La Vita Religiosa dopo l'11 settembre - Quali segni offriamo noi?

Published in Missione Oggi

TIMOTHY RADCLIFFE, OP

Viviamo all’ombra dell’11 settembre. Tutti noi ricordiamo dove eravamo quel giorno. Non è solo perché fu un evento terribile. Da allora in poi la gente ha subito sofferenze più grandi in numerosi posti come a Darfur. Questo è piuttosto simbolico del mondo in cui viviamo all’inizio di questo nuovo millennio. Che cosa ha da dire la vita religiosa a questo nuovo mondo?
E’ un mondo caratterizzato da un paradosso. Siamo sempre più strettamente vincolati insieme dalla comunicazione immediata. Viviamo nel piccolo intimo mondo del villaggio globale. Siamo sempre più contrassegnati da un’unica cultura mondiale. I giovani ovunque indossano gli stessi vestiti, ascoltano gli stessi canti e fanno gli stessi sogni. E anche se non possono permettersi di comprare oggetti autentici firmati, possono acquistare le imitazioni a buon mercato. Tutti viviamo nel McMondo, nel Pepsi-pianeta o nella Coca-cultura.
D’altra parte è un mondo che è sempre più profondamente diviso dalla violenza religiosa. Su tutto il pianeta Cristiani, Ebrei, Musulmani, Indù e Buddisti assumono tutti un atteggiamento aggressivo, bellicoso gli uni verso gli altri. Nell’Irlanda del Nord, nei Balcani, Medio Oriente, India, Indonesia, Nigeria e in tanti altri posti, la comunicazione sembra essere interrotta. E’ precisamente l’intimità del mondo globale ravvicinato che provoca la violenza. La maggior parte dei delitti si consuma in casa, da persone l’una accanto all’altra, e in questo villaggio globale, noi siamo tutti vicini. Che cosa ha da dire la vita religiosa a questo mondo intimo e violento? E che cosa questo mondo ha da dire a noi?
Focalizzerò la mia esposizione su tre aspetti della nostra cultura. Prima di tutto c’è una crisi di mancanza di casa. Tutti viviamo nel villaggio globale, ma l’11 settembre ha manifestato la sua violenza latente. Come possiamo noi religiosi essere segno della dimora comune dell’umanità in Dio? Secondariamente, quale futuro ci attende? L’11 settembre simboleggia l’inizio di un’era che sembra offrire soltanto un futuro di violenza. Terzo, di fronte a questa incertezza, si assiste ad una crescente cultura di controllo, la lotta per l’egemonia. Di fronte a ciascuna di queste realtà, la vita religiosa incarna una parola di speranza. C’è un quarto argomento che è fondamentale, ma di questo accennerò appena, si tratta della cultura del consumismo e del voto di povertà. Non dirò alcuna cosa su questo argomento perché è abbastanza scontato. Numerose persone hanno scritto molto sulla nostra testimonianza di povertà nella cultura di piazza di mercato, così ho preferito prendere in considerazione altri temi un po’ meno comuni.

La crisi per mancanza di casa
Molti di voi sembrano piuttosto stanchi del viaggio/cambiamento di orario. Siete arrivati in aereo da tutte le parti del mondo. Noi siamo abitanti del villaggio planetario. La mia famiglia spesso dice con invidia: ‘Entra tra i Domenicani per vedere il mondo’. Tutte le mattine, quando apriamo i nostri e-mails, ci saranno messaggi da tutto il pianeta. Siamo cittadini di un mondo nuovo nel quale, per molte persone, lo spazio non ha più grande importanza. Fukuyama ha parlato della fine della storia, e Richard O’Brien ha aggiunto: ‘la fine della geografia . Zygmunt Bauman ha scritto che ‘nel mondo in cui viviamo, la distanza non sembra contare molto. A volte sembra che essa esista solamente per essere cancellata; come se lo spazio fosse nient’altro che un costante invito a ignorarlo, a rifiutarlo e a negarlo. Lo spazio non costituisce più un ostacolo – basta solo un istante per conquistarlo’.
Questo può sembrare quasi un’anticipazione delle nostre attese escatologiche. Quando Gesù incontra la Samaritana promette che arriverà un tempo in cui Dio non sarà adorato né sul monte dei Samaritani né in Gerusalemme, ‘ma in spirito e verità’. Il Buon Samaritano, nell’altro nostro testo, prende le distanze dal luogo sacro di Gerusalemme. Quando si prende cura dell’uomo ferito incappato nei ladroni, il sacrificio viene offerto a Dio sul ciglio della strada. Il Cristianesimo ci libera da una religione di spazi sacri per introdurci nella vita della Trinità, “Dio, questo centro Che è ovunque, e la cui circonferenza non è da alcuna parte”. Il ciberspazio somiglia un po’ al compimento della promessa cristiana. Margaret Wertheim scrisse che, “mentre i primi cristiani annunciamo il paradiso come un regno in cui l’anima umana sarebbe stata liberata dalle fragilità e dalle debolezze della carne, così i campioni odierni del ciberspazio l’hanno considerato come un luogo dove l’io’ sarà liberato dai limiti imposti dall’incarnazione fisica”.
L’11 settembre è un simbolo di quanto distante sia il nostro villaggio globale dal Regno in cui tutta l’umanità sarà a casa. Quel giorno, la violenza latente della nostra cultura mondiale è diventata visibile. Il nostro pianeta soffre, infatti, una crisi dovuta alla mancanza di casa. Ci sentiamo a disagio nel villaggio globale. Prima di tutto, noi che partecipiamo a questo Congresso siamo riusciti ad ottenere il visto e passare al banco per il controllo passaporti; ma milioni di persone tentano di viaggiare, di fuggire dalla povertà o dall’oppressione, e non ci riescono. C’è un grande spostamento di persone che cercano una nuova dimora. L’Europa sta costruendo muri per tenere fuori masse di gente che vogliono entrare. Mai nella storia si sono viste tante persone vivere in campi per rifugiati ed essere letteralmente senza dimora.
Anche coloro che rimangono a casa, in un certo senso, sono profughi. La comunità umana è frantumata con l’intensificarsi delle disuguaglianze. E la comunicazione moderna pensa che i poveri possono intravedere il paradiso dei ricchi sugli schermi televisivi tutti i giorni, e tuttavia sono esclusi. I nomadi finanzieri che governano il nostro mondo possono trasferire il loro denaro dove vogliono. Essi non hanno alcun impegno nei riguardi dei lavoratori di qualsiasi paese. Se il lavoro diventa troppo costoso in Inghilterra, allora possono trasferirsi in Messico, e poi in Indonesia. Bauman scrive: ‘Brevi incontri rimpiazzano impegni a lungo termine. Non si pianta un albero di agrumi semplicemente per spremere un limone’. Questo ha causato una terribile incertezza. Perfino gli impiegati non possono essere sicuri che l’indomani avranno un lavoro. Alcuni economisti ci presentano l’immagine di un mondo innocuo di libero commercio. Ma il nostro ambiente è distorto da barriere commerciali, da dazi doganali e da contributi i quali escludono le nazioni povere. Esso in parte è tenuto insieme da reti viziose di denaro sporco, da mafie criminali, dal traffico di droga, dal commercio di donne e di bambini destinati alla prostituzione, dal mercato di organi e di armi.
Infine, c’è l’imposizione di una cultura globale che è di fatto occidentale, e per una larga parte americana. John Baptist Metz argomentò che “dopo molto tempo, i paesi non-occidentali sono oggetto di ‘una seconda colonizzazione’: mediante l’invasione dell’industria della cultura occidentale con i suoi mass media, particolarmente la della televisione che tiene la gente prigioniera in un mondo artificiale, un mondo di illusione. Così la gente diventa sempre più estranea alle immagini della sua cultura, alla sua lingua d’origine e alla sua storia. E’ molto più difficile fronteggiare questa colonizzazione dello spirito perché si presenta come un veleno ricoperto di zucchero e perché il terrore di questa industria della cultura occidentale agisce con dolcezza, non come un’alienazione, ma come una droga narcotica” Noi siamo degli esseri “senza ancoraggio”, le cui vecchie dimore confortevoli sono per essere smantellate. L’11 settembre, la grande indignazione generata da tutto questo è esplosa nel cuore del mondo occidentale.
Così ne segue una crisi per mancanza di dimora, sia a livello letterale che culturale. Di fronte a questo, una reazione largamente diffusa è quella di costruire comunità di persone con la stessa mentalità, con le quali ci si può sentire sicuri e a proprio agio. La Signora Thatcher è rimasta celebre a proposito di un rivale politico: “Ma egli è veramente uno di noi?” Siamo arrivati ad aver paura della differenza. Richard Sennet scrisse: “L’immagine della comunità viene purificata da tutto ciò che può trasmettere un sentimento di differenza, per non dire conflitto, nel nostro modo di comprendere chi “noi” siamo. In questo modo il mito della solidarietà della comunità è un rito di purificazione… Ciò che caratterizza questa condivisione mitica nelle comunità è che le persone hanno l’impressione di appartenersi reciprocamente e di avere la possibilità di condividere, ‘perché sono simili’ .
Questa ricerca di coloro che sono simili a noi si può scorgere ovunque, dall’Internet ai gruppi religiosi. La gente naviga nell’Internet cercando altre persone che condividono i suoi stessi interessi e gusti politici, sportivi o sessuali. E se emergono le differenze, allora si interrompono semplicemente i contatti e si cambia il proprio indirizzo e-mail. Anche i gruppi fondamentalisti religiosi si uniscono con quelli della stessa mentalità. Ho l’impressione che la polarizzazione all’interno della Chiesa cattolica oggi è in parte radicata nella sofferenza di vivere con coloro che sono diversi da noi. La Chiesa è sempre stata divisa da lotte, dal tempo in cui Pietro e Paolo si sono spiegati ad Antiochia. Ciò che risulta nuovo è la nostra difficoltà a superare queste divisioni utilizzando un linguaggio comune. Noi non riusciamo a trovare le parole per condividere la comunione con coloro che sono diversi, perfino all’interno della Chiesa.
Ora, in questa crisi per mancanza di dimora, la vita religiosa ha certamente una vocazione urgente ad essere segno della vasta dimora di Dio, dell’immensa apertura del Regno di Dio, dove ciascuno può sentirsi a casa e vivere tranquillo. Se siamo a casa nella spaziosità di Dio, allora possiamo sentirci a casa con chiunque. Possiamo realizzare questo con modi diversi. Migliaia di religiose e religiosi, frati e suore, hanno semplicemente lasciato le loro case per sentirsi a casa tra le persone straniere. Piccole comunità di Suore si stabiliscono in villaggi musulmani dal Marocco fino all’Indonesia, imparando a convivere con le lingue straniere, mangiando cibo straniero, inserendosi nel tessuto degli altri modi dell’essere umano.
Anche noi accogliamo le differenze culturali ed etniche nelle nostre comunità. Attraversai il Burundi in macchina, quando tutto il paese era in fiamme, per visitare un monastero delle nostre suore contemplative nel nord. Metà della comunità era tutsi e metà hutus. Tutte avevano perduto le loro famiglie, tranne una novizia. E mentre ero là il suo parroco telefonò per comunicarle che i suoi genitori erano stati trucidati. E nonostante ciò le suore vivevano insieme nella pace. Questo era possibile solo grazie ad una profonda vita di preghiera e allo sforzo continuo di tessere la comunione. Ascoltavano insieme le notizie alla radio, e così condividevano le une le sofferenze delle altre. In un paese bruciato e dalla terra rosolata dove nessuno poteva seminare dei raccolti, la loro collina era verde dal momento che chiunque poteva andarci con sicurezza e coltivare i propri alimenti: una collina verde in una terra bruciata è segno di speranza.
Per noi nella vita religiosa , la differenza più difficile da accettare forse non è né etnica né culturale; è teologica. Posso sentirmi a mio agio con un fratello di un altro continente. Ma posso sentirmi profondamente a casa con uno che ha un’altra Ecclesiologia o Cristologia? Sono capace di tendere la mano superando le divisioni ideologiche della nostra Chiesa? Solo se riusciamo a realizzare questo possiamo essere segno della immensità di Dio. Le comunità di persone con la stessa mentalità sono segni deboli del Regno.
Questo richiede da noi molto di più che la tolleranza reciproca. Dobbiamo veramente avere il coraggio di esprimere il nostro dissenso. Ciò esige da noi un’attenzione reciproca che ci porta a superare gli angusti limiti delle nostre simpatie e del nostro linguaggio. Ho il coraggio di lasciarmi toccare dall’immaginazione dell’altro ed entrare nel mondo delle sue speranze e delle sue paure? Dobbiamo iniziare ad spalancare i nostri cuori e le nostre menti, ciò che Tommaso d’Aquino chiama latitudo cordis, che ci permette di entrare nella vasta dimora che è Dio.
Nel libro intitolato Larry’s Party, Carol Shields, romanziere canadese, esplora il modo in cui il linguaggio ci offre una dimora nella quale vivere. Il primo matrimonio di Larry si è infranto perché egli e la sua giovane moglie non avevano un linguaggio assai vasto dove incontrarsi e amarsi. Finalmente, quando poi si sono riconciliati è perché il loro linguaggio è diventato abbastanza spazioso da permettere loro di stare insieme per la prima volta. Larry chiede: “Era quello il nostro problema? Era che noi non conoscevamo abbastanza parole?” Essere segno della comune dimora dell’umanità in Dio esige che noi cerchiamo le parole che sono abbastanza ampie perché possiamo vivere in pace con persone straniere. Queste persone straniere possono appartenere ad un’altra fede o ad un altro gruppo etnico. Ma la maniera migliore per prepararsi a ciò, e provare l’autenticità di questa preparazione, consiste nel cercare parole che gettino ponti mediante la polarizzazione, all’interno della nostra Chiesa e delle nostre congregazioni.
Questa è l’obbedienza di cui abbiamo bisogno oggi, e specialmente dopo l’11 settembre. Non è un’obbedienza che è sottomissione cieca ai comandi dei superiori religiosi. E’ piuttosto la profonda attenzione a coloro che parlano lingue diverse e vivono di simpatie e immaginazione differenti. Si tratta di quell’apertura ascetica verso altre geografie dello spirito e del cuore, anche in seno alle nostre comunità, che ci faccia uscire dalle anguste prigioni che dividono gli esseri umani l’uno dall’altro. E’ un’obbedienza creativa nella quale cerchiamo insieme le parole antiche e le parole nuove,e che porti un’aria fresca e benessere reciproco. Le comunità religiose dovrebbero essere i crogiuoli del linguaggio rinnovato.
Una sera a Rotterdam incontrai dei giovani e chiesi loro perché venivano ancora in Chiesa quando i loro contemporanei non venivano. Trovarono difficoltà a rispondere. Poi, a mezzanotte un giovane che aveva lottato con questa domanda ritornò con una lettera per me. Egli spiegò che era venuto alla nostra comunità perché lì poteva usare le parole che non era più possibile usare a casa sua: espressioni come “Gloria a Dio” e il Santo, parole di lode e di sapienza. Aveva bisogno di un luogo dove poter condividere queste parole con altre persone e sentirsi a casa in queste parole.

Vivere senza una storia
Una dimora non è soltanto lo spazio che noi occupiamo, con le sue pareti mentali e le sue finestre, le sue esclusioni ed inclusioni. Noi abbiamo bisogno di essere anche a casa nel tempo. Abbiamo bisogno di vivere all’interno di una storia che abbraccia un passato e guarda ad un futuro. Noi facciamo nostra dimora all’interno della storia dei nostri antenati e ci sentiamo tranquilli di aver condiviso una speranza per il futuro, prima e dopo la morte. Possiamo essere in pace perché conosciamo approssimativamente dove ci situiamo nella storia. Nell’Induismo, per esempio, ci sono quattro tappe nella vita di un uomo: studiare, essere capofamiglia, abitare la foresta, e infine, rinunciare a tutto. Si può essere a casa in questa storia condivisa di vita umana. L’11 settembre ha cambiato le storie che raccontiamo di noi stessi e del nostro mondo. Questo ha accentuato maggiormente il nostro senso di mancanza di casa. Non abbiamo più alcuna storia del futuro nella quale sentirci a casa.
Per semplificare all’estremo, questa è la seconda grande trasformazione del periodo che l’Occidente ha vissuto negli ultimi anni. Nella mia fanciullezza eravamo ancora sorretti da un profondo ottimismo. Si aveva una fiducia reciproca nel progresso dell’umanità. Per alcuni, l’umanità si muoveva verso un paradiso capitalista e per altri era il paradiso comunista. Ma Est e Ovest, sinistra e destra, condividevano la convinzione che c’era una storia più lunga da raccontare e che l’umanità era in cammino verso un mondo migliore. Questa fiducia nel futuro cominciò a sfaldarsi dopo la caduta del Muro di Berlino. Secondo l’espressione celebre di Fukuyama, e di cui poi se ne pente, la storia ebbe fine. La caduta del comunismo fu proclamata come l’arrivo dell’umanità al suo destino. Il futuro era lì e rassomigliava all’America. Abbiamo la nascita della “Generazione Moderna”, che ha cessato di sognare il futuro. C’era anche un senso di un futuro sempre più privo di speranza per coloro che erano esclusi da questo sogno capitalista. Le disuguaglianze del mondo continuavano a intensificarsi. Interi continenti, specialmente l’Africa, si sono trovati imprigionati in una povertà che sembrava insanabile.
Con l’11 settembre noi entriamo in una terza fase, in cui c’è ancora una storia da raccontare sul futuro, ma è una storia senza alcuna promessa, se non di maggiore violenza. Per alcuni è “la guerra contro il terrorismo” e per altri è la “Jihad” contro l’Occidente corrotto. Questa non è una storia nella quale ci si può sentire a proprio agio, a casa. Quali segni di dimora dell’umanità può offrire la vita religiosa?
Prima di tutto, ciò che noi non facciamo è quello di offrire una alternativa storia del futuro. Il ventesimo secolo è stato crocifisso da coloro che sostenevano di conoscere il tracciato dell’umanità. Milioni di persone morirono nei gulags sovietici, uccisi da coloro che sapevano verso dove si dirigeva l’umanità. Quest’anno sono andato per la prima volta ad Auschwitz. All’entrata del campo, c’è un tracciato che lo mostra al centro di una rete di linee ferroviarie, dalla Norvegia alla Grecia, dalla Francia all’Ucraina, che trasportavano persone verso la morte. Qui era letteralmente la fine della linea, imposta da coloro che efficientemente progettavano il futuro dell’umanità. Pol Pot massacrò un terzo di tutti i cambogiani perché egli sapeva quale storia bisognava raccontare sul futuro. Il fatto stesso che il capitalismo imponga il suo schema impoverisce milioni di persone. Noi siamo giustamente sospettosi di coloro che sostengono di conoscere il piano d’insieme.
La storia fondata dal cristianesimo appartiene precisamente al tempo in cui abbiamo smarrito una storia da raccontare sul futuro. Senza dubbio i discepoli si sono recati a Gerusalemme animati da presentimento che qualcosa doveva accadere: Gesù si sarebbe rivelato come Messia; i Romani sarebbero stati cacciati dalla Terra Santa, o qualcosa di simile. Come i discepoli sulla via di Emmaus confessarono a Gesù: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24, 21). Qualsiasi episodio essi raccontavano, crollava. Giuda aveva venduto Gesù; Pietro stava per tradirlo. Gli altri discepoli sarebbero fuggiti per la paura. Di fronte alla sua passione e morte essi non avevano storia da raccontare. Nel momento in cui questa fragile comunità stava per crollare, Gesù prese il pane, lo benedisse e lo diede loro dicendo, ‘Questo è il mio corpo, dato per voi’.
Il paradosso del cristianesimo è che esso ci offre una dimora nel tempo, ma non ci narra una storia del futuro. Noi non abbiamo alcuna guida. Non possiamo aprire il Libro dell’Apocalisse e dire: “Ecco, ragazzi, cinque flagelli subiti e uno da subire ancora”. Noi crediamo che siamo in cammino verso il Regno di Dio, in cui la morte sarà sconfitta e le ferite saranno guarite, ma non abbiamo alcuna idea di come arriveremo in quel luogo. Dopo l’11 settembre, quando alcuni sono sedotti dal presente eterno della “Generazione Moderna” ed altri raccontano storie che promettono solo violenza, noi offriamo una buona notizia. Abbiamo una speranza che non è legata ad alcuna storia particolare del futuro. Gesù ha incarnato questa speranza in un segno: pane spezzato e condiviso e una coppa di vino fatta passare ai discepoli. Come possiamo noi religiosi e religiose essere segni di speranza?
Uno dei modi è cercare di accogliere con gioia il nostro futuro incerto. I nostri voti sono un impegno pubblico a rimanere aperti al Dio delle sorprese che sconvolge tutti i nostri piani per il futuro e ci chiede di fare cose che non abbiamo mai immaginato. Si dice che se volete far sorridere Dio, dovete raccontargli le vostre storie. Cercate di condividerli anche con i vostri fratelli e sorelle! Quando sostenni l’esame in preparazione alla mia professione solenne, dissi che sarei stato felice di fare qualsiasi cosa, tranne che essere superiore. I frati pensarono diversamente! Noi però abbracciamo questa incertezza con la gioiosa libertà dei figli di Dio. Václav Havel scrisse che la speranza “non è la convinzione che tale scelta andrà bene, ma la certezza che questa scelta abbia certamente un senso, indipendentemente da come andrà a finire’. La nostra gioia è la fiducia di scoprire un giorno che, per qualche ragione, la nostra vita, con i suoi successi e sconfitte, avrà un senso, per quanto insignificante possa a volte sembrare. Il senso della nostra vita è il mistero di Dio, per il quale non abbiamo parole.
Ripeto ancora una volta, il voto di obbedienza è il segno più evidente che noi permetteremo a Dio di continuare a sorprenderci. Poniamo la nostra vita nelle mani dei nostri fratelli e sorelle per fare di essa come desiderano. Questo non vuol dire regredire nella passività infantile. Rimaniamo persone intelligenti che possono far sentire il loro parere nel futuro. Pochi religiosi oggi sarebbero disposti a piantare i cavoli capovolti! Piuttosto questa è una libera accettazione che noi non siamo i soli autori delle nostre storie. Questo è un gesto eucaristico, seguendo Gesù che ha rimesso se stesso nelle mani dei discepoli dicendo: ‘Questo è il mio corpo dato per voi’. E i giovani saranno attirati a noi solo se ci vedono che siamo desiderosi di accettare il dono della loro vita e di utilizzare tale dono in modo coraggioso. Recentemente ho incontrato negli Stati Uniti una suora la quale mi diceva che, in trent’anni di vita religiosa, la sua congregazione non le aveva mai chiesto di fare qualcosa. Non avevano mai osato!
Il nostro voto di castità è anche la promessa di rimanere aperti alle sorprese che Dio ci riserva. Noi rinunciamo ad una relazione che esprime la speranza di una storia prevedibile, un amore stabile nella buona e nella cattiva sorte, fino a quando la morte ci separerà. Invece, noi promettiamo di amare e di accettare di essere amati/e, senza sapere a chi affideremo il nostro cuore. Quando arrivai alla professione solenne, questa fu per me l’atto di fiducia molto più difficile. Sarei finito tutto solo, come un vecchio bastone disseccato? Il mio cuore sarebbe rimasto vivo? Con questo voto noi crediamo che Dio ci darà cuori di carne attraverso cammini che non possiamo prevedere.
Ohimè, per molti di noi il voto di povertà difficilmente ci impegna a vivere qualche incertezza. In molte parti del mondo, una delle attrazioni della vita religiosa è che essa offre sicurezza finanziaria e tutte le risorse di un’abbondanza assicurata. Al Sinodo sulla Vita Religiosa, il Cardinale Etchegaray lanciò un appello ai religiosi e alle religiose di abbracciare una povertà più radicale. Se la gente vedesse nella nostra povertà una vera precarietà, allora quale segno di speranza sarebbe questa!
La nostra vita consacrata con i voti sarà un segno solo se la viviamo con gioia. Allora ci vedranno di sentirci a casa in questa incertezza, a nostro agio per il fatto di non conoscere il tenore e la storia della nostra vita. Possiamo essere sereni/e e fiduciosi/e che la nostra vita, un giorno, avrà un senso anche se per il momento, a volte, non è possibile definirla, poiché questo è Dio stesso.
S. Agostino disse: “Cantiamo Alleluia quaggiù, mentre siamo ancora inquieti, perché possiamo cantarlo un giorno lassù quando saremo liberi da preoccupazioni”. Uno dei miei intimi amici dell’Ordine è un Domenicano francese di nome Jean Jacques. Egli ha fatto gli studi di economia, andò in Algeria per studiare l’irrigazione, imparò l’arabo, e lì insegnò all’Università. Era duro, ma era profondamente contento. Un bel giorno il suo Provinciale gli ha telefonato per chiedergli di ritornare per insegnare economia all’Università di Lione. Era completamente sconcertato, addolorato. Poi si è ricordato della gioia di aver donato la sua vita senza condizione. Così, è andato a comprare una bottiglia di champagne per far festa con i suoi amici. Alcuni anni dopo, sono stato eletto Generale dell’Ordine e sentivo il grande bisogno di avere nel Consiglio Generale qualcuno che io conoscessi. Ho cercato Jean Jacques e gli ho chiesto di venire. Ha chiesto di poter rifletterci su. Ho detto di sì. Ha chiesto di prendersi un mese. Ed io gli ho detto di prendersi un giorno. Ha risposto di sì. Altro champagne. Questa è la gioia di sentirsi a casa nella imprevedibilità di Dio.
Charles de Foucauld andò a far visita ad un giovane cugino, François de Bondy, il quale aveva vent’un anni e si dava alla ricerca del piacere. Ma la sua vita fu trasformata vedendo la gioia profonda di questo asciutto asceta venuto dal Sahara. “É entrato nella stanza e la pace è entrata con lui. Lo splendore dei suoi occhi e specialmente quel sorriso molto umile avevano invasa tutta la sua persona… Una gioia incredibile emanava da lui… Io che avevo gustato “i piaceri della vita” e potevo intrattenere la speranza di non dover lasciare il tavolo per un momento, vedendo che tutta la somma delle soddisfazioni non pesava più di una minima frazione paragonata alla piena felicità dell’asceta, ho sentito nascere dentro di me uno strano sentimento non di invidia, ma di rispetto!” Enzo Bianchi cita un padre del quarto secolo il quale dice che i giovani sono come i cani che vanno a caccia. Se i cani fiutano il lupo, allora continuano a cacciare fino alla fine. Se non sentono mai l’odore del lupo, allora si stancano e smettono. Se i giovani colgono in noi il profumo della gioia del Regno, allora continueranno fino in fondo.
Fa parte di questa testimonianza di speranza osare donare tutta la nostra vita, usque ad mortem. Noi abbiamo la convinzione che tutta la nostra vita avrà un senso. Alla fine, tutta la storia della nostra vita troverà un significato, anche nei suoi momenti più difficili. Nell’Instrumentum Laboris 37 è scritto: “Il senso di provvisorietà e la difficoltà culturale della stabilità potrebbero anche portarci a studiare la possibilità di proporre forme di Vita Consacrata “ad tempus” (VC 56 e Propositio 33), che eviterebbero di dare la sensazione che una persona abbandoni la vita consacrata dopo un po’ di tempo, senza che ciò implichi diserzione o abbandono”. Sono d’accordo. Da secoli gli ordini religiosi hanno sempre offerto altre forme di appartenenza a coloro che non desiderano impegnarsi per sempre. Molte delle nostre congregazioni stanno esplorando modi nuovi per poter realizzare ciò. E’ anche il caso che alcune persone entrano da noi e fanno la professione, ma che un giorno ci lasciano. Non vogliamo che restino paralizzati per sempre da un certo senso di fallimento. Questo però non dovrebbe mettere in questione la centralità di un impegno usque ad mortem. Spesso ci si chiede se i giovani oggi sono capaci di assumere tale impegno. Forse la questione è di sapere piuttosto se noi li crediamo, se crediamo che sono pronti a lottare per la loro vocazione.

Il sovvertimento della cultura di controllo
La questione finale che desidero trattare è la cultura di controllo. Mai il pianeta è subito un controllo così serrato da parte di poche nazioni. Nonostante tanta retorica sullo sviluppo, gli interessi nazionali di alcuni paesi decidono tutto. Come mai prima nella storia dell’umanità, noi viviamo soprattutto sotto il controllo di una sola superpotenza di cui bisogna sempre proteggere gli interessi, a livello mondiale. Come ha detto Bill Clinton: non c’è differenza tra la politica nazionale e la politica estera. L’11 settembre fu tra le altre una protesta contro coloro i quali desiderano avere il controllo del pianeta e delle sue risorse. Esso ha colpito i simboli dell’economia e della potenza militare occidentale, le due Torri Gemelle e il Pentagono. Ma l’11 settembre ha anche intensificato questa cultura di controllo, provocando una crescita nella raccolta d’informazioni, il controllo dell’emigrazione, la militarizzazione del mondo e la perdita dei diritti umani.
Paradossalmente, questo è, a sua volta, un periodo in cui lo stato nazionale, e anche gli Stati Uniti, sembrano sempre meno capaci di controllare qualsiasi situazione. Viviamo in un mondo che Anthony Giddens ha chiamato “il mondo che ci sfugge” , “una giungla fabbricata”. Bauman immagina il nostro mondo come un aereo senza pilota. I passeggeri “scoprono con orrore che la cabina del pilota è vuota e che non c’è alcun modo per estrarre dalla misteriosa scatola nera con l’etichetta “pilota automatico” qualsiasi informazione per sapere dove l’aereo è diretto, dove atterrerà, chi deve scegliere l’aeroporto e se ci sono regole che permetterebbero ai passeggeri di contribuire alla sicurezza dell’arrivo.
E’ nel cuore della modernità questa combinazione paradossale di una cultura di controllo e della nostra incapacità di assumere la responsabilità della nostra vita. Ciò è espresso fortemente dalle guerre tecnologiche moderne, con le loro armi molto sofisticate e tuttavia l’immensa difficoltà che esse hanno a conseguire gli obiettivi stabiliti. Basta guardare il Vietnam, l’Afganistan e l’Iraq!
In parte questo proviene dal fatto che le corporazioni multinazionali sfuggono ai regolamenti nazionali. L’economia è incontrollabile. La fluidità del capitalismo moderno genera insicurezza e ansietà. Tutta questa ansietà si proietta sugli stranieri, al di fuori delle nostre frontiere e all’interno di esse. I governi sempre più considerano la legge e l’ordine pubblico come loro primo compito. Combattere il crimine è il dramma moderno, mettendo in carcere gli stranieri sui quali proiettiamo la nostra paura. Praticamente, in ogni paese del mondo il numero delle persone rinchiuse nelle carceri è in aumento. Persone che hanno programmi diversi dai nostri sono sempre di più viste come nemici, “terroristi”, appartenenti a qualche “coalizione perversa”. La povertà sta diventando criminalizzata. Perfino l’aiuto umanitario e lo sviluppo vengono cooptati dal programma di sicurezza occidentale. Sicurezza globale vuol dire sicurezza occidentale e le agenzie di sviluppo avranno sovvenzioni a condizione che accettino le sue priorità. Ecco perché è tanto difficile ricevere sostegno per il Sudan o il Congo oppure per altre zone disastrate dell’Africa.
La cultura del controllo entra nel sangue della vita pubblica sotto forma di gestione. Ogni forma di istituzione deve essere gestita, verificata, misurata, deve rispondere agli obiettivi ed essere valutata. Anche la Chiesa sta diventando una istituzione governata dalla cultura di controllo. Siamo osservati, si fanno rapporti e valutazioni su di noi. Questo non è un complotto maligno del Vaticano. Ciò mostra che anche la Chiesa sta vivendo la crisi della modernità, proprio come tutte le altre! Perfino le congregazioni religiose spesso soccombono alla cultura di gestione. Coloro che sono chiamati a governare diventano ‘L’Amministrazione’. Frati e suore si sono trasformati in ‘personale’. Ho incontrato superiori/e generali i cui uffici mi ricordano corporazioni multinazionali. Il Superiore Generale diventa il DCU (direttore capo d’ufficio). I capitoli stabiliscono gli obiettivi e valutano i risultati. Tutto deve essere misurabile, e la misura è soprattutto il denaro.
Ma la vita religiosa dovrebbe esplodere in questa cultura di controllo come una esplosione di libertà gioiosa. Possiamo vedere allusioni a ciò che questo significa nella storia di Gesù e della Samaritana al pozzo. Gli apostoli sono andati a far compere e quando ritornano, eccolo chiacchierando con questa donna volgare. “Se girate le spalle, non saprete mai che cosa combinerà!”. Gesù è osservato, controllato, ma egli è il nostro Signore che sfugge ad ogni controllo.
Le nostre congregazioni hanno differenti modi di comprendere la natura di governo. Può essere paterna, democratica o militare. Noi non abbiamo una sola concezione della natura dell’obbedienza. Ma siamo tutti d’accordo che la leadership – per utilizzare una parola che io detesto – non ha il ruolo di controllo. E’ al servizio della grazia imprevedibile di Dio. Nessuno è il proprietario della grazia né piegarla al proprio programma, e tanto meno il superiore. Il ruolo della leadership deve assicurarsi che nessuno si impadronisca della grazia di Dio, né giovani né anziani, né destra né sinistra, né l’Occidente né qualsiasi altro gruppo. Dio è in mezzo a noi come colui che fa sempre qualcosa di nuovo, e la leadership sarà generalmente l’ultima a sapere di che cosa si tratta. I superiori hanno il compito di tenerci tutti aperti alle direttive imprevedibili verso le quali Dio potrebbe guidarci, come Dio dice in Isaia: “Ecco, faccio una cosa nuova”.
In questo modo, la leadership si manifesterà nell’incoraggiare le nostre comunità a rischiare, a non scegliere sempre l’opzione sicura, a aver fiducia nei giovani, a accettare la precarietà e la vulnerabilità. Terrà le finestre aperte alla grazia imprevedibile di Dio. Così, in questa cultura di controllo, la vita religiosa dovrebbe essere una nicchia ecologica di libertà. Non è la libertà di coloro che impongono la loro volontà, ma una libertà di arrendersi alla costante novità di Dio.
Ero negli Stati Uniti quando venivano distribuite alcune buste conteneti antrace, e in Asia durante la crisi di Sars. In entrambi i casi sono rimasto sorpreso dal clima di panico. In questo mondo spaventoso e angosciante, la vita religiosa dovrebbe essere un’oasi di libertà e di fiducia. Noi possiamo aver paura, ma non dovremmo lasciarci guidare dalla paura. Cristo è morto, Cristo è risuscitato, Cristo ritornerà. Questo è il solo dramma finale. Di che cosa bisogna aver paura?
Quando ero studente, la nostra comunità di Oxford fu soggetta a due piccoli attacchi di bombe, da parte di un movimento politica di destra che ci detestava profondamente, per qualche ragione misteriosa. Ricordo di essere stato svegliato una notte dal rumore delle esplosioni. Mi sono precipitato giù nell’ingresso del monastero e ho trovato i fratelli riuniti nei loro diversi abbigliamenti notturni. Ma dov’era il priore? E’ arrivata la polizia e il priore dormiva ancora. Sono andato a svegliarlo”. C’è stato un attacco di bombe’, ho gridato tutto eccitato. C’è qualche morto?’ ha chiesto. ‘Bene nessuno’. ‘Qualcuno è ferito?’ ‘Ebbene, perché non mi lasci dormire, e ne parleremo domani mattina’. Ecco quando ho intuito per la prima volta cosa vuol dire leadership! Essa sdrammatizza i nostri piccoli momenti di panico. Se i voti sono una promessa di lasciare che Dio ci sorprenda, allora la leadreship ci mantiene fedeli a questo abbraccio coraggioso dell’incertezza.
Per concludere, dopo l’11 settembre il nostro piccolo pianeta soffre la crisi per mancanza di dimora. Questo è letteralmente vero per milioni di rifugiati, di coloro che cercano asilo politico e per gli emigrati clandestini. Soffriamo anche per una mancanza di dimora culturale, per un senso di precarietà e di sovvertimento delle culture locali in cui l’umanità ha creato le sue numerose dimore. Quali religiosi/e, siamo chiamati ad essere segno di quella grande dimora che è la dimora del Padre, “in cui vi sono molti posti” (Gv 14, 2). Possiamo realizzare questa dimora con il Samaritano e accogliere il Samaritano nella nostra casa. In questo momento affrontiamo anche una sfida più sottile, accogliere nella nostra dimora coloro che ci sono estranei, nelle nostre congregazioni e nella Chiesa. Tutto ciò richiede da noi una immaginazione creativa. Dobbiamo permettere che lo Spirito Santo demolisca i piccoli discorsi ideologici, sia di sinistra sia di destra, in cui troviamo sicurezza. Dobbiamo trovare le parole che ci apriranno alla immensità di Dio, e non rinchiudere Dio nella meschinità dei nostri cuori e dei nostri pensieri.
Dall’11 settembre, quel sentimento di mancanza di casa è stato accentuato dalla perdita di una storia da raccontare sul nostro futuro. La storia che domina la nostra vita è sempre più la guerra contro il terrorismo e la jihad. Noi religiosi possiamo essere a casa in questo periodo di disorientamento, ma non offrendo una storia alternativa, bensì abbracciando l’incertezza con gioia e libertà. Abbiamo la ferma fiducia che la nostra vita alla fine capiremo che tutta la nostra vita avrà un significato e così possiamo felicemente lasciare che Dio continui a farci sorprese.
L’incertezza di questi tempi presenti genera ansietà. Questo alimenta la cultura di controllo e può anche contagiare la vita religiosa al punto che noi possiamo soccombere al modello di gestione e di amministrazione. Ma la leadership dovrebbe tenere aperte le porte e le finestre delle nostre dimore per lasciare entrare lo Spirito, che “non sai di dove viene e dove va”; così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3, 8).

Last modified on Thursday, 05 February 2015 16:53

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