si comprende l’emarginazione dei corpi intermedi, favorita anche dall’esercizio attuale della politica.

Corpi intermedi che, a loro volta, non di rado rischiano di ridursi a corporazioni di difesa di interessi immediati. originariamente invece i corpi intermedi sono ambiti sociali in cui la tensione del popolo al bene comune funge da collante per rispondere a interessi legittimi. E questo proprio a partire dalla consapevolezza che nell’inter-esse (“essere in mezzo”) è sempre in gioco la vita in comune. Basti pensare a quanto poco è ancora sostenuta la famiglia – il corpo intermedio per eccellenza di ogni società – o alla crisi dei partiti politici, sentiti spesso come estranei, quando non nemici, del bene comune. Papa Francesco rivolgendosi al Parlamento Europeo il 25 novembre u.s. ha parlato di: «alcuni stili di vita un po’ egoisti, caratterizzati da un’opulenza ormai insostenibile e spesso indifferente nei confronti del mondo circostante, soprattutto dei più poveri. Si constata con rammarico un prevalere delle questioni tecniche ed economiche al centro del dibattito politico, a scapito di un autentico orientamento antropologico. L’essere umano rischia di essere ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare, così che – lo notiamo purtroppo spesso – quando la vita non è funzionale a tale meccanismo viene scartata senza troppe remore, come nel caso dei malati, dei malati terminali, degli anziani abbandonati e senza cura, o dei bambini uccisi prima di nascere».

Esiste una strada per proporre un nuovo umanesimo in grado di generare costumi che sconfiggano il “narcisismo” esasperato che sembra aver guadagnato tutta la scena? Esiste e consiste nell’affermare in parole ed opere che la persona è costitutivamente un io-in-relazione. Il nuovo umanesimo ha bisogno di uomini e donne in grado di narrare quella storia di legami che li fa essere se stessi.

Infatti, più che mai nell’odierna società è impossibile rispondere alla domanda chi sia l’uomo prescindendo dai suoi legami costitutivi: le polarità anima-corpo, uomo-donna, persona-comunità, individuo-società, famiglia-istituzione, storia-verità… sono semplicemente insuperabili. Vivendo, ogni uomo narra il dramma della propria esistenza – dramma viene dal greco drao, agire – il cui cuore è l’essere figlio chiamato a sua volta ad essere padre. Questo è il nucleo essenziale della biografia di ciascuno di noi. A questo proposito mi preme richiamare, ancora una volta, la centralità della famiglia. Per ogni uomo, infatti, in famiglia è possibile riconoscere e far effettiva esperienza del bene dell’essere in relazione. In famiglia siamo figli, fratelli, sposi, genitori… Nella famiglia le due relazioni (e differenze) costitutive –quella tra l’uomo e la donna e quella tra le generazioni – si fanno evidenti e aiutano tutti a sconfiggere la menzogna dell’uomo autarchico, del “narciso”. Il nostro tempo ha bisogno di toccare con mano la bellezza di un amore tra l’uomo e la donna che sia “per sempre”, pubblico e aperto alla vita. Il tessuto sociale ambrosiano è ricco di simili famiglie in cui si condividono le gioie, ci si sostiene nella avversità, ci si raduna nelle case per pregare e per incontri conviviali, ci si apre all’ospitalità, all’accoglienza e all’affido, si è particolarmente solidali nelle prove e ci si stringe numerosi con autentica pietas nell’ora della morte. La Chiesa ambrosiana è vicina, nella verità, alle famiglie ferite.

  1. b) Lavoro ed economia

In questi tempi non servono troppe parole per documentare anche nelle nostre terre la difficile situazione del lavoro e dell’economia. Le trasformazioni economiche e sociali a cui abbiamo fatto cenno ci hanno introdotto in uno scenario inedito circa le forme del lavoro con tutte le problematiche ad esso connesse (flessibilità dei ruoli e del percorso di lavoro, formazione, precariato e disoccupazione, soprattutto fra i giovani, immigrazione e welfare, concezione dell’imprenditoria e del sindacato, rapporto tra produzione e finanza). Taluni nel tessuto economico milanese riscontrano risorse promettenti per il mondo del lavoro legate, per esempio, all’industria della moda, del design, delle cultura e degli eventi. In ogni caso si rivela sempre più necessario lasciarsi interrogare dal nuovo e dalle sue conseguenze, che spesso implicano sacrificio, evitando uno sterile arroccamento su modelli di lavoro semplicemente destinati a scomparire. Milano, da sempre capitale italiana della finanza, ha assecondato la concezione pratica del mercato come “fatto di natura” e non “di cultura”, finendo così per sposare «le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo»

La crisi economico-finanziaria in cui siamo ancora immersi dovrebbe far riflettere sull’equivoco di fondo che sta alla base di una tale visione. Basti pensare, ad esempio, al peso che la perdita del lavoro ha nel determinare, spesso in tempi anche molto rapidi, lo scivolamento verso condizioni di povertà e marginalità anche estrema.

Un’indagine compiuta la notte dell’11 marzo 2013 sulle persone senza fissa dimora, nell’area di Milano Città, ha rilevato 531 persone in strada e 2106 in strutture di prima accoglienza. Per un totale, un anno e mezzo fa, di 2637 persone. La Milano delle imprese sociali, del non profit, salutare complemento della Milano della

produzione e della finanza, può indicarci nuove e feconde prospettive. La solidarietà e la sussidiarietà, che appartengono al Dna del cattolicesimo lombardo, hanno inventato modalità originali ed efficaci per affrontare e risolvere i più svariati bisogni sociali. A questo proposito fanno ben sperare le proposte di “nuovo welfare comunitario” che, con il concorso di istituzioni pubbliche e private e la libera iniziativa dei cittadini, riesce a superare le difficoltà delle forme tradizionali di welfare. Forse attraverso questa nuova forma di collaborazione sociale si potranno trovare vie percorribili per affrontare anche l’urgenza delle case popolari nelle nostre terre. Come ha insegnato Benedetto XVI nella Caritas in veritate la dimensione del gratuito deve allargare la ragione economica25. Nella prospettiva del nuovo umanesimo Papa Benedetto ricorda a tutti che «la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall’esterno e, dall’altro, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità». Il principio di gratuità correttamente inteso persegue il valore di un “lavoro ben fatto”, prima ancora del suo valore di scambio. Basti pensare a come i nostri artigiani rifinivano le parti, anche non visibili, dei loro manufatti.

  1. c) Educazione, cultura, arte e turismo

Un altro ambito decisivo per l’edificazione di un nuovo umanesimo è quello dell’educazione, naturalmente collegato ai luoghi della cultura e dell’arte e, quindi, del turismo. Il tempo trascorso a scuola, anche nei primi tirocini professionali e all’Università è decisivo, non solo quantitativamente, per i bambini, i ragazzi e i giovani che vengono accompagnati nella maturazione degli affetti e nell’apertura al mondo: imparano ad amare e a lavorare. Il passato delle terre ambrosiane vanta una ricca e solida tradizione educativa – basti pensare alle opere dei due arcivescovi Borromeo, con la promozione della dottrina cristiana e la creazione di apposite istituzioni culturali – ma anche il presente può fare affidamento su una vasta rete di scuole, accademie, università, istituti di ricerca di alto livello e di fama internazionale, come sui numerosi musei ed istituzioni culturali che popolano la città di Milano e dintorni. In questo contesto abbiamo il dovere di affermare a voce alta e chiara che in una società plurale, veramente democratica, la libertà di educazione, per il bene stesso della cultura, dovrà trovare realizzazione. I sacrifici, fin nelle risorse economiche, che tante famiglie affrontano per sostenere scuole e licei nati dall’iniziativa sociale, spesso di alta qualità, devono essere adeguatamente sostenuti dalle istituzioni. Inoltre la scuola italiana, come gli stessi operatori scolastici continuamente ribadiscono, ha bisogno di un forte rinnovamento nei contenuti dell’insegnamento. È un’impresa particolarmente difficile, sia a causa della frammentazione dei saperi sia a causa della configurazione plurale della nostra società in cui si confrontano diverse mondovisioni. L’impegno, già in atto da tempo in questo ambito, non sembra però aver raggiunto lo scopo. Troppo spesso la scuola non favorisce a sufficienza la “cultura dell’incontro” di cui parla Papa Francesco. Troppo spesso vien meno al suo irrinunciabile compito educativo imboccando la via di una “neutralità” del tutto illusoria. Il riferimento al sistema scolastico mette in campo l’intero ambito della cultura. In proposito occorre recuperare la consapevolezza che – come disse in un celebre discorso san Giovanni Paolo II – «il significato essenziale della cultura consiste nel fatto che essa è una caratteristica della vita umana come tale. L’uomo vive di una vita veramente umana grazie alla cultura (...)La cultura è un modo specifico dell’esistere e dell’essere dell’uomo».

Un test positivo della aumentata “sensibilità” culturale viene dal peso che l’arte, nelle sue diverse forme, sta assumendo nel nostro territorio. Grazie ad essa Milano sta scoprendo la sua vocazione di città turistica: fanno ben sperare i nuovi percorsi nati anche in vista dell’Expo. Si possono citare, a titolo esemplificativo: Milano cantieri dell’arte; Milano archeologica; l’itinerario delle Basiliche; dei Sacri Monti, delle Chiese del piano Montini.

  1. d) Fragilità ed emarginazione

Non possiamo, infine, non soffermarci sul mondo della fragilità e dell’emarginazione più presente che mai nell’oggi della città e che tante opere ha originato nella nostra storia, opere che permangono nel tempo e si rinnovano in altre forme espressive della Milano “patria del buon cuore”. Mantenere la propria fisionomia e, nello stesso tempo, saper accogliere l’altro è un binomio che ha caratterizzato e caratterizza la società lombarda nel quadro ideale dell’umanesimo. In un certo senso, la proposta di vita buona incontra in questo ambito una sua necessaria e fondamentale verifica. Gli studiosi hanno identificato nella cosiddetta “urbanizzazione della povertà” una tendenza caratteristica delle nostre attuali società. In altri termini si vuol evidenziare che le grandi città metropolitane concentrano ampie zone di esclusione e di marginalizzazione.

Come si può facilmente supporre, tra i più colpiti da questa situazione sono gli immigrati, dal momento che i processi di integrazione incontrano ancora parecchie difficoltà anche istituzionali. A dire degli esperti sono la frammentazione, la vulnerabilità e l’insicurezza a caratterizzare nella nostre città metropolitane quelli che oramai sono riconosciuti come i “nuovi ceti popolari”. Ma qual è la situazione di Milano? oltre al fatto che la maggioranza di coloro che ricevono assistenza per la loro condizione indigente sono stranieri – anche se il numero di italiani è in continuo aumento – e alla necessità di riconoscere che oggi è più difficile di dieci anni fa uscire dalla povertà, una caratteristica distingue la nostra città da altre metropoli nel mondo. In essa la povertà e le situazioni di esclusioni sono distribuite “a macchia di leopardo”: se da una parte non si può parlare di veri e propri “ghetti” (come le favelas, le bidonvilles, gli slums, le villas miserias), dall’altra povertà ed esclusione si trovano, e in taluni quartieri in forma massiccia, un po’ dappertutto nella nostra città.

La folta e ricca rete di opere sociali e di carità presenti nel nostro territorio, molte delle quali legate in vario modo alla vita della comunità cristiana, è già realizzazione di nuovo umanesimo. A dieci anni dalla sua scomparsa, vogliamo citare soltanto un nome: Fratel Ettore, figura che ha commosso tutta la città e non solo. Queste opere di condivisione necessitano, tuttavia, di un serio approfondimento educativo e culturale a cominciare dalle migliaia di volontari che le sostengono.

Bisogna “pensare” il nesso tra carità e cultura. A dieci anni dalla scomparsa, vogliamo citare soltanto un nome: Fratel Ettore, figura che ha commosso tutta la città e non solo. Queste opere di condivisione necessitano, tuttavia, di un serio approfondimento educativo e culturale a cominciare dalle migliaia di volontari che le sostengono. Bisogna “pensare” il nesso tra carità e cultura.

 

  1. Dalla frammentazione all’unità della città metropolitana

Dalla descrizione, per forza di cose sommaria, che abbiamo proposto appare un’immagine di Milano e delle terre ambrosiane decisamente frammentata. È questa – la frammentazione, che finisce per colpire anche il singolo – sicuramente una delle note caratteristiche della nostra epoca. Come affrontarla?

  1. La figura del poliedro

Per ben comprenderla ci viene in aiuto l’immagine che Papa Francesco ha suggerito per indicarci un percorso di lavoro in vista del bene comune. Scrive nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium il Santo Padre: «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il polie- dro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti».

Il poliedro è un corpo solidamente unito, anche quando è composto da facce tutte tra loro diverse. Dalla frammentazione, infatti, non si esce attraverso l’annullamento delle diversità – e per comprenderlo l’odierna società plurale diventa un’occasione privilegiata– bensì attraverso una ricerca del bene comune che sappia “incorporare” veramente tutti.

 

  1. Una proposta integrale

Tale ricerca si attua nella proposta integrale – e non settoriale – di una vita buona, una proposta unificante e rispettosa di ogni diversità. Ma dove si può percepire questa capacità unificante di vita sociale, lavoro, cultura e attenzione alle situazioni di fragilità? Nella vita di chi è disposto ad esporre direttamente se stesso per il bene di tutti. Nel linguaggio cristiano questi sono i testimoni.

L’auto-esposizione e la testimonianza si offrono a tutti come strada percorribile per mostrare la convenienza della fede o della ricerca di senso. Penso in proposito all’importanza dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso e interculturale. Sono numerosi anche oggi le donne e gli uomini che in modo anonimo e anche pubblico vivono questa capacità costruttiva di vita buona. I cristiani cercano di lasciar trasparire nella loro vita la pienezza della verità dell’humanum che hanno ricevuto, per grazia e non per merito, dalla rivelazione in Cristo Gesù e che, in forza del dono dello Spirito, offrono a tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi. Se c’è qualcosa a cui essi non potranno mai rinunciare, senza rinunciare a se stessi, è proprio la testimonianza di Gesù come Vangelo dell’umano.

  1. Per l’edificazione della città metropolitana

La testimonianza è per i cristiani la modalità privilegiata per incontrare ogni uomo. Attraverso una paziente e quotidiana testimonianza i cristiani vogliono condividere con tutti gli uomini e le donne una tenace proposta di amicizia civica, tesa a concorrere all’edificazione di un nuovo umanesimo in grado di costruire la nuova città metropolitana. Intendiamo farci promotori, insieme a chi lo vorrà, di luoghi stabili di dialogo e di confronto, che si offrano a tutti come ambiti in cui cercare insieme quel compromesso nobile che rende più ricca e pacifica la vita sociale. Vorremmo, per questo, proporre in un futuro prossimo una iniziativa dal titolo, ancora provvisorio, Dialoghi di vita buona, occasioni emblematiche di ascolto, di lavoro e di condivisione con quanti lo vorranno.

In questo orizzonte non c’è dubbio che Expo 2015 costituisca un’occasione privilegiata, da non perdere. Infatti, «la questione alimentare ha un risvolto antropologico fondamentale, che spinge a riconoscere l’individuo come “io-in-relazione”, come apertura che ci vincola nella responsabilità reciproca e nel rispetto del creato. Questa visione ci aiuta a comprendere la “grammatica dell’umano”, in cui sono in gioco le capacità e la possibilità stessa di fare, far fare e comunicare esperienza, di produrre socialità, di generare vita comune». Con il 1 gennaio 2015 Milano e gli altri 133 comuni che componevano la sua provincia daranno ufficialmente vita alla “Città metropolitana di Milano”. Un primo passo, anche dal punto di vista amministrativo, per riconoscere e operare su un dato di fatto: tutte le terre ambrosiane costituiscono già da ora la metropoli di Milano. E questo dato di fatto, lungi dallo spegnere la loro articolata ricchezza, la pone in pieno valore. Nel frammento infatti brilla il tutto che apre alla comunicazione e all’appassionato lavoro comune.

«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). La bellezza della fede testimoniata in tutti gli ambienti dell’umana esistenza è il dono più prezioso che i cristiani possano offrire ai propri fratelli uomini. Nel pieno rispetto della società plurale, essi intendono offrirlo a tutti, certi di alimentare così quell’amicizia civica che è terreno di coltura del nuovo umanesimo

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