Riprendere l’annuncio della Buona Novella…
L’espressione Rinnovata evangelizzazione”, pur essendo stata anticipata già durante il pontificato di Paolo VI (cf. Evangelii Nuntiandi, 2, dove si parla di “nuovi tempi d’evangelizzazione”), è balzata alla ribalta della riflessione teologico-pastorale negli anni ’80, grazie specialmente a Giovanni Paolo II, che ne ha fatto un punto focale dei suo magistero, sin dal marzo 1983, quando, parlando ai vescovi del CELAM, invocò una evangelizzazione “nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nelle sue espressioni”. Da quel momento il papa ha parlato, a più riprese, di “seconda evangelizzazione” di “rinnovata opera di evangelizzazione”, di “nuova implantatio evangelica”, di “gigantesca opera di evangelizzazione del mondo moderno”, di “nuova evangelizzazione” e, in particolare, di “nuova età di evangelizzazione in Europa”, affermandone l’urgenza e chiarendone il significato: “Urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali” (Christifideles laici, 34).
La nuova evangelizzazione consiste, dunque, nel restaurare, talvolta persino nel ricostruire, il “tessuto cristiano” della Chiesa e della società – profondamente mutata rispetto al passato- in cui essa vive. La comunità ecclesiale, secondo il papa polacco, saprà rivolgere l’annuncio evangelico alla nuova società europea, in modo nuovo e significativo per gli uomini di oggi, nella misura in cui riuscirà ad autorievangelizzarsi. In questo senso la nuova evangelizzazione rappresenta innanzitutto una sorta di cartina al tornasole per verificare la radicalità evangelica della Chiesa. Per Giovanni Paolo II la nuova evangelizzazione deve prima far rinascere le comunità ecclesiali, la cui vitalità si è sopita e deve riportarle ad una fede matura, che si alimenti dell’incontro con Cristo e che si trasformi in un’esistenza autenticamente cristiana, incentrata sulla carità evangelica e sostenuta dallo Spirito dell’Amore. Solo dopo aver rievangelizzato se stessa, la Chiesa potrà proiettare la luce del Vangelo sui segni dei tempi che richiedono d’essere interpretati e risolti, e sarà capace di permeare di senso cristico le molteplici realtà umane che anelano, oggi più di prima, di essere redente: la dignità della persona, il diritto inalienabile dei piccoli e dei deboli della terra alla vita, i fondamentali momenti vitali ed esistenziali dell’uomo (nascita, crescita, malattia, morte), la famiglia, l’ansia e le speranze dei giovani, il lavoro e l’economia, l’impegno politico, le nuove povertà del mondo contemporaneo, il bisogno di pace, la cultura e le culture, il crollo dei sistemi ideologici, la società intera e la sua vita (cf. ChL, cap. III).
Importante quanto complesso appare, tra questi segni dei tempi, la secolarizzazione che, talvolta, in molte zone d’Europa, si caratterizza non solo come diminuzione quantitativa del numero dei cristiani praticanti, ma anche e soprattutto come uno scadimento qualitativo dello stile di vita dei cristiani. Una tale secolarizzazione “qualitativa “convive spesso, in clima di grave smarrimento e confusione, con una religione “dello scenario”, o “dei comuni valori”, di cui parlano oggi alcuni sociologi: una religione funzionale ai bisogni dell’uomo contemporaneo, ma che non possiede più il senso della trascendenza-vicinanza di Dio, dell’adorazione e della lode, della docile e serena dipendenza dalla volontà del Signore. Insomma, una religione del gusto, che accetta ciò che conviene e piace, ma rifiuta tutto il resto. In tale orizzonte è palese la crisi dei tradizionali canali di trasmissione della fede, ancora attivi sino a qualche decennio fa — almeno in alcune zone d’Europa — in seno alla società civile come nelle comunità ecclesiali: la famiglia, gli ambiti di lavoro, la cultura comune, le istituzioni sociali e quelle ecclesiali, la parrocchia intesa come vera “fontana del villaggio”. Realtà queste un tempo ricche di riferimenti religiosi e sostenute dal credo cristiano, fedelmente custodito e trasmesso da generazione a generazione, in forma di autentica iniziazione alla vita di fede, ma che oggi, per fattori sia esterni sia interni alle comunità ecclesiali, hanno perduto la loro efficacia di fronte alle nuove situazioni in cui il Vangelo deve risuonare. In tal senso l’esperienza cristiana persiste sì nella società secolarizzata, ma dimenticando la sua identità, la sua autentica valenza redentrice, i suoi contenuti evangelici.
Avviene così che la fede nel Dio di Gesù Cristo è ridotta ad una serie di valori umani e a un conato di integrità etica, e a niente di più. Come si vede, si tratta di situazioni nuove, che dipingono il volto di un’Europa che sembra cambiata — o, come si dice, postcristiana — e che evidenziano un inedito iato tra comunità ecclesiale e società. Situazioni nuove che la Buona Novella deve rivisitare: ecco perché si parla di nuova evangelizzazione! Infatti, la seconda evangelizzazione — o la terza o la quarta che dir si voglia è tale non solo perché si pone in continuazione con la prima evangelizzazione attuata duemila anni fa; o perché attinge ad un nuovo Vangelo o fa conoscere altre verità su Cristo. Il Vangelo non si piega a nessun tipo di trasformismo; è sempre l’unico Vangelo di Cristo e costituisce ancora la novità della salvezza per gli uomini di tutti i tempi. Il Vangelo è la Novità per antonomasia e si sottrae prodigiosamente all’usura protervia dei tempo che, solitamente, opacizza ciò che è nuovo rendendolo vecchio. L’evangelizzazione è nuova appunto quando riesce ad esprimere la novità perenne del Vangelo, pure in un contesto di realtà inedite e davanti a interlocutori nuovi. Essa è la Lieta Notizia di sempre: “Dio ti ama, Cristo venuto per te!” (Sinodo Europeo, Dichiarazione, 3). Né possono essere altri, rispetto al passato, gli interpreti della n.e., Scelti per collaborare il Cristo: gli annunciatori del Risorto sono sempre i suoi discepoli, che, con impegno convinto e rinvigorito, si rinnovano come comunità e si pongono davanti al mondo quali testimoni della Vita nuova, della Vita dello Spirito e nello Spirito. Questi attori, guidati dalla sapiente regia dello Spirito della Verità, non sono solo i fedeli laici, forti della loro “indole secolare” (cf. Lumen gentium, 31), né sono solo i presbiteri, cui pure si riconosce il ruolo di “primi nuovi evangelizzatori” (cf. Pastores dabo vobis, 2). Interpreti della nuova evangelizzazione nell’Europa contemporanea sono piuttosto tutti coloro che, rigenerati dallo Spirito dei Crocifisso-Risorto, formano la Chiesa: è la comunità ecclesiale — comunione di persone diverse, ma vincolate reciprocamente e ordinatamente nell’unità dello Spirito santo — il vero soggetto della nuova evangelizzazione E’ la Chiesa tutta che realizza la rievangelizzazione, “ad intra” e “ad extra”. La sua stessa storia può ben leggersi come storia di una permanente evangelizzazione: storia del Vangelo che s’incarna, storia di evangelizzatori che annunciano la Novità salvifica.
… sulle orme di Pietro e di Paolo.
A questo punto appare evidente che la nuova evangelizzazione dell’Europa contemporanea non può ridursi a un “risanamento”etico previamente pianificato, secondo le esigenze del momento, da esperti osservatori ed operatori sociali. Essa, piuttosto, è realizzata da persone che si rendono disponibili, senza riserve, a testimoniare la novità redentrice dei Risorto di fronte a coloro che, pur avendola già sperimentata, l’hanno dimenticata e davanti a coloro che, non essendo riusciti ancora a recepirne l’annuncio, non la conoscono.
E’ il compito anche e soprattutto di coloro che continuano la missione evangelizzatrice, che fu prima di Cristo stesso e poi dei Dodici e dei loro più intimi collaboratori: i presbiteri “apostoli per vocazione ” (cf. Rm 1, 1 ).E’ proprio dei presbiteri, in seno alla comunità, l’annuncio del Vangelo e la presidenza nella celebrazione dei sacramenti, la quale fonda pure la loro irrinunciabile e insurrogabile presidenza nella carità pastorale. Questi ministeri del presbitero non sono separati e giustapposti, ma intimamente correnti. Per cui i sacramenti — soprattutto l’Eucarestia, “[ ... la quale] si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione” (Presbyterorum ordinis, 5) –, che proclamano e ripresenzializzano la Pasqua del Signore, altro non sono che la forma più pregnante in cui la Parola che salva si realizza nella vita della Chiesa e di ciascun suo membro. In altri termini: basterebbe questa considerazione per far risaltare che il presbitero è, costitutivamente, un artefice della n.e. in seno alla comunità ecclesiale; il suo ministero di “liturgo” mi sembra il massimo grado di (ri)evangelizzazione, sempre nuova e salvifica, che ricorda continuamente ai cristiani di essere dei salvati in Cristo Gesù, come “una oblazione gradita, santificata dallo Spirito santo” (Rm 15,16).
Ma un tale “profilo” del presbitero evangelizzatore esige una permanente verifica e un costante confronto con i “connotati” di coloro che, “apostoli per vocazione”, furono i primi evangelizzatori. E’ per questo che il presbitero muove i suoi passi ricalcando le orme di quelli che lo hanno preceduto sullo stesso sentiero. Rivive lo slancio dei primi testimoni dei Risorto. Sente vibrare in sé la stessa ansia e la stessa gioia dei primi annunciatori, allorché questi si rivolgevano a gente che mai aveva conosciuto il Cristo, o che lo aveva frainteso, o dimenticato. Eredita la loro stessa “vocazione” e il loro medesimo “mandato missionario”, che sono i criteri più importanti a garanzia dell’autenticità dell’opera evangelizzatrice. E, soprattutto, avverte di essere rivestito della medesima “Forza pneumatica” che il Cristo lasciò in eredità ai suoi. Insomma, essere “nuovo” evangelizzatore, per il presbitero, significa farsi apprendista alla scuola dei “primi” evangelizzatori, per proclamare, mantenendosi nell’alveo di una tradizione salvifica ereditata dal passato e da consegnare al futuro, la stessa salvezza di allora — non un’altra — agli uomini di oggi. A questo proposito due mi sembrano i personaggi della primitiva comunità cristiana, che possono assurgere a modelli archetipi: Pietro e Paolo. In loro la correlazione “Spirito – Parola” e il nesso “unzione pneumatica- azione evangelizzatrice”, trova delle icone esemplari: come già Paolo VI rilevava (cf. EN, 75), sia Pietro sia Paolo ricevono lo Spirito santo prima di proclamare il Verbo incarnato (cf. rispettivamente At 4,8 e 9,17).Pietro appare tra i primi depositari del mandato missionario del Risorto: “Avrete forza dallo Spirito santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e sino agli estremi confini della terra” (At 1,8).
A Gerusalemme, dopo la Pentecoste, è lui che prende l’iniziativa per annunciare alla folla la novità della resurrezione e il dono dello Spirito del Cristo ricevuto (cf. At 2,12-41 e 3,11-26). Rinvigorito dalla potenza dello Spirito si lancia a capofitto nell’opera di evangelizzazione, affrontando un crogiolo multietnico e pluriculturale di persone, che rimangono gioiosamente meravigliate dalla sua insospettata ed ispirata eloquenza. E dopo che la prima comunità di battezzati si è formata, è ancora Pietro ad animarne la vita, memore del monito rivoltogli da Gesù: “[ ... ] e tu, una volta convertito conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32). E’ per questo che Pietro corre ovunque i fratelli ne richiedano la presenza. E va in Samaria, va a Lidda e a Giaffa, a Cesarea, ad Antiochia, a Roma e “a tutti andava a far visita ” (At 9, 32), per concedere ai convertiti il sigillo dello Spirito santo e per esortare i discepoli del Cristo a mantenersi “sempre pronti per rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15). Tuttavia anche Pietro conosce il dubbio davanti alle situazioni nuove che sorgono, ad un tratto, sulla strada della Chiesa delle origini: intraprendere o tralasciare un tipo “nuovo” di evangelizzazione, rivolta non più solo agli Ebrei, bensì anche agli incirconcisi?
Lo stato d’incertezza di Pietro è lungo e penoso e dà adito ad equivoci e a risentimenti persino tra gli apostoli. Ma è lo Spirito santo ad illuminare Pietro sul da farsi: a Giaffa, mentre prega, il perplesso pescatore di uomini ha la visione della mensa imbandita di ogni genere di carne, di cui è invitato a cibarsi, senza tema di contaminarsi con ciò che Dio stesso ha purificato (cf. At 10,9 ss.). Lo Spirito gli indica strade non previste, attraverso cui l’annuncio dei Vangelo è rivolto a nuovi destinatari. E Pietro non si sottrae all’imperativo missionario suggerito dallo Spirito santo (cf. At 10,20) e si abbandona docilmente alla volontà dei Signore, non più preoccupato delle altrui critiche. Comprende che il Vangelo dev’essere comunicato a tutti e senza parzialità. Comprende che la vita dell’apostolo dev’essere un perenne evangelizzare gli altri, affinché questi “al vedere le vostre opere buone giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio” (1 Pt 2,12).Con Paolo inizia l’evangelizzazione dell’Europa: la visione profetica, descritta in At 16,910, lo invita a passare dall’Asia alla Macedonia.
Ad Atene l’apostolo delle genti tiene il discorso dell’areopago (cf. At 17,16-33), davanti a persone che avevano solo una vaga credenza nella divinità e che confidavano nelle filosofie più in voga a quel tempo. Paolo svela loro l’identità del “Dio ignoto”, proclamando il Vangelo del Risorto: “Quello che voi non conoscete, io ve lo annuncio” (At 17,23). Ma lo fa con discrezione e secondo le categorie neotiche e terminologiche di quei pagani, avvertendo nella loro indefinita religiosità una sorta di inquietudine, un anelito alla Verità. E tuttavia senza irenismo culturale: Paolo sa che la novità del Cristo non può essere argomentata, ma semplicemente narrata e testimoniata. Ciò nonostante fallisce; ma non disarma. Anzi, il fallimento di Atene lo conferma nella convinzione che ai nuovi interlocutori, ai Gentili, la Buona Novella dev’essere annunciata in tutta la sua apparente stoltezza, così come ai Giudei essa è proclamata in tutta la sua portata di scandalo. Uno scandalo o una insipienza che non può essere stemperata e camuffata con gli orpelli retorici della sapienza mondana (cf. 1 Cor 1,17-2,7).
Postosi sotto il regime dello Spirito, la cui legge dà la Vita in Cristo Gesù (cf. Rm 8,2ss.), Paolo ricomincia a proclamare il Vangelo. L’opera di evangelizzazione lo assorbirà completamente nelle sue energie e nel suo tempo; lo porterà a viaggiare, a predicare, a scrivere, a dibattere con amici e con avversari, ad essere abbandonato dai compagni, a sopportare le percosse e il carcere. Eppure resterà fedele all’annuncio che sente di dover fare ad ogni costo: “Tutto io faccio per il Vangelo” (1 Cor 9,23). Scevro da ogni interesse che non sia quello di “predicare gratuitamente il Vangelo”, egli annuncia la novità evangelica, in modo sempre nuovo, alle varie categorie di persone che incontra: “coloro che sono sotto la legge”, “coloro che non hanno legge”, “coloro che sono deboli”. E, lungi da ogni trasformismo tornacontistico e da ogni camaleontica ipocrisia, egli si fa compagno di strada di tutte queste persone: si sottopone alla legge, si proclama un senza legge, si fa debole e servo di tutti (cf. 1 Cor 9,18-22).
Dialoga con tutti; accetta le istanze di tutti; ma a tutti annuncia il Cristo, la sua croce e la sua resurrezione, sempre ligio ad una specie di imperativo categorico suggeritogli dallo Spirito: “Guai a me se non evangelizzassi!” (1 Cor 9,16). E tutto ciò per affermare che una Vita nuova è conferita ad ogni uomo in Cristo Gesù: l’esistenza di ciascuno viene radicalmente mutata da una novità che redime, il Vangelo, “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1, 1 6), mistero salvifico di Dio che irrompe nella storia e di cui Paolo parla “non con un linguaggio formulato con sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito” (1 Cor 2,13).L’esperienza di Pietro e di Paolo coincide, ancora oggi, a dispetto dei secoli trascorsi, con l’esperienza del presbitero operatore della nuova evangelizzazione.: in un’epoca in cui la cultura europea sembra aver dimenticato le sue radici cristiane e di aver conosciuto Dio e il suo Amore, il prete deve ancora evangelizzare, proclamando la Verità di cui vive — ma che non possiede da se stesso — e offrendola umilmente come dono gratuito a tutti. In questo senso il suo stile di vita deve arricchirsi di due caratteristiche apostoliche e missionarie imprescindibili: la parresia. ossia la franchezza, l’audacia, l’abnegazione, l’entusiasmo (cf. At 4,13; Fil 1,20; Ef 6,]9s.) e la asthéneia, ossia la debolezza del servo fedele in cui paradossalmente può operare la potenza di Dio (cf. 2 Cor 12,10). Da buon “ministro”, il presbitero evangelizzatore non si limita a fungere da gestore del sacro, ma compie una diaconìa nel nome di Cristo Gesù: attingere dalla giara e mescere nelle coppe di chi ha sete; una diaconìa che è esercitata dal presbitero nei confronti della Parola (cf. At 6,2.4), con la forza dello Spirito (cf. 2 Cor 3,8).