PERCHÉ SONO ANCORA NELLA CHIESA

Published in Missione Oggi

Card. Joseph Ratzinger

 

Una premessa

Voglio sottolineare un... aspetto di questo volume. Esso non vuole affrontare solo problemi di cristiani o di cattolici. «La Chiesa non è fine a se stessa». Questa è una convinzione che caratterizza l'intera mia ricerca e pensiero. Una Chiesa che pensa solo a se stessa e parla e agisce solo al proprio interno finirebbe col tradire radicalmente la sua natura. La Chiesa esiste affinché vi sia spazio per l'alleanza tra Dio e l'uomo. Essa esiste per aprire nel mondo la porta a Dio; esiste per «gli altri». Il suo compito è quello di condurli all'incontro con Cristo e con il Dio vivente. Per questo ricorre in tutti i contributi anche il tema di fede e ragione. Tutto è scritto prestando ascolto alle domande dell'uomo d'oggi, pensando in sintonia con loro, tutto è caratterizzato dallo sforzo di lasciar intravedere la ragionevolezza della fede per noi stessi ed anche per coloro che non condividono la nostra fede. 
(da Joseph Ratzinger, La Comunione nella Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pag.7)

Perché sono ancora nella chiesa

Fra i difensori della realtà mondana e la reazione di chi è troppo attaccato all'esteriorità e al passato, fra il disprezzo della tradizione e la fedeltà esagerata alla lettera non sembra esistere alcuna possibilità di compromesso; l'opinione pubblica assegna inesorabilmente a ciascuno il proprio posto, ha bisogno di posizioni chiare e precise e non può accettare sfumature di sorta: chi non è per il progresso è contro di esso; o si è conservatori oppure progressisti. Grazie a Dio la realtà è naturalmente diversa: ancor oggi esistono, tranquilli e quasi senza voce, coloro che credono con tutta semplicità e che anche in questo momento di confusione realizzano la vera missione della Chiesa: l'adorazione di Dio e la sopportazione della vita quotidiana sulla base della parola del Signore. Costoro però non quadrano bene nell'ideale di Chiesa che ci si prefigge e si continua perciò a lasciarli in disparte. La vera Chiesa dunque non è invisibile, ma profondamente nascosta dalle potenti manovre degli uomini. 

Nel nostro sforzo per giungere ad una comprensione della Chiesa, sulle tracce del Concilio che per questo si è battuto accanitamente, noi ci siamo avvicinati tanto a questa Chiesa, che non riusciamo più a vederla nel suo complesso; le prime case ci impediscono di vedere la città, i primi alberi non ci consentono di abbracciare con lo sguardo tutto il bosco. La situazione in cui la scienza ci ha condotto a proposito di molti aspetti della realtà, sembra ora ripetersi anche a riguardo della Chiesa. Noi vediamo il particolare così da vicino e così dettagliatamente, che non riusciamo più a cogliere il tutto: l'aumento di esattezza significa qui diminuzione di verità. Quando osserviamo al microscopio un pezzetto di albero, ciò che vediamo è incontestabilmente giusto, ma potrebbe ugualmente nasconderci una parte di verità se ci facesse dimenticare che la singola cosa non è soltanto singola, ma esiste in un tutto, il quale, anche se non è visibile al microscopio, è ugualmente vero, anzi più vero della cosa presa isolatamente in se stessa. Ma lasciamo da parte i paragoni. L’epoca presente con le sue particolari prospettive ha influenzato il nostro occhio in un determinato senso, cosicché noi oggi praticamente guardiamo la Chiesa soltanto dal punto di vista dell'efficienza, preoccupati di scoprire che cosa possiamo fare di essa. Gli sforzi prolungati per riformare la Chiesa hanno alla fine fatto dimenticare tutto il resto. Per noi oggi essa è soltanto un'organizzazione che si può trasformare e il nostro grande problema è quello di determinare quali sono i cambiamenti che la rendono «più efficiente» per i singoli scopi che ciascuno si propone. Affondato in questa problematica, il concetto di riforma ha subito nella coscienza dei più profonde degenerazioni, che lo hanno privato del suo nucleo centrale. Infatti nel suo significato originale la riforma è un processo spirituale che, essendo del tutto simile alla conversione, rientra nel cuore stesso del fenomeno cristiano: soltanto attraverso la conversione si diventa cristiani, ciò vale per tutta la vita del singolo, come per tutta la storia della Chiesa. Anche questa infatti rinnova la propria vita soltanto convertendosi continuamente al Signore, evitando di chiudersi in se stessa e nelle proprie care abitudini, così facilmente contrarie alla verità. Quando la riforma viene strappata da questo contesto, dallo sforzo e dal desiderio di conversione, quando ci si aspetta la salvezza soltanto dal cambiamento degli altri, dalla trasformazione delle strutture, da sempre nuove forme di aggiornamento, si può forse giungere a qualche utilità immediata, ma nel complesso la riforma diventa una caricatura di se stessa, capace di cogliere della Chiesa soltanto le realtà secondarie e meno importanti. 

Proprio a proposito delle verità principali diventa sempre più difficile riconoscere i limiti fra la spiegazione e la negazione. Ad esempio che cosa significa propriamente «risorto dai morti»? Chi sono quelli che credono, quelli che spiegano, quelli che negano? E mentre si discute fino a dove possono arrivare i limiti della spiegazione, si perde sempre più di vista il volto di Dio. La «morte di Dio» è un processo del tutto reale, che penetra oggi profondamente all'interno della Chiesa. Dio muore nella cristianità, così almeno sembra. Infatti là dove la risurrezione diventa l'esperienza di una missione sentita come superata, Dio non è più presente con la sua opera. 

Dobbiamo ammetterlo senza mezzi termini: il Vaticano I aveva descritto la Chiesa come il «signum levatum in nationes», come il grande vessillo escatologico che, visibile anche da lontano, raccoglieva gli uomini attorno a sé. Secondo il Concilio del 1870 essa era il segno sperato da Isaia (11,12), la bandiera che anche da lontano tutti potevano riconoscere e che a tutti indicava chiaramente la via da percorrere. Con la sua meravigliosa diffusione, la sua profonda stabilità, essa rappresentava il vero miracolo del cristianesimo, la miglior prova della sua origine divina di fronte al mondo e alla storia. Oggi sembra vero tutto il contrario: non più una comunità meravigliosamente diffusa, ma un'associazione stagnante, che non è stata capace di superare veramente i confini dello spirito europeo e medievale; non più profonda santità, ma un insieme di debolezze umane, una storia vergognosa ed umiliante, alla quale non è stato risparmiato nessun scandalo, dalle persecuzioni degli eretici e dai processi contro le streghe, dalla persecuzione degli Ebrei e dall'asservimento delle coscienze fino all'autodogmatizzazione e alla resistenza contro l'evidenza scientifica,cosicché chi appartiene a questa storia non può fare altro che coprirsi vergognosamente il volto; infine non più stabilità incrollabile, ma accondiscendenza a tutte le correnti della storia, al colonialismo, al nazionalismo, e recentemente anche il tentativo di venire a patti con il marxismo e, dove possibile, di mimetizzarsi con esso... 
Stando così le cose, si ha l'impressione che la Chiesa non sia più il segno che invita alla fede, ma addirittura l'ostacolo principale alla sua accettazione. 

«Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio», questo è lo slogan che dopo tante delusioni si preferisce adottare nei confronti delle autorità ecclesiastiche. Il principio sacramentale non sembra più sufficientemente chiaro; soltanto il controllo democratico appare degno di fede; in fondo anche lo Spirito Santo è un po' troppo inafferrabile. 

Una Chiesa che, contro tutta quanta la propria storia e la propria natura, venga considerata soltanto politicamente, non ha alcun senso, e la decisione di rimanere in essa, se è puramente politica, non è leale, anche se si presenta come tale. Però di fronte alla situazione presente come si può giustificare la permanenza nella Chiesa? In altri termini: la scelta in favore della Chiesa per avere senso deve essere spirituale; ma su quali motivi può essa oggi far leva? 

Approfondiamo questo pensiero rifacendoci ad un esempio, con il quale i Padri nutrirono la loro meditazione sul mondo e sulla Chiesa. Essi spiegarono che nel mondo materiale la luna è l'immagine di ciò che la Chiesa rappresenta per la salvezza nel mondo spirituale. 

Nella sua fugacità e nella sua rinascita la luna rappresenta il mondo terreno degli uomini, questo mondo che è continuamente condizionato dal bisogno di ricevere e che trae la propria fecondità non da se stesso, ma dal sole; rappresenta lo stesso essere umano, quale si esprime nella figura della donna, che concepisce ed è feconda in forza del seme che riceve. 
I Padri hanno applicato il simbolismo della luna alla Chiesa soprattutto per due ragioni: per il rapporto luna-donna (madre) e per il fatto che la luna non ha luce propria, ma la riceve dal sole, senza del quale essa sarebbe completamente buia. La luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di un altro. È tenebre e nello stesso tempo luce; pur essendo di per sé buia, dona splendore in virtù di un altro di cui riflette la luce. Proprio per questo essa simboleggia la Chiesa, la quale pure risplende, anche se di per sé è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù Cristo, cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non è che un'altra terra), è ugualmente in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - «la luna narra il mistero di Cristo» (Ambrogio, Exameron IV 8,23). 

Tuttavia in questa nostra epoca di viaggi lunari viene spontaneo approfondire questo paragone, che, confrontando la concezione fisica con quella simbolica, mette meglio in evidenza la nostra situazione specifica rispetto alla realtà della Chiesa. La sonda lunare e l'astronauta scoprono la luna soltanto come landa rocciosa e desertica, come montagne e come sabbia, non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto deserto, sabbia e rocce. E tuttavia, per merito di altri ed in funzione di altri ancora, essa è pure luce e tale rimane anche nell'epoca dei voli spaziali. È dunque ciò, che in se stessa non è. Pur appartenendo ad altri, questa realtà è anche sua. Esiste una verità fisica ed una simbolico-poetica, una non elimina l'altra. Ciò non è forse un'immagine esatta della Chiesa? Chi la esplora e la scava con la sonda spaziale scopre soltanto deserto, sabbia e terra, le debolezze dell'uomo, la polvere, i deserti e le altezze della sua storia. Tutto ciò è suo, ma non rappresenta ancora la sua realtà specifica. Il fatto decisivo è che essa, pur essendo soltanto sabbia e sassi, è anche luce in forza di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo e la qualifica più di qualsiasi altra cosa, anzi la sua caratteristica è proprio quella di non valere per se stessa, ma solo per ciò che in essa non è suo, di esistere in qualcosa che le è al di fuori, di avere una luce, che pur non essendo sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è ‘luna' - mysterium lunae - e come tale interessa i credenti perché proprio così esige una costante scelta spirituale. 

Dopo la traduzione della liturgia della Messa, avvenuta in seguito all'ultima riforma, recitando il testo prescritto incontravo ogni volta una difficoltà, che mi sembra chiarire ulteriormente l'argomento di cui ci stiamo occupando. Nella traduzione del Suscipiat si dice: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio... per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa». Io ero sempre tentato di dire «e di tutta la nostra santa Chiesa». Ricompare qui tutto il nostro problema ed il cambiamento operatosi in quest'ultimo periodo. Al posto della sua Chiesa è subentrata la nostra, e con essa le molte Chiese; ognuno ha la sua. Le Chiese sono diventate imprese nostre, di cui ci vantiamo oppure ci vergogniamo, piccole e innumerevoli proprietà private disposte una accanto all'altra, Chiese soltanto nostre, nostra opera e proprietà, che noi conserviamo o trasformiamo a piacimento. Dietro alla «nostra Chiesa» o anche alla «vostra Chiesa» è scomparsa la «sua Chiesa». Ma è proprio e soltanto questa che interessa; se essa non esiste più, anche la ‘nostra' deve abdicare. Se fosse soltanto nostra, la Chiesa sarebbe un superfluo gioco da bambini. 

Nelle considerazioni precedenti è già implicita la risposta all'interrogativo che ci siamo posto all'inizio: io sono nella Chiesa perché credo che, oggi come prima ed indipendentemente da noi, dietro alla «nostra Chiesa» vive la «sua Chiesa» e che io non posso stare vicino a lui se non rimanendo nella sua Chiesa. Io sono ancora nella Chiesa perché, nonostante tutto, credo che essa non è assolutamente nostra, ma 'sua'. In termini molto concreti: è la Chiesa che, nonostante tutte le debolezze umane in essa esistenti, ci dà Gesù Cristo; soltanto per mezzo suo io posso ora riceverlo come una realtà viva e potente, che mi arricchisce ed insieme mi impone dei doveri. Henri de Lubac ha espresso così questa verità: «Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la Chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo?... Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l'efficacia del vangelo e della fede nella sua divina persona?... 'Senza Chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga, disgregarsi, scomparire'. E che cosa sarebbe l'umanità se le si togliesse Cristo?». A fondamento di qualsiasi altra considerazione dobbiamo porre questa verità molto elementare: qualunque sia o sia stato il grado di infedeltà della Chiesa, per quanto sia vero che essa abbia continuamente bisogno di misurarsi e confrontarsi con Cristo, fra Gesù e la Chiesa non c'è alcun contrasto decisivo. E' per mezzo della Chiesa che egli, superando le distanze della storia, ci parla oggi direttamente e rimane in mezzo a noi come nostro maestro e Signore, come fratello che ci rende fratelli. Donando a noi Cristo Gesù, rendendolo vivo e presente in mezzo a noi, rigenerandolo continuamente nella fede e nella preghiera degli uomini, la Chiesa dà all'umanità una luce, un sostegno ed un conforto tali, che senza di essi il mondo non sarebbe più concepibile. Chi desidera la presenza di Cristo in mezzo all'umanità, la può trovare soltanto nella Chiesa, mai contro di essa. 
Da tutto ciò segue logicamente l'altro motivo: io sono nella Chiesa per le stesse ragioni per cui sono cristiano. Non si può credere da soli. La fede è possibile soltanto in comunione con altri credenti. Per sua stessa natura essa è forza che unisce. Il suo vero modello è la realtà della Pentecoste, il miracolo di comprensione che si instaura fra uomini di provenienza e di storia diverse. Questa fede o è ecclesiale o non è alcunché. Inoltre come non si può credere da soli, ma soltanto in comunione con altri, così non si può aver la fede per propria iniziativa o invenzione, ma soltanto se c'è qualcuno che mi comunica questa capacità, la quale non è in mio potere, ma mi precede e mi trascende. Una fede che fosse frutto della mia invenzione sarebbe una contraddizione in termini, perché mi potrebbe dire e garantire soltanto ciò che io già sono e so, ma non sarebbe mai in grado di superare i limiti del mio io. Perciò una Chiesa, una comunità che si facesse da sé, che fosse fondata soltanto sulla propria grazia, sarebbe una contraddizione in termini. La fede esige una comunità che abbia autorità, che sia superiore a me, e non una mia creazione, lo strumento e la realizzazione dei miei propri desideri. 

Io rimango nella Chiesa perché soltanto la fede della Chiesa redime l'uomo. Può sembrare una frase molto tradizionale, dogmatica e irreale, ma è invece del tutto obiettiva e realistica. Nel nostro mondo pieno di inibizioni e di frustrazioni il desiderio di redenzione è riapparso in tutta la sua primordiale veemenza. Gli sforzi di Freud e di C.G. Jung non sono altro che tentativi di dare una redenzione a gente che si sente irredenta. Partendo da altre premesse, Marcuse, Adorno, Habermas continuano, alla loro maniera, a cercare e ad annunciare la redenzione. Anche il problema di Marx è in fondo un problema di redenzione. Quanto più l'uomo diventa libero, illuminato e potente, tanto più il desiderio di redenzione lo tormenta, tanto più si ritrova misero e schiavo. Marx, Freud, Marcuse hanno tutti in comune la ricerca della redenzione, l'aspirazione verso un mondo senza dolori, malattie e miserie. Il grande ideale della nostra generazione è una società libera dalla tirannia, dal dolore e dall'ingiustizia; a questo mirano le turbolente esplosioni dei giovani, mentre cresce il risentimento dei vecchi nel vedere che la tirannia, l'ingiustizia e il dolore continuano imperturbati. La lotta contro il dolore e l'ingiustizia è senz'altro cristiana, ma il pensare che attraverso le riforme sociali o l’eliminazione del potere e dell’ordinamento giuridico si possa subito raggiungere un mondo libero dal dolore, è una vera e propria eresia, una profonda ignoranza dell’uomo e della sua natura. 

E veniamo all’ultimo punto. Un uomo vede soltanto nella misura con cui ama. Certo c’è anche la chiaroveggenza della negazione e dell’odio. Essi però possono vedere soltanto ciò che è loro conforme: gli aspetti negativi. Ma non sono in grado di costruire. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla. Chi non si inoltra almeno per un po' e con sentimenti benevoli sulla via della fede, chi non accetta di fare un'esperienza personale della Chiesa e non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell'amore, non scoprirà altro che motivi di stizza e di rabbia. Il rischio dell'amore è condizione preliminare per giungere alla fede. Chi lo osa, non ha bisogno di nascondersi nessuna delle debolezze della Chiesa, perché scopre che essa non si riduce soltanto a queste, perché si accorge che accanto alla storia degli scandali c'è anche quella della fede forte ed intrepida, incarnatasi lungo tutti i secoli in figure meravigliose, come Agostino, Francesco d'Assisi, il domenicano Las Casas infaticabile apostolo degli Indios, Vincenzo de' Paoli e Giovanni XXIII. Chi affronta questo rischio dell'amore scopre che la Chiesa ha proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter essere dimenticato. Anche l'arte, sorta sotto l'impulso e l'ispirazione del suo messaggio e visibile ancor oggi in opere impareggiabili, diventa per lui una testimonianza di verità: ciò che si tradusse in espressioni così nobili non può essere soltanto tenebre. La bellezza delle grandi cattedrali, l'armonia della musica scaturita al calore della fede, la solenne dignità della liturgia ecclesiastica, la stessa realtà della festa che non si può fare, ma soltanto accettare, l'organizzazione dell'anno liturgico, nel quale si fondono insieme l'ieri e l'oggi, il tempo e la eternità - tutte queste cose non sono, a mio avviso, casi fortuiti e insignificanti. Il bello è lo splendore del vero, ha detto Tomaso d'Aquino, e potremmo aggiungere che l'offesa del bello è l'autoironia del vero perduto. Le espressioni, nelle quali la fede ha saputo tradursi lungo i secoli della sua storia, sono testimonianza, e conferma della sua verità. 

Una cosa è comunque certa, che l’amore non è né statico, né acritico. L’unica possibilità che abbiamo di cambiare in senso positivo un altro uomo è proprio quella di amarlo, trasformandolo lentamente da ciò che è in ciò che può essere. Non diversamente avviene per la Chiesa. Basta guardare alla storia più recente: durante il rinnovamento liturgico e teologico della prima metà di questo secolo è maturato un vero movimento di riforma che ha portato a trasformazioni positive. Ciò fu possibile soltanto perché sorsero uomini, che amarono la Chiesa con cuore attento e vigilante, con spirito critico, capace di cogliere i segni dei tempi, e che furono disposti a soffrire personalmente per essa. 
(da Joseph Ratzinger, Perché sono ancora nella Chiesa, in H.U.von Balthasar-Joseph Ratzinger, Due saggi. Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Queriniana, Brescia, 1972, pagg.51-71)

 

 

 

Last modified on Thursday, 05 February 2015 16:35

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