Storia e modelli della presenza missionaria della Chiesa

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Premessa

Il secolo scorso ha conosciuto un notevole impulso della coscienza missionaria della chiesa1 . Merito delle scuole missiologiche, soprattutto di Münster e di Lovanio, ma anche delle grandi encicliche missionarie: Maximum illud (1919), di Benedetto XV; Rerum Ecclesiæ (1926), di Pio XI; Evangelii praecones (1951) e Fidei donum (1957), di Pio XII; Princeps pastorum (1959), di Giovanni XXIII. Ne sono rimasti contagiati anche gli storici della Chiesa, che hanno rivalutato la storiografia missionaria, da edificante agiografia romantica di stampo eurocentrico a storia dell’evangelizzazione, dando più risalto ai popoli evangelizzati, con la loro identità culturale e religiosa.

Tale impulso è solo parzialmente smorzato dal processo di decolonizzazione, mentre il Concilio Vaticano II – soprattutto con i documenti Lumen gentium e Ad gentes –, agisce da filtro purificatore della memoria missionaria. Anche il controverso Sinodo sull’evangelizzazione del mondo contemporaneo e l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) funzionano da filtro purificatore della coscienza missionaria della Chiesa, mentre Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio, del 1990, insiste sulla permanente validità del mandato missionario, in tempo di crisi di identità della missione. Il guadagno storico di questa purificazione si concretizza nella nuova considerazione delle missioni, non più ridotte ad un’articolazione periferica e accidentale della Chiesa, ma ritenute come parte costitutiva del suo Corpo e, quindi, degne di integrare e addirittura dar forma alla sua storia, come storia dell’evangelizzazione2 . Tramontata l’epoca romantica, le missioni ottengono maggior credito storico3 , specialmente in occasione di ricorrenze particolari, come i 500 anni dell’evangelizzazione dell’America Latina4 , i diversi anniversari legati a missionari come Matteo Ricci, Francesco Saverio, Alessandro Valignano. Inoltre, in un clima radicalmente mutato rispetto all’inizio del Novecento, alcune Chiese europee, come quella italiana, si interrogano sul ruolo paradigmatico che la missione dovrebbe esercitare a livello pastorale in una società dove è sempre più difficile comunicare e trasmettere il Vangelo5 .


1. La crisi del metodo apologetico e la nascita di una nuova storia delle missioni

All’inizio del Novecento, sono anzitutto alcune opere storiche condotte con metodo scientifico che provocano un approccio diverso alla storia delle missioni. Si abbandona il metodo apologetico dell’Ottocento, che produsse opere condotte con scarsa informazione documentaria, esageratamente laudative delle missioni, frutto del clima romantico allora imperante6 . Si deve ad un protestante, Adolf von Harnack, il primo esemplare studio sulla missione nell’antichità, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, del 19027. Da segnalare anche l’opera del padre della missiologia protestante, G. Warneck, Abriss einer Geschichte der protestantischen Missionen von der Reformation bis zur Gegenwart8 .

In campo cattolico, la storiografia missionaria comincia ad entrare nella fase delle realizzazioni scientifiche, grazie alla scuola di Münster. Il primo manuale di storia delle missioni a carattere scientifico appare, infatti, nel 1924 e si deve a J. Schmidlin, professore di missiologia all’Università di Münster9 . Fu scritto su invito del grande storico della chiesa Ludwig von Pastor, che nel volume quinto della sua Storia dei Papi auspicava la realizzazione di «una storia delle missioni secondo le fonti»10 . Dopo Schmidlin, numerosi altri studiosi, cattolici e protestanti, hanno compilato manuali con obiettivi diversi, ma con la stessa preoccupazione scientifica. Tra gli autori cattolici ricordiamo Mulders11 , professore all’Istituto Missiologico di Nimega, che nel suo manuale unisce alla competenza una grande chiarezza didattica, superando la frammentarietà dello Schmidlin e dimostrando una maggiore capacità di sintesi. Inoltre, Villoslada12 , Deschamps13 , Moltmann14 e Delacroix15 .

Altri testi, senza la pretesa di essere dei manuali, sono stati molto utili, anche a livello scolastico16 . Tutti gli autori finora citati appartengono a paesi europei dove si sono affermate le scuole di missiologia. In Italia, anche a causa della mancanza di una scuola missiologica propria, non si segnalano studi storiografici di carattere generale, capaci di competere con quelli finora menzionati. Ci si accontenta di traduzioni. Le opere di Roschini17 , Costantini18 e Grazzi19 , sono di carattere piuttosto introduttivo alla storia delle missioni. Non vorremmo in ogni caso essere troppo severi con l’Italia e trascurare due nomi di studiosi italiani che si impongono in campo internazionale per i loro contributi alla storia delle missioni, benché nel settore delle monografie: il padre P. D’Elia20 , gesuita e insigne sinologo, e il padre G. B. Tragella, del PIME21 . In campo protestante, c’è da segnalare soprattutto l’opera di K. S. Latourette, A History of the Expansion of Christianity, frutto di immensa erudizione, scritta con stile vivace e con sincero spirito di fede, nonché con modernità di vedute, anche se talvolta poco oggettiva nell’inquadrare le missioni cattoliche22 .

A livello di metodo si continua a dibattere la questione del rapporto della storia della chiesa con la teologia e con la storia universale, riproponendo le ormai classiche e divergenti posizioni di Jedin e di Aubert riguardo al compito dello storico. Riprendendo le affermazioni di quest’ultimo, si può rilevare la necessità per lo storico della chiesa di operare all’interno del più esteso quadro della storia generale, rinunciando definitivamente a qualsiasi intento edificante e apologetico23 . Non si può in ogni modo dimenticare il rapporto della storia della Chiesa con la teologia, così come sottolinea Jedin. Ne fanno fede anche gli ormai classici studi di teologia della missione di Severino Dianich, Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica (Paoline, Cinisello Balsamo 1985) e di David J. Bosch, La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigma in missiologia (Queriniana, Brescia 2000 – ed. orig. 1991), i quali coniugano la revisione storica con l’interpretazione teologica. Un’ulteriore conferma in questo senso ci viene dal Convegno di studio organizzato a Palermo nel 2000 dall’Associazione Italiana dei professori di Storia della Chiesa sul tema “Il cammino dell’evangelizzazione: problemi storiografici”24 .

2. Modelli della presenza missionaria della Chiesa

Nella rivisitazione teologica della storia delle missioni, Dianich individua ben sei modelli di missione25 : la missione compiuta, la missione rinviata, la missione nascosta, la missione contra gentes, la missione ad gentes, la missione storico salvifica26 . Rifacendosi alla teoria dei paradigmi di Thomas Kuhn, il missiologo Bosch descrive almeno cinque paradigmi della missione27 : quello della chiesa orientale, quello della chiesa romano-cattolica medievale, quello della Riforma protestante, quello della missione nel solco dell’Illuminismo, quello ecumenico28 . Negli anni Quaranta del secolo scorso, il saveriano padre Vanzin, uno dei più brillanti scrittori di cose missionarie a livello italiano, espone ben trentacinque vie della missione, allora intesa come “conquista”29 . In Problemi della conquista missionaria, il medesimo autore distingue nella storia della chiesa sei tappe, che scandiscono, fra ombre e luci, la sua attività missionaria30. In questa scansione egli segue uno schema cronologico abbastanza tradizionale, come del resto fa J. Schmidlin, che pur volendo privilegiare una periodizzazione diversa – ispirandosi cioè all’omogeneità dei metodi missionari –, alla fine adotta il criterio dell’appartenenza alla stessa epoca storica31.

Facendo tesoro di questi diversi approcci, mi soffermerò su alcuni momenti cruciali del cammino dell’evangelizzazione, privilegiando il filo conduttore dei soggetti della missione e delle loro idee. Metterò a fuoco sette diverse congiunture storiche, all’interno delle quali si sviluppano diversi modelli o metodi missionari. Ad ogni periodo storico non corrisponde necessariamente un unico modello o metodo missionario, perché nella stessa epoca convivono, fra loro intrecciati o giustapposti o contrapposti, diversi modelli o metodi. Il modello storico delle crociate o della missione contra gentes, per esempio, non è riducibile al solo periodo medioevale, ma, in forme diverse, giunge fino ai nostri giorni32 . Lo stesso dicasi dell’epoca del patronato regio o padroado, che vede convivere nelle Americhe il metodo della tabula rasa e la difesa strenua degli indios, della loro terra e cultura. I primi tentativi di inculturazione in Asia con missionari del calibro di Matteo Ricci, Roberto de Nobili, Alessandro Valignano, naufragheranno anche per lo scontro tra le forze missionarie in campo. In epoca più recente, il modello coloniale della missione si giustappone con quello della “missione rinviata” o della “missione nascosta” di Fr. Charles de Foucauld.e Sr. Magdeleine de Jesus33 .

2.1 I primi tre secoli: la missione dei semplici cristiani

Per quanto riguarda l’epoca antica, non c’è storico che prescinda dal celebre studio di Harnack sulla diffusione del cristianesimo nei primi tre secoli, tutt’ora apprezzato come un buon punto di riferimento. In quest’epoca, nonostante le persecuzioni, si assiste ad un’espansione quasi naturale e incontenibile della Chiesa, pur in assenza di particolari progetti e dicasteri missionari. Oltre quaranta sono i centri abitati in cui si hanno prove certe della presenza di comunità cristiane già nel I secolo. Le regioni toccate dalla presenza cristiana sono: la Samaria, l’Arabia, la Siria, la Cilicia, la Galazia, la Cappadocia, la Bitinia e il Ponto in Asia Minore, Creta tra le isole, e ancora l’Illiria, la Mesopotamia, l’Egitto, la Gallia, la Germania, la Spagna, oltre che l’Italia. L’evangelizzazione supera addirittura i confini dell’impero romano, verso la Mesopotamia, l’impero persiano e l’India o verso l’Armenia, la Georgia e l’Etiopia.

Secondo Harnack, una delle condizioni esterne che hanno permesso tal espansione della religione cristiana è la diffusione dell’ebraismo, che prepara la via al cristianesimo. Inoltre, il processo di ellenizzazione dei popoli del Mediterraneo, nonché la loro unità politica favorita dalla pax romana. Studi più recenti danno più rilievo al giudaismo, anche palestinese, e al giudeo-cristianesimo rispetto al mondo greco e romano34 , abbandonando così l’opinione di concepire il cristianesimo come il mero prodotto del sincretismo ellenistico. Si tratta di un fenomeno molto complesso, che la storiografia del Novecento ha contribuito a comprendere più profondamente. Per cui oggi non sono più tollerabili risposte genericamente “provvidenzialiste” sul ruolo avuto dall’impero romano, dalla sua organizzazione o dall’ellenizzazione. E’ meglio rispettare il senso “evenemenziale” della storia, che tenta cioè «di cogliere i movimenti interiori dell’uomo, i quali poi reggono e ispirano quelli esteriori»35 .

Altro elemento fondamentale per comprendere la diffusione del cristianesimo sono i caratteri intrinseci del suo messaggio. E qui gli autori divergono. A proposito della forza di attrazione della verità e del martirio, per esempio, Joseph Lortz, citando le parole di Tertulliano secondo cui semen est sanguis christianorum36 , dice che esse esprimono la misteriosità che riflette la crescita irresistibile del cristianesimo, misteriosità che non scompare nemmeno in presenza di tante altre cause per la sua propagazione. In altre parole, si tratta di «un processo vitale, nel quale cooperano, intrecciandosi fra loro, molte specie di cause»37 . In tempi recenti si è ridato risalto a un elemento che già gli antichi scrittori ecclesiastici avevano sottolineato, ossia il ruolo dell’impero romano e della sua organizzazione, a cominciare dalla rete straordinaria delle sue strade e dal sistema delle comunicazioni. Ma, «ad un livello più profondo paiono avere costituito motivo di attrazione e di proselitismo i modi di una presenza cristiana nella società, la fondazione della libertà di coscienza, il richiamo alla responsabilità che ognuno è chiamato a esercitare in coerenza con il proprio credo, la distinzione fra la sfera religiosa e quella politico-civile»38 .

A proposito dei soggetti dell’evangelizzazione, secondo Harnack i missionari più numerosi «non furono i maestri di perfezione, ma spesso i più semplici tra i cristiani con lo spettacolo di fedeltà e di forza che essi davano al mondo»39 . Non c’erano in sostanza distinzioni tra mandanti e “messi”, perché tutti partivano in missione: «la Chiesa primitiva era tutta missionaria»40. In altre parole, ancora oggi l’impressione dello storico è che nei primi tre secoli tutti i cristiani fossero in “stato di missione. In tal senso l’evangelizzazione sembra avvenire di preferenza per osmosi, affidata com’è «alla spontaneità nei normali rapporti personali e sociali dei singoli cristiani»41 . Il ministero è affidato ugualmente a uomini e donne, se è vero che Paolo, poco dopo la metà del I secolo, nella Lettera ai Romani (16,7) già designa come “apostoli” Andronico e Giunia. Nella seconda metà del II secolo i servizi resi dagli “apostoli” itineranti sembrano gradualmente scomparire, poiché riassunti nel ministero episcopale. Ireneo di Lione è testimone della mutata situazione. Ma è il tempo anche dei confessori e dei martiri, come dimostrano gli Acta e le Passiones martyrum con le Vitae sanctorum. Nei secoli successivi appaiono i monaci che costituiranno il primo grande “movimento apostolico” nella storia della chiesa.

In conclusione, la Lettera a Diogneto dice bene la congiuntura missionaria dei primi tre secoli: «A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…). Sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo» (V,1s.).

Prima di passare al prossimo quadro storico, quello dei popoli germanici e slavi, facciamo un accenno alla “questione giudaica”, alla rottura con il mondo ebraico. Dove è andata a finire la Ecclesia ex circumcisione dei primi secoli? Da Giustino, con il suo Dialogo con Trifone, la questione sfociò progressivamente, con Girolamo, Crisostomo e Gregorio di Nissa, in una opposizione aperta tra Chiesa e mondo ebraico. Opposizione che favorì la sedimentazione di sospetti, pregiudizi fino all’introduzione nella liturgia del Venerdì Santo della preghiera Pro perfidis Judeis che, per quanto inizialmente intendesse perfidis come increduli, arrivò nel tempo ad andare ben oltre le intenzioni primitive offrendo elementi concreti di radicamento dell’antisemitismo, che giungeranno al manifesto razzismo. Ma questa è storia recente e nota, per quanto ancora non abbastanza acquisita come corresponsabilità anche cristiana42 .

2.2 L’evangelizzazione dei popoli germanici e slavi: la missione dei principi e dei vescovi “peregrini pro fide”

La storiografia classica parla del fenomeno della nascita della “cristianità” europea, dal IV secolo, attraverso l’inclusione dei popoli cosiddetti barbari in un sistema civile ed ecclesiastico prestabilito (dai codici di Teodosio e Giustiniano). Da tempo, però, essa ha ormai sostituito alle “invasioni barbariche” la più corretta affermazione di “migrazioni di popoli”, in parte già cristiani e addirittura provvisti di una loro gerarchia episcopale “etnica” (si pensi al caso dei Goti evangelizzati da Ulfila). Non sono più tollerabili, quindi, le generalizzazioni che vedevano contrapposti popoli civili e cristiani e popoli barbari e pagani, questi ultimi progressivamente assimilati in un progetto culturale astrattamente già compiuto43 .

I dettagli dell’adesione dei popoli germanici al cristianesimo non sono facilmente ricostruibili. Tuttavia, a differenza di quanto si verificò nei primi tre secoli del cristianesimo, si può ritenere che essa non è il risultato di una evangelizzazione individuale, fatta con mezzi puramente spirituali e persuasivi. E’, invece, la “conversione in massa” di tutto un popolo, trascinato e talvolta costretto dall’esempio dei suoi capi. Anche la stretta unione fra la vita dello Stato e il culto religioso, che caratterizza gran parte dei popoli germanici, fa sì che la loro conversione al cristianesimo non sia solo un atto religioso, ma anche un atto sociale e politico.

Il primo popolo germanico che abbraccia il cristianesimo durante la sua migrazione verso l’area mediterranea è quello dei Visigoti. Grandi progressi fa la loro conversione quando Ulfila, consacrato vescovo, diventa missionario tra i suoi connazionali per un periodo di oltre quarant’anni (341-383). A tale scopo traduce la Bibbia in gotico, un vero e proprio monumento linguistico e culturale, che agevola in maniera straordinaria la diffusione del cristianesimo (anche se di matrice ariana). «Nell’Italia dei Goti e in quella dei Longobardi due Chiese “etniche”, con i loro episcopati e riti, hanno per un certo periodo legalmente convissuto separate tra loro. (…) la differenza dogmatica individuata nell’arianesimo aveva in realtà meno peso di quanto non rivestissero le differenze tra una gerarchia episcopale etnica non necessariamente residenziale nei centri urbani, e quella ormai stabilita anche amministrativamente nelle città imperiali con liturgia latina per le popolazioni romanizzate»44 .

Un altro popolo, la cui conversione segna la storia dell’Europa, è quello dei Franchi, grazie al battesimo di Clodoveo. Si prepara così, da lontano, la leadership assunta più tardi dai carolingi nell’Occidente cristiano e si pongono le basi per l’unificazione di tutti i popoli germanici, sulla base della medesima fede cristiana. L’unione del germanesimo e del cristianesimo non ariano, dell’arte di governo romana e della cultura antica e germanica, inizia per l’Europa un periodo di insperata ascesa culturale e politica.

I longobardi si convertono grazie soprattutto al Papa Gregorio Magno, che li apprezza da subito come un popolo degno di ricevere la fede, nonostante l’aggressività che li rende invisi ai Bizantini e alla principessa Teodolinda, sposa in seconde nozze del duca di Torino Agilulfo, la quale favorisce l’opera missionaria di San Colombano, monaco irlandese che viene in Italia e fonda nel 614 il monastero di Bobbio, grande centro di irradiazione missionaria.

L’evangelizzazione dei popoli germanici è un’azione missionaria particolarmente lunga e ardua, soprattutto nel caso dei Sassoni, contro i quali Carlo Magno combatte un’atroce guerra, iniziata nel 772 e conclusa solo oltre trent’anni dopo. Lo testimonia il famoso Capitolare de partibus Saxoniae, che impone la pena capitale a chiunque offende la religione cristiana e i suoi sacerdoti. La violenza non fu un fatto isolato ed estremo, perché la si userà ancora per molti secoli. Questo paradigma medievale della missione attinge, implicitamente o esplicitamente, al testo di Lc 14,23: «E costringeteli a entrare» (compelle intrare). Ma si registrano anche posizioni non violente, come quella di Alcuino, monaco e letterato anglosassone, che dopo essere stato capo della scuola della cattedrale di York era diventato consigliere di Carlo Magno. Egli, pur incoraggiandolo l’imperatore alla missione tra i pagani, inviando dei bravi predicatori, biasima la conversione forzata, allegando che un uomo può essere costretto al battesimo, ma non alla fede.

Per quanto riguarda l’evangelizzazione dei popoli slavi, essa avviene in un contesto di concorrenza tra l’impero greco e il nuovo impero proclamato da Carlo Magno. Le missioni di Cirillo e Metodio, che, fin dall’inizio hanno come destinazione Roma, intendono ricomporre la piena unione visibile tra le Chiese di Roma e Costantinopoli. L’iniziativa è assunta dai principi e dall’imperatore, la cui adesione al cristianesimo ha una rilevanza sociale, civile e religiosa insieme. Il potere politico impone la nuova fede con lo stesso criterio con il quale emana le leggi dello Stato. La scelta del modello occidentale di cristianesimo o, all’opposto, di quello orientale esprime la volontà di aderire all’una o all’altra sfera d’influenza politica.

La durezza dello scontro fra i due fratelli missionari e il clero franco-germanico, interessato a estendere la sua influenza verso l’Europa orientale, non compromette ancora in modo irreparabile la comunione tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente, anche se già prima di questi avvenimenti, a motivo della proibizione del culto delle immagini (iconoclastia) e poi per le prese di posizione del patriarca di Costantinopoli, Fozio, le tensioni tra le due Chiese erano fortissime.

La questione della lingua appare sintomatica del diverso modo di intendere in Oriente e in Occidente l’unità della Chiesa. Nella mentalità del tempo l’assunzione del latino è uno strumento d’importanza non secondaria per significare il legame con Roma e la sua universalità. La scelta cirillo- metodiana ha però il vantaggio di riconoscere ed esprimere la diversità e la specificità di ciascun popolo convertito al cristianesimo. Corre anche il rischio tutt’altro secondario di legare troppo strettamente fede e nazionalità. La scelta della Chiesa occidentale-romana esalta invece l’universalità e la sopranazionalità, ma a sua volta corre il pericolo di mortificare le espressioni tipiche di una particolare cultura a vantaggio di una generale ed eccessiva romanizzazione.

In questo periodo, la Chiesa subisce una serie di mutamenti: «Dalla condizione di piccola minoranza perseguitata passò a quella di organizzazione grande e influente; da setta molestata si tramutò in vessatrice di sette; ogni legame fra il cristianesimo e il giudaismo venne spezzato; si sviluppò una stretta relazione fra trono e altare; l’adesione alla Chiesa diventa una cosa data per scontata; il ministero del credente fu in gran parte dimenticato; il dogma venne definitivamente fissato e portato a compimento; la Chiesa si adattò alla lunga posticipazione del ritorno di Cristo; il movimento missionario apocalittico della Chiesa primitiva cedette il passo all’espansione del cristianesimo»45 . Da una Chiesa incentrata sulla missione si passa a una missione incentrata sulla Chiesa! Da una Chiesa che è missione a una chiesa che ha delle missioni.

2.3 Il monachesimo: il primo grande “movimento missionario”

A prima vista, il movimento monastico potrebbe apparire estraneo alla missione, eppure esso è stato contemporaneamente un soggetto primario dell’evangelizzazione dell’Europa, per più di settecento anni, dal V al XII secolo, oltre che il motore della cultura e della civiltà europea46 . Un ruolo significativo per la missione ebbe il monachesimo irlandese. Spinti dal desiderio di santificarsi secondo la tipica forma del “martirio bianco” (l’ascetismo)47, i monaci abbandonavano il loro monastero di origine e andavano pellegrinando di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio, “pellegrini per amore di Cristo”, senza fare più ritorno, come in un volontario esilio. Questi “monaci viaggiatori”, così poco ben visti da S. Benedetto, avevano fatto della “peregrinatio pro Dei amore”, della “peregrinatio pro Cristo”, un grande mezzo di santificazione personale e allo stesso tempo di evangelizzazione dei popoli ancora pagani.

Colomba s’imbarcò per la Scozia, nel 563, e si stabilì sull’isola di Iona, il cui monastero divenne un importante centro di irradiazione missionaria, punto di riferimento per tutta la Scozia e la cristianità celtica. Altro grande abate e grande missionario fu Colombano, animato da un irrefrenabile desiderio di “peregrinatio”, che visse secondo lo spirito di Abramo, abbandonandosi alla volontà di Dio. Attraverso la Bretagna e la Gallia franca giunse nell’Italia settentrionale fino a Bobbio, dove morì all’età di settant’anni nel 61548 .

L’apostolato missionario di Colombano e dei suoi discepoli fu per molti aspetti fortemente innovativo. Il suo impatto sulla vita religiosa e monastica del tempo può essere paragonato a una vigorosa marea che irrompe in una palude stagnante. Seguendo le tradizioni della Chiesa irlandese, egli introdusse nel continente europeo nuove consuetudini cenobitiche e liturgiche, nella Gallia franca divulgò la confessione e la prassi penitenziale privata, agli Alemanni e ai popoli ancora pagani della Borgogna annunciò il Vangelo, in Italia si inserì autorevolmente in un contesto religioso e politico particolarmente difficile, diviso tra l’eresia ariana dei Longobardi e la diffusione dello scisma ricapitolino. La vitale coesistenza tra ideale monastico, evangelizzazione, riforma della Chiesa, attaccamento alla cattedra di Pietro e amore per la cultura biblica e profana, tipica del monachesimo insulare, avrebbe infatti costituito l’elemento dinamico della nascente Europa cristiana e avrebbe assicurato alla Chiesa la sua universalità pur nella diversità di popoli e culture49 .

«Da predicatori itineranti, gli irlandesi si trasformarono in missionari; gli anglosassoni, invece, da missionari si trasformarono in organizzatori ecclesiastici» (Rosenkranz)50 .

2.4 Le crociate o “pellegrinaggi armati”: la missione “contra gentes” e il ritorno allo spirito del Vangelo

Quella delle crociate contro l’Islam è la fase missionaria «eseguita con mezzi diversi dagli ordinari», cioè con la guerra, intesa come ultima ratio, ossia à la Clausewitz come «la continuazione della politica con mezzi eccezionali», scrive Vanzin51 . Anche se, ribatte Dianich, «i tanti episodi di penetrazione dell’idea di guerra santa nell’autoscienza ecclesiale non possono, probabilmente, essere valutati come puri e semplici incidenti di percorso nel complesso e variegato cammino della Chiesa»52 e, quindi, nemmeno come ultima ratio. Qui di seguito non rievocheremo tutte le grandi spedizioni militari organizzate da papi e principi contro l’islam tra l’XI e il XII secolo. Merita, comunque, d’essere ricordato come lo spirito di crociata fosse un tratto costitutivo della civiltà cristiana dell’epoca, tanto da oltrepassare i limiti convenzionali del medioevo e da influenzare fortemente sia la conquista spagnola delle Americhe, sia il conflitto secolare con l’impero ottomano.

Le crociate o lotte per la conquista della Terra Santa, definite dallo storico Franco Cardini “pellegrinaggi armati” che nel nome del Vangelo rovesciarono il senso e l’avventura cristiana dell’amore e della pace, favorirono però nello stesso tempo alcuni tentativi di missione tra i musulmani di Siria e del Nord-Africa. Durante la crociata di Damietta del 1219 Francesco d’Assisi, accolto con stima e venerazione dal Sultano d’Egitto, cercò invano di convertirlo alla fede cristiana. Il suo tentativo segnò un ritorno allo spirito del Vangelo e suscitò schiere di imitatori: Francesco aveva compreso che il metodo della forza non era il più adatto per allargare il regno di Dio. Se i pagani non si convertivano era perché il Vangelo non era presentato nella sua semplicità e bellezza. E’ probabile che Francesco si fosse reso conto di come le crociate avessero aggravato le relazioni con l’Islam e con le comunità cristiane d’Oriente, soprattutto dopo la presa e la spogliazione di Costantinopoli da parte dei crociati. Fatto sta che la sua missione fu impostata sul modello evangelico: annuncio e martirio. Egli fu inoltre il primo tra i fondatori di ordini religiosi ad assegnare come compito ai suoi frati l’attività missionaria. Alle missioni è dedicato il cap. XII della Regola composta nel 1222.

I francescani e i domenicani si convinsero ben presto però che l’eroismo e l’audacia non bastavano. Bisognava comprendere l’Islam, acquistarne la fiducia, replicare ai suoi argomenti con ragioni valide. Era dunque necessario uno strumento di dialogo e di mutua comprensione, incluso lo studio della lingua araba. Raimondo di Peñafort, domenicano, organizzò una scuola per le lingue e su sua sollecitazione Tommaso d’Aquino compose la Summa contra gentiles, destinata ai cristiani e agli stessi missionari per avere argomenti adatti nelle dispute coi musulmani. Il terziario francescano Raimondo Lullo patrocinò la causa missionaria dello studio delle lingue orientali per arrivare a conoscere meglio il mondo medio-orientale e il musulmanesimo. A tale scopo fondò nell’isola di Maiorca un collegio missionario di francescani. In altre parole era preferibile l’uso di mezzi spirituali alle armi e alla violenza.

C’è un passaggio di Tommaso d’Aquino (Summa theologiae II-II,q.10,a.8) che potrebbe giustificare l’uso della forza contro i musulmani, poiché considerati eretici, piuttosto che non cristiani: «Ci sono degli increduli, come i giudei e i pagani, i quali non hanno mai abbracciata la fede. E questi non si devono costringere a credere in nessuna maniera (…). Ci sono invece altri increduli, i quali un tempo hanno accettato la fede e l’hanno professata: e sono gli eretici, e gli apostati di ogni genere. Costoro devono essere costretti anche fisicamente ad adempiere quanto promisero». Sicché l’uso della forza non sarebbe consentito nei confronti dei non cristiani e le crociate non sarebbero da annoverare tra i mezzi di evangelizzazione!

2.5 L’evangelizzazione dell’America: il monopolio del patronato o “padroado”

Lo smisurato allargamento di orizzonti, seguito alle nuove scoperte geografiche, aprì impensate prospettive all’attività missionaria. Nel nuovo mondo i missionari si trovarono di fronte i popoli più disparati, dalle lingue incomprensibili, dalle religioni e dagli usi estremamente vari e diversi. Attraverso l’istituzione del “patronato”, furono inoltre condizionati nel loro apostolato dalla politica delle potenze colonizzatrici, per le quali la conversione dei pagani costituiva uno dei capisaldi del loro programma di espansione.

Nei territori spagnoli delle Americhe la conquista divenne lotta contro il paganesimo, come la riconquista era stata lotta contro l’Islam. Essa avvenne nel nome della fede. Penetrando in una regione, le truppe emanavano ogni volta un proclama, col quale, sotto minaccia di pene severissime, era intimato agli abitanti di abbracciare il cristianesimo e di riconoscere la sovranità del re di Spagna. Chi rifiutava, perdeva la libertà o la vita. I conquistatori ricevevano inoltre la terra come feudo reale (encomienda) e avevano il diritto di costringere gli indiani a lavorarla.

Al seguito dei conquistatori i missionari non ebbero molto da ridire. Essi non erano preparati a questo nuovo tipo di apostolato e non avevano alcuna esperienza di popoli di altre culture. Il loro metodo era quello della tabula rasa e, se necessario, si ricorreva all’uso della forza. Ma ciò che condizionò la missione fu l’istituzione del patronato, che concedeva un duplice monopolio, di conquista e di commercio, e conferiva al re ampi poteri in materia di evangelizzazione. Il Portogallo difese in qualsiasi modo e ad ogni costo questo suo monopolio missionario praticamente fino alla caduta del suo impero coloniale negli anni Settanta del secolo XIX.

Il sistema del patronato regio sulle missioni ebbe come risultato una forte espansione del cristianesimo, soprattutto nelle Americhe e nelle Filippine, ma finì per essere una specie di carcere da cui non si poteva evadere. In pratica Roma veniva completamente esclusa dalla gestione delle nuove conquiste missionarie. Nessun documento papale aveva valore senza il previo esame del Consiglio delle Indie. Perfino la corrispondenza con Roma era controllata.

I costi complessivi dell’evangelizzazione in riferimento alle Indie Occidentali vedono un’elevata corresponsabilità cristiana53. Ma ci furono anche missionari difensori degli indios. Il primo fu Antonio de Montesinos, che, nel 1511, tornato in Spagna, perorò la causa degli indios davanti al re Ferdinando. Il più famoso difensore degli indios è in ogni modo Bartolomé de Las Casas, che attraversò l’oceano sette volte per perorare la loro causa di fronte al re Ferdinando, a Carlo V, a Filippo II e ai dottori delle università Sepúlveda e Vitória54 .

Bartolomé de Las Casas si era innamorato dell’America fin da bambino, ascoltando i racconti di Cristoforo Colombo. Ce lo testimoniano tutte le sue opere, profondamente impregnate dalle vicissitudini di questa passione. Da giovane amò l’America soprattutto come avventuriero, conquistatore, marinaio, prete encomendero, storico, avvocato, etnologo. Dopo la sua conversione – avvenuta in seguito all’ascolto di Antonio de Montesinos nell’ultima domenica di Avvento del 1511 – cominciò ad amare soprattutto gli indios. Messo in crisi dalle profetiche interpellanze di Montesinos – «Non sono anch’essi uomini? Non hanno anime di esseri razionali? Non dovete amarli come amate voi stessi?» –, Las Casas si spogliò dei panni del colonizzatore, divenendo il grande difensore degli indios, in America e in Europa (Spagna). Dedicò tutta la sua vita e la sua conoscenza – diritto, storia, etnologia, teologia – a servizio dei poveri. In una minuta di lettera indirizzata al papa Pio V e trovata dopo la sua morte si legge: «Supplico umilmente Sua Beatitudine di emanare un decreto che dichiari scomunicato e anatema chiunque giustifichi una guerra condotta contro gli infedeli, per la sola ragione che sono idolatri o con la scusa che la guerra aiuta l’evangelizzazione… Sia scomunicato anche chi dice che i pagani non sono i padroni legittimi delle loro terre o chi afferma che i pagani non sono in grado di accogliere il Vangelo e di conseguire la vita eterna, per quanto rozzi e pigri di spirito essi siano. Certamente non è il caso di questi indios, la cui causa ho difeso fino alla morte, affrontando grandi fatiche, per la gloria di Dio e della sua Chiesa»55 . Questa lettera me ne ha fatto venire in mente un’altra più recente, quella di Edith Stein al papa Pio XI con la richiesta di rompere il silenzio della Chiesa sulla persecuzione nazista contro gli ebrei. Una lettera estremamente lucida, piena di amore per Cristo, per la Chiesa e per il popolo ebraico.

Un altro esempio significativo di missione in questa epoca furono le “riduzioni” dei gesuiti sul rio Paraná tra gli indios guaranì, in Paraguay. Fu un esperimento durato quasi 150 anni, dal 1609 al 1768, quando per motivi politici venne soppresso da Roma. Quelle del Paraná non furono le uniche imprese di questo genere tra gli indios, ma furono certamente quelle meglio riuscite, anche perché ebbero l’approvazione della Corona spagnola. Si discute se le riduzioni mirassero a responsabilizzare gli indios e a creare comunità autonome, addirittura uno Stato indio-cristiano autonomo. Non sembra comunque che si possa parlare di comunità costituitesi con la violenza, ma tutt’al più di una troppo forte tutela da parte dei missionari. Sta di fatto che la fine di questo esperimento non fu provocata da deficienze interne. Essa fu causata da ragioni politiche, dall’opposizione dei colonizzatori e in alcuni casi da quegli stessi ecclesiastici che non vedevano di buon occhio l’esperimento. Occasioni immediate della sua fine furono la cessione di sette riduzioni al Portogallo, insediatosi nel vicino Brasile, le calunnie sparse dagli agenti del ministro portoghese Pombal contro i gesuiti, lo scioglimento della Compagnia di Gesù nel 1773 e, prima ancora, i razziatori di schiavi che venivano dal Brasile, per respingere i quali fu necessario provvedere gli indios di armi da fuoco56 .

2.6 Alcuni tentativi di inculturazione nell’Asia orientale: la questione dei riti

Ripercorrere le tappe principali dell’evangelizzazione dell’Oriente, in epoca moderna, tra Cinquecento e Settecento, significa ricostruire la storia di un sostanziale fallimento, soprattutto se pensiamo a quanto successo nel nuovo mondo cristianizzato da spagnoli e portoghesi sotto il vessillo della parabola evangelica del compelle intrare. A determinare questo fallimento fu la mancata conquista di questi paesi da parte di Spagna e Portogallo, come dimostrerebbe a contrario l’esempio delle Filippine. Ma la storia di questo insuccesso è anche costellata di generosi tentativi di diffondere il messaggio cristiano con strategie diverse, di inculturazione ante litteram, destinate a generare infiammate polemiche, come quelle relative ai riti cinesi e malabarici. E’ la storia anche di persecuzioni e di veri e propri pogrom anticristiani, dai martiri giapponesi a quelli cinesi57. In questo complesso panorama missionario, brillano alcuni tentativi di inculturazione, che trovano la loro conferma nei suggerimenti dati dal primo segretario di Propaganda Fide, mons. Ingoli, ai vicari apostolici dell’Indocina: «Non mettete alcun zelo, non avanzate alcun argomento per convincere questi popoli a cambiare i loro riti, i loro costumi e le loro usanze, a meno che non siano evidentemente contrari alla religione e alla morale. Che c’è di più assurdo del trasportare tra i Cinesi la Francia, la Spagna, l’Italia o qualche altro paese d’Europa? Non introducete da loro i nostri paesi, ma la fede, questa fede che non respinge né ferisce i riti né gli usi di alcun popolo, purché non siano odiosi (…) Non fate mai paralleli tra gli usi di questi popoli e quelli dell’Europa; anzi affrettatevi ad abituarvici». Ci limitiamo a descrivere soltanto alcuni figure: Roberto De Nobili, Francesco Saverio, Alessandro Valignano, Matteo Ricci.

Roberto de Nobili. Nel 1605 sbarcava a Goa un uomo che avrebbe tentato una via nuova di avvicinamento all’India. Contrario al metodo di assimilazione forzata (la “lusitanizzazione”) dei portoghesi, che faceva proseliti solo fra le caste più disprezzate, de Nobili rovesciò la prospettiva tradizionale di evangelizzazione e seguì la strategia di Matteo Ricci in Cina, e cioè l’adattamento del cristianesimo alla realtà locale. Spacciandosi, col consenso dei superiori, per un rajah romano, de Nobili divenne un sanyassy (un bramino penitente consacrato al celibato e ad una vita austera), imparò il sanscrito; con l’aiuto di alcuni bramini studiò i testi sacri e scrisse molte opere in lingua tamil, non abbandonando peraltro il proprio ministero missionario. De Nobili partiva dalla considerazione che in una società così rigidamente divisa in caste, i missionari che avevano contatto con i paria diventavano immondi. Per cui, se si voleva evitare che il discredito si diffondesse sulla religione cristiana, associata suo malgrado alla feccia più miserabile della popolazione, era necessario rivolgersi alle caste che avevano più prestigio nel paese. Gli oppositori, anche in questo caso, non mancarono. De Nobili dovette affrontare l’ostilità della gerarchia e l’accusa di apostasia, che gli valse anche una reprimenda dal card. Roberto Bellarmino. L’accettazione della divisione in caste della società indù ripugnava a coloro che pensavano che il messaggio di Cristo fosse diretto a tutti gli uomini indistintamente. Nella sua Apologia il gesuita dichiarò che aveva volutamente escluso le caste inferiori dalla cappella in cui diceva Messa per impedire che la religione cristiana fosse disprezzata. In fin dei conti anche Francesco Saverio aveva dovuto prendere atto che in Giappone la povertà non era affatto considerata un valore. I primi risultati non furono eclatanti. Solo a distanza di molti anni, nel 1629, si verificarono successi più significativi e anche la cifra di ben quattromila convertiti (riferita al 1644) comprenderà solo ventisei bramini. In effetti, de Nobili rimase abbastanza isolato: i missionari che seguirono il suo esempio furono soltanto sei, e dopo il 1675 questa strategia fu definitivamente abbandonata. Nel 1703, quando il legato apostolico Carlo Maillard de Tournon sbarcò in India, mise al bando i riti malabarici di cui i gesuiti si erano fatti paladini. Lo scontro proseguì con i cappuccini, che pubblicarono un’immensa massa documentaria contro la Compagnia58.

Francesco Saverio 59. La benevola accoglienza che ricevette Francesco Saverio dal governatore di Kagoshima e dal daimyô (signore) locale, che concesse ai missionari libertà di predicare, sembrava aprire le più ottimistiche prospettive. Dalle lettere di Francesco Saverio traspariva un vero e proprio entusiasmo per i giapponesi: un popolo intelligente, con grande senso dell’onore, cortese, temperato, colto: a questa qualità della popolazione faceva riscontro invece diffusa corruzione di costumi dei bonzi. Tuttavia il Saverio non riuscì ad uguagliare il successo ottenuto in India. In realtà, la benevolenza delle autorità locali non era dettata da gratuito altruismo o da improvvisa conversione alla nuova religione, ma trovava spesso motivazione nella curiosità intellettuale per i rappresentanti di una civiltà evoluta come quella europea e soprattutto negli esotici regali venuti dall’Occidente. L’eccessivo zelo di alcuni convertiti provocò tuttavia intolleranza e torbidi: uno dei daimyô si spinse fino a perseguitare shintoisti e buddisti, distruggendone i templi. Questa intolleranza, insieme all’accusa di commercio degli schiavi, fu uno dei capi di accusa che, sia pure in maniera strumentale, Hideyoshi, anche lui teso alla riunificazione del Giappone, rivolse ai missionari quando inaugurò una politica ostile nei loro confronti.

Quando nel 1579 Alessandro Valignano 60 sbarcò per la prima volta in Giappone, egli viveva questo clima di febbrile attesa comune a molti missionari, e nell’arco di tre anni riuscì ad elaborare un vero e proprio manuale di comportamento, fondato sull’attenta osservazione degli usi e costumi del paese, il Cerimoniale per i missionari del Giappone. Questa specie di galateo nipponico ad usum missionariorum era in realtà un piccolo trattato di strategia che i missionari dovevano attentamente studiare. Per esempio, nella loro opera di evangelizzazione non dovevano seguire il modello della povertà e delle mortificazioni, proprio degli ordini mendicanti, che tanta fortuna e diffusione aveva avuto in Europa, ma che in Giappone sarebbe stato disprezzato. In un paese in cui l’etichetta era fortemente sentita, erano assolutamente da evitare comportamenti anche involontariamente offensivi, come la mancanza di precedenza a chi spettava per strada, o l’assegnazione a tavola di un posto inadeguato al rango del convitato, o salutare in modo non conforme alle regole sia nell’incontrarsi che nel congedarsi.

Per difendere il loro metodo missionario, i gesuiti cercarono di convincere Roma di ottenere il monopolio dell’evangelizzazione in Giappone, dove si temeva che l’arrivo dei francescani portasse a degli inevitabili contrasti, a scapito della missione stessa. Per questo Valignano inviò un’ambasceria in Europa, formata da quattro nobili giovani allievi del seminario dei gesuiti di Arima. Tale ambasceria destò la diffidenza del potere centrale, geloso delle proprie prerogative e timoroso che i daimyô cristiani stringessero alleanza con potenze straniere. Nel 1587 Hideyoshi notificò al provinciale dei gesuiti, Gaspar Coelho, un editto in cui intimava ai padri della Compagnia di lasciare il paese. L’incauto comportamento di Coelho, che sollecitò, contro il decreto, la formazione di un fronte dei daimyô cristiani aggravò la situazione. Il ritorno del visitatore della Compagnia, Valignano, impresse una nuova direzione al corso degli eventi. Ci fu una nuova effimera crescita di convertiti, ma nell’ultimo decennio del secolo XVI, oltre alle rivalità tra i vari ordini missionari, furono gli intrighi della politica estera a determinare il destino del cattolicesimo in Giappone. Una violenta persecuzione si scatenò nel paese: sei francescani, tre novizi gesuiti e diciassette neofiti vennero crocifissi il 5 febbraio 1597 a Nagasaki. Nell’anno seguente Hideyoshi moriva . Il cattolicesimo, dopo un periodo di ripresa (nel 1606 si contavano addirittura 750.000 fedeli), cominciò una inarrestabile e definitiva parabola discendente.

Nel 1616 fu posta una vera e propria taglia su missionari e catechisti. Ma nonostante queste persecuzioni, i missionari continuarono ad operare nel paese in stato di semiclandestinità, giovandosi dell’appoggio dei convertiti. Nel 1622 si verificò il secondo martirio di Nagasaki. Negli anni successivi l’elenco dei martiri doveva allungarsi. Le cause del declino del cristianesimo possono essere individuate nel processo di unificazione del Giappone stesso, processo che si realizzò insistendo sugli elementi della tradizione giapponese e quindi ritorcendosi a totale svantaggio dei missionari percepiti come elementi di rottura della stessa tradizione. Altro elemento individuato dalla storiografia fu quello della progressiva espansione dei mercanti olandesi i quali agitando lo spettro dell’imperialismo iberico lo collegarono direttamente alla presenza dei missionari, percepiti come concreto pericolo politico.

Matteo Ricci. La lungimirante e singolare esperienza di M. Ricci in Cina, il quale sosteneva la legittimità dei “riti cinesi” fu interrotta e perciò fallì più per le difficoltà frapposte dagli stessi missionari in competizione tra loro che dalla Cina. Ricordiamo i contrasti relativi all’interpretazione dei “riti cinesi”, le sostanziali differenze di strategia missionaria, le incomprensioni e i sospetti di cui furono vittime i gesuiti da parte di altri ordini religiosi, le rivalità tra gli stessi ordini. L’esperienza di M. Ricci si svolge, infatti, in un momento difficile61. Tutti questi elementi appaiono alla base del fallimento della missione in Cina, missione dapprima fiorente e carica di buone premesse conclusasi poi drammaticamente con sanguinose persecuzioni, espulsioni e cancellazione della presenza cristiana. Alla base di quel fallimento lo storico Giacomo Di Fiore, dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, ha denunciato palesi demeriti poiché «quando non fu mantenuto ai gesuiti il controllo dell’evangelizzazione in Cina si diede corpo a polemiche, rivalità e meschinità, così non ci fu un fronte compatto e non si ebbe la pazienza di aspettare»62 . Certo ad alcuni osservatori di Propaganda Fide risultava incomprensibile e improduttiva la presenza dei gesuiti alla corte di Pechino, poiché impegnati in attività come pittori, orologiai, matematici, geografi. Agli occhi di altri missionari e della mentalità occidentale sembravano disattendere i compiti della missione e non portare alcun frutto. Eppure oggi essi ci appaiono attenti a penetrare a fondo la cultura e la religiosità cinese facendo acquistare progressivamente credibilità al cristianesimo. E se era pur vero che dopo due secoli sembravano non aver raggiunto risultati numericamente consistenti in quanto a convertiti, Di Fiore ha ricordato come anche la conversione dell’impero romano richiese tre secoli63 .

Matteo Ricci impostò tutta la sua missione in Cina sull’amicizia. Scrisse perciò un piccolo trattato sull’amicizia (De amicitia), che ebbe un grande successo fin dalla sua prima edizione, a Nanchino nel 1595. E’ uno specchio della vera amicizia, frutto della gratuità, che, per Matteo Ricci, si tradusse nella lealtà, sincerità, fraternità verso il popolo cinese. I 28 anni di vita da lui trascorsi in Cina furono una vera e propria escursione sulle alte vette dell’amicizia. Ricci ne curò tutte le tappe, con grande tensione. Di modo che il suo incontro con il popolo cinese non restò mai al livello della banalità, ma divenne subito una vera e propria contemplazione della plurimillenaria tradizione cinese, nel silenzio timoroso dello studio, prima; nella valorizzazione di quanto di bello e di buono, di giusto e di santo, l’antica tradizione cinese aveva intuito e trasmesso, in seguito. La sua amicizia si rivelò specialmente nella profonda simpatia, nutrita fin dall’inizio verso il popolo cinese nella sua totalità di storia, cultura e tradizione. Fino al giorno in cui gli si aprì la porta del dialogo alla corte imperiale di Pechino, nel 1601. Fu vera amicizia. Anche perché non impose condizioni ai cinesi – come invece faranno le potenze occidentali con i famosi trattati “diseguali” nei secoli XIX e XX – e non venne meno alla lealtà verso la Cina. Ne nacque un’esperienza entusiasmante ed esigente che ci sfida ancora oggi.

2.7 L’Africa: l’evangelizzazione coloniale fra luci e ombre

Le missioni in Africa dalla Conferenza di Berlino (1884-1885) fino agli anni che seguirono la seconda guerra mondiale vivono in un quadro abbastanza agitato, ma ricco di frutti. Nel 1920 lavoravano in Africa trentuno ordini religiosi maschili, tra i quali quattordici erano istituti missionari fondati di recente, e ventiquattro femminili. I catechisti nativi erano più di 9.50064 . Si nota una crescita missionaria mai vista prima in terra africana, le cui caratteristiche si possono così riassumere: a) progressiva penetrazione nelle zone interne; b) impostazione di metodi e di evangelizzazione abbastanza uniformi, con i quali si cerca di integrare l’annuncio evangelico con la promozione umana; c) studio delle lingue indigene, la loro trascrizione grammaticale, traduzioni di catechismi e della Sacra Scrittura; d) alfabetizzazione, sviluppo delle scuole e delle opere di carità, formazione di catechisti e dei primi seminari per il clero nativo65 .

Nasce un nuovo tipo di missione, anche dal punto di vista della sua ubicazione, del tipo di costruzioni e delle norme di vita quotidiana, una specie di “grande complesso monastico” nell’Africa del XIX e XX secolo. Non si parlava ancora di africanizzazione delle strutture ecclesiastiche, ma si cominciava a intravedere questa possibilità.

Alcuni aspetti caratteristici di questa missione. La fondazione delle Chiese africane locali si associa frequentemente alla storia di ciascuno degli istituti missionari, alle caratteristiche della loro spiritualità e della loro metodologia missionaria. A sua volta si vedono vincolate a determinate aree geografiche, culturali e politiche della vecchia Europa. Ciò influirà notevolmente sul tipo di presenza missionaria e sulla fisionomia delle chiese locali da loro fondate. E’ come se avessero trasmesso loro un “temperamento” ecclesiale proprio, tuttora visibile ai giorni nostri. La fondazione delle giovani Chiese africane è contrassegnata da autentiche prove di fuoco: gli ostacoli ambientali, la morte dei missionari, le ambiguità nelle relazioni con le potenze coloniali, l’ostilità musulmana e dei mercanti di schiavi, le difficoltà e le rivalità con i protestanti.

Qualche ombra. In alcuni luoghi le missioni sia cattoliche che protestanti si sono unite al potere coloniale in modo determinante, confondendo così missione con colonizzazione. E’ stato il caso delle missioni protestanti in Uganda, Kenya, Rodesia, Sudafrica, o delle missioni cattoliche in luoghi come il Congo belga, certi territori francesi e le colonie- province portoghesi.

Lo ius commissionis o affidamento esclusivo dell’evangelizzazione di un determinato territorio a un istituto particolare da una parte ha favorito lo sviluppo missionario, ma dall’altra lo ha limitato, privandolo della ricchezza ecclesiale e spirituale che altri istituti avrebbero potuto apportare. D’altra parte lo ius commissionis fu quasi imposto dalla nuova situazione coloniale. Era frequente che le potenze coloniali esigessero che la casa madre degli istituti evangelizzatori dei loro territori fosse posta nei loro domini e che i missionari fossero principalmente loro sudditi. Ciò dava alle potenze coloniali un controllo maggiore sulle attività missionarie. La stessa espulsione o il cambio dei missionari tedeschi delle vecchie colonie tedesche estinte dopo la prima guerra mondiale, l’esclusione dei missionari appartenenti a istituti fondati da spagnoli, italiani, tedeschi o da altri paesi delle colonie francesi o belghe, l’ammissione solo di francesi, belgi, tedeschi, portoghesi, inglesi, spagnoli o italiani nelle rispettive colonie spagnole o italiane, il permesso ai portoghesi di operare quasi esclusivamente nelle missioni dei territori portoghesi, ecc. sono una riprova di ciò.

Dopo la prima guerra mondiale, il continente africano comincia a raccogliere i benefici e le ambiguità dei suoi contatti con il mondo occidentale. Se da una parte entra nella tecnica, dall’altra dovrà affrontare una serie di urti violenti e di rotture brusche con un passato tradizionale ancora molto vicino e mai scomparso del tutto. Nonostante queste contraddizioni, il cristianesimo cresce in maniera strabiliante.

Dal punto di vita della metodologia missionaria, questa nuova fase è caratterizzata dall’importanza data ai catecumenato, ai catechisti e al metodo indiretto di evangelizzazione attraverso scuole e opere di carità e di promozione umana. Per quanto riguarda il mondo culturale africano, si ritrovano atteggiamenti apparentemente contradditori: l’interesse antropologico spinge molti missionari a raccogliere qualunque tipo di dati sul tema, mentre in molti si vede perfino un atteggiamento religioso negativo sugli usi, costumi e religioni tradizionali africane. Un cambio progressivo di atteggiamento ha luogo soprattutto a partire dal Vaticano II.

A partire dagli anni Cinquanta del XX secolo si verifica il fenomeno delle indipendenze politiche. Ha luogo una rinascita della coscienza nazionale e culturale propria, con manifestazioni multiple; alcune assumono comprensibili caratteristiche di radicalismo xenofobo. Rinascono antiche tradizioni culturali e religiose addormentate. La Chiesa si trova in difficoltà. A partire da tale esperienza dolorosa, nascono nuovi movimenti e nuove proposte di evangelizzazione: riunioni generali dell’Episcopato Africano unito nel SECAM (Simposium of Episcopal Conferences of Africa and Madagascar), Sinodi locali, congregazioni missionarie locali, Sinodo generale dei vescovi per l’Africa nel 1994, ecc. Nel 1969, Paolo VI a Kampala durante il primo simposio di tutti i vescovi dell’Africa e Madagascar disse: «Dovete essere missionari di voi stessi». Oggi la quasi totalità dei vescovi è di nativi. La Chiesa africana possiede ora i suoi santi e martiri nativi. Comincia anche a nascere una riflessione teologica, seppure con tutte le grandezze e ambiguità che tali inizi portano con sé66 .

Per concludere con il periodo coloniale, vorrei proporre il modello di Fr. Charles de Foucauld, il quale, in piena epoca coloniale, per mostrare soprattutto ai non cristiani il mistero di Gesù, gli mette in bocca queste parole: «Andate a stabilire i vostri devoti rifugi in mezzo a coloro che mi ignorano; portatemi tra loro, per mezzo di un altare, un tabernacolo; e portate l’Evangelo non predicandolo con la bocca, ma con l’esempio; non con una proclamazione, ma vivendolo». E’ a questo modello della “missione rinviata” o della “missione nascosta”, come li definisce Severino Dianich, che si è ispirata, in tempo di neocolonialismo globalizzato, Annalena Tonelli, una missionaria laica morta in Somalia, all’inizio del mese di ottobre 2003, per mano di un assassino il cui movente è ancora oscuro. Nata a Forlì, Annalena era rimasta affascinata dalla spiritualità di Foucauld. Perciò decise di seguirne laicamente – senza farsi suora – e poveramente – senza l’appoggio di forti istituzioni – la vocazione, condividendo la sua vita al servizio dei più poveri in seno al mondo islamico, prima in Kenya e poi in Somalia. Un anno prima, in Vaticano, in occasione della giornata internazionale del volontariato, aveva accettato – non senza difficoltà, a causa della sua riluttanza a parlare in pubblico – di condividere la sua testimonianza di vita: «Volevo seguire Gesù, disse, e scelsi di essere per i poveri. Per lui feci una scelta di povertà radicale, anche se povera come un povero io non potrò mai esserlo. Vivo il mio servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamento di contributi per quando sarò vecchia. Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta di Dio. Partii decisa a gridare il Vangelo con la mia vita sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Trentatre anni dopo, grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a farlo sino alla fine. Questa la mia motivazione di fondo, insieme a una passione da sempre invincibile per l’uomo ferito e diminuito senza averlo meritato, al di là della razza, della cultura e della fede».

Conclusione

La storia dell’evangelizzazione, con i suoi molteplici e giustapposti o contrapposti modelli di missione, ci insegna che non esiste un metodo valido sempre, urbi et orbi. Dall’osmosi dei primi tre secoli, all’espansione attraverso i capi di governo, i principi e i re convertiti alla religione cristiana, dal modello monastico a quello degli ordini mendicanti – S. Francecso d’Assisi – in tempo di crociate, dal metodo della tabula rasa nelle Americhe alla missione coloniale in Africa all’evangelizzazione inculturata in Asia, abbiamo compreso che la presenza missionaria della Chiesa conquista davvero il mondo solo quando ritorna al Vangelo di Gesù Cristo, quando cioè testimonia la “differenza cristiana”67 , la bellezza del Vangelo, tesoro nascosto in fragili vasi di creta.


1 Cf. G. MARTINA, «La coscienza che la Chiesa ha avuto della sua missione dall’Ottocento al Vaticano II», in ATI, Coscienza e missione di Chiesa. Atti del VII Congresso nazionale, Cittadella, Assisi 1977, pp. 15-98.
2 Cf. J. COMBY, Duemila anni di evangelizzazione, SEI, Torino 1994. Inoltre, cf. J. METZLER, La Santa Sede e le missioni. La politica missionaria della Chiesa nei secoli XIX e XX, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002.
3 Per quanto riguarda il continente africano, si vedano le monumentali opere di B. SUNDKLER – CH. STEED, A history of the Church in Africa, Cambridge University Press, Cambridge 2000 e dell’illustre professore del SOAS di Londra, recentemente scomparso, A. HASTINGS, A History of African Cristianity (1950-1975), London 1979; The Church in Africa (1450-1950), London 1994.
4 Cf. E. DUSSEL, Storia della Chiesa in America Latina (1492-1992), Queriniana, Brescia 1992. Dello stesso autore, cf. História da Igreja Latino/americana (1930-1985), Paulinas, São Paulo 1989. Inoltre, cf. AA. VV., América Latina: 500 anos de evangelização, Paulinas, São Paulo 1990; L. Boff, América Latina: da conquista à nova evangelização, Aditora Ática, São Paulo 1992.
5 Si veda, a proposito di paradigmaticità della missione, anche a livello pastorale, il documento della CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato Italiano per il primo decennio del 2000, EDB, Bologna 2001, n. 32: «La missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo dell’impegno pastorale, ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza».
6 Cf. P. WITTMANN, Die Herrlichkeit der Kirche in ihren Missionen seit der Glaubenspaltung. Eine allgemaine Geschichte der katholischen Missionen in den letzten drei Jahhunderten, 2 voll., Augsburg 1841 (tad. italiana: La gloria della Chiesa nelle sue Missioni dall’epoca dello scisma nella fede, ossia Una Storia Universale delle cattoliche Missioni negli ultimi tre secoli, Milano 1842- 1843).
7 Oltre questa prima edizione, ve ne furono altre discretamente ampliate, l’ultima delle quali nel 1924 (2 voll., J: C. Hinrich’sche Buchhandlung, Lepzig 1924). La prima traduzione italiana è del 1906 (Bocca, Torino) e si rifà alla seconda edizione tedesca, dello stesso anno. La seconda edizione italiana (Bocca, Torino 1945) non fu che la semplice ristampa della prima ed anche un’ulteriore edizione italiana (Lionello, Cosenza 1986) ha mantenuto questi limiti.
8 La significatività dell’opera si deduce anche dalle numerose edizioni: pubblicata a Berlino nel 1910, giunse rapidamente alla decima edizione, notevolmente aumentata sulla prima, già nel 1913. Esiste anche una traduzione inglese. Qualche anno più tardi appare l’opera di CH. H. ROBINSON, History of Christian Missions (Clark, Edinburgh 1915), con particolare riferimento ai metodi protestanti.
9 Cf. J. SCHMIDLIN, Katholische Missionsgeschichte, Steyl, 1924 (trad. italiana del padre G. B. Tragella: Manuale di Storia delle Missioni Cattoliche, 3 voll., Milano 1927-1929; 2 ed. del primo volume nel 1943).
10 Sulle fonti lo Schmidlin aveva già messo in cantiere, insieme con il padre Streit, l’imponente Biblioteca Missionum, il cui primo volume uscì nel 1916. Oggi ne conta 30. Per l’aggiornamento annuale della bibliografia missionaria, anche dal punto di vista della storia delle missioni, dal 1935 si pubblica la Bibliografia Missionaria, in seguito diventata Bibliographia Missionaria, a cura della Pontificia Biblioteca Missionaria della PUU. Una pregevole bibliografia sulla storia delle missioni è fornita anche da A. SANTOS, Bibliografia Misional II: Parte Histórica, Santander 1965 (vi si indicano 3633 libri con giudizio critico, oltre a numerosi articoli di riviste).
11 Cf. A. MULDERS, Missiegeschiedenis, Bussum 1957 (trad. tedesca del 1960, Regensburg). Si tratta di un manuale che aggiorna e completa quello dello Schmidlin.
12 Cf. R. G. VILLOSLADA, Los historiadores de las misiones. Origen y desarrollo de la bibliografía misional, Bilbao 1956. Opera utile soprattutto per l’aggiornamento e la valorizzazione delle indicazioni bibliografiche.
13 Cf. B. DESCHAMPS, Histoire générale des missions, AUCAM, Louvain 1932. Opera in collaborazione, scientificamente disomogenea, che dipende dagli autori.
14 Cf. F. J. MOLTMANN, Manual de Historia de las Misiones, Bilbao 1952 (la prima edizione è in latino, Shangai 1935). Opera erudita, bibliograficamente ben fornita; pregevoli le sezioni riguardanti la Cina e l’America Latina.
15 Cf. S. DELACROIX (dir.), Histoire universelle des Missions Catholiques, 4 voll., Editions de l’Acanthe- Grund, Monaco-Paris 1956-1959. Un’opera di grande respiro, che ha segnato una tappa importante nella storiografia missionaria, perché non presenta solo la successione dei fatti, ma anche le figure dei grandi missionari, le loro idee e i diversi metodi (S. Bonifacio, Raimondo Lullo, S. Francesco Saverio, Valignano, Ricci, de Nobili, de Rhodes, ecc.). Inoltre, mette in risalto il rapporto del cristianesimo con le diverse culture, presentando l’azione missionaria della Chiesa nei contatti con le religioni non cristiane e con i fratelli non cattolici, nel dialogo con il mondo moderno e postcristiano.
16 Cf. B. DE VAULX, Le Missioni: loro storia. Dalle origini a Benedetto XV, Paoline 1961. L’autore traccia un panorama abbastanza completo ed organico della storia delle missioni, anche se in modo molto essenziale. Il volumetto può essere utilmente completato da un’ottima antologia di documentazione dovuta allo stesso autore: B. DE VAULX, Les plus beaux textes sur les missions, Paris 1954. Inoltre: cf. T. OHM, Les principaux faits de l’histoire des missions, Casterman, Tournai 1961 (trad. dall’orig. tedesco del 1956, Münster).
17 Cf. G. ROSCHINI, Le Missioni Cattoliche, Torino 1939.
18 Cf. C. COSTANTINI, Le Missioni Cattoliche, Milano 1949.
19 Cf. L. A. GRAZZI, «Modi e metodi dell’evangelizzazione», “Fede e Civiltà” (5/1963) 1-48.
20 Del padre D’Elia meritano una menzione particolare soprattutto la cura delle Fonti Ricciane e gli articoli pubblicati in “La Civiltà Cattolica”.
21 Del padre Tragella ricordiamo tra gli altri i seguenti studi: Pio XI Papa Missionario (Milano 1930); Frontiere d’Asia illuminate (Milano 1938); Italia Missionaria (Itala Gens-PIME, Roma-Milano 1939); L’Impero di Cristo (Firenze 1941); Chiesa conquistatrice (Roma 1941);
22 Cf. Cf. K. S. LATOURETTE, A History of the Expansion of Christianity, 7 voll., New York 1937-1945 (esiste anche un compendio di quest’opera, The Christian Outlook, del 1948).
23 Secondo S. Tanzarella l’intento edificante ed apologetico non si è ancora del tutto estinto nell’universo accademico della ricerca e della didattica che impegnano i credenti: cf. S. TANZARELLA, La purificazione della memoria. Il compito della storia tra oblio e revisionismo, EDB, Bologna 2001, pp. 29-39.
24 Cf. G. MARTINA e U. DOVERE (a cura di), Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici (Atti del XII Convegno di studio dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa, Palermo 19-22 settembre 2000), Il Mulino, Bologna 2001; S. TANZARELLA, «Problemi storiografici dell’evangelizzazione», in “Rassegna di Teologia” 42 (2001) 567-583.
25 Per Dianich i modelli sono «immagini e quadri mentali in sé coerenti e completi, che vengono utilizzati come riproduzioni in miniatura di realtà molto grandi e complesse, sì da essere facilmente utilizzabili nell’affrontare problemi di dettaglio insorgenti all’interno delle stesse realtà o ad esse conseguenti»: in ID., Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 80. Si può parlare di diversi modelli corrispondenti a epoche diverse, ma anche di modelli diversi che coesistono nella medesima epoca. Per questo concetto di modello, Dianich rimanda anche a A. DULLES, Models of the church, Gill and Macmillan, Dublin 1977.
26 Cf. IBID., pp. 81- 133.
27 Per paradigma Bosch intende il quadro di riferimento di un’epoca, soggetto a mutamento anche a livello di comprensione della missione: cf. ID., La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigma in missiologia, Queriniana, Brescia 2000, pp. 257ss.
28 Cf. IBID., pp. 257-704.
29 Cf. V. C. VANZIN, Le vie della conquista, UMdC, Roma 1942. Mi permetto di citarne solo alcune: la via dell’universalità, la via della civiltà, la via dell’arte, la via del combattimento, la via del silenzio, la via del danaro, la via della verità, la via del cuore, la via della maternità, ecc.
30 Cf. ID., Problemi della conquista missionaria, pp. 15-18.
31 Nel suo Manuale di storia delle missioni cattoliche (vol. I, PIME, Milano 1943, p. 11), J. Schmidlin, pur consapevole che la divisione o periodizzazione della storia delle missioni deve seguire leggi proprie e norme che non combaciano con la storia universale e nemmeno con la storia della Chiesa – quelle appunto della diversità dei metodi missionari –, si adatta all’uso corrente dividendo la storia missionaria nelle solite epoche (antichità, medioevo, evo moderno ed evo contemporaneo). Lo stesso schema è seguito da Vanzin nella seconda parte («Lineamenti storici della cooperazione missionaria») dell’opera Il fermento del Regno, pp.49-139.
32 Cf. S. DIANICH, op. cit., pp. 104-113.
33 Cf. F. DE LELLIS, Magdaleine di Gesù e le Piccole Sorelle nel mondo dell’Islam, EMI, Bologna 2006.
34 G. FILORAMO e D. MENOZZI (a cura di), Storia del cristianesimo. L’antichità, Laterza, Roma-Bari 1997.
35 Cf. P. SINISCALCO, «L’evangelizzazione dei popoli del Mediterraneo nei primi secoli cristiani», in G. MARTINA e U. DOVERE, Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna 2001, p. 70.
36 Apologeticum 50,13.
37 J. LORTZ, Storia della Chiesa nello sviluppo delle sue idee, Paoline, Alba 1958, p 36.
38 Cf. P. SINISCALCO, art. cit., in G. MARTINA e U. DOVERE (a cura di), op. cit., p. 63.
39 Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, p. 276.
40 V. C. VANZIN, Il fermento del regno, UMdC, Roma 1946, p. 52.
41 Cf. S. DIANICH, op. cit., p. 84.
42 Cf. G. MARTINA, «Evangelizzazione e inculturazione», in G. MARTINA e U. DOVERE (a cura di), op. cit., pp. 11-16.
43 Cf. V. PERI, «L’adesione al cristianesimo dei popoli germanici e slavi», in G. MARTINA e U, DOVERE, Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 73-74.
44 V. PERI, «L’adesione al cristianesimo dei popoli germanici e slavi», in G. MARTINA e U, DOVERE, Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna 2001, p. 85..
45 D. BOSCH, op. cit., p. 333.
46 Cf. D. BOSCH, op. cit., p. 325. Cf. G. CASIRAGHI, Storia e futuro della missione. La purificazione della memoria, EMI, Bologna 2001, pp. 49-59.
47 D. BOSCH, op. cit., p. 325.
48 Cf. G. CASIRAGHI, op. cit., pp. 60ss.
49 Cf. IBID., pp. 65-69.
50 G. ROSENKRANZ, Die christliche Mission. Geschichte und Theologie, Chr. Kaiser Verlag, München 1977, p. 130.
51 V. C. VANZIN, Problemi della conquista missionaria, AVE, Roma 1946, p. 17.
52 S. DIANICH, op. cit., pp. 109-110.
53 Cf. M. LEÓN-PORTILLA, A conquista da América Latina vista pelos índios. Relatos astecas, maias e incas, Vozes, Petrópolis 1987.
54 G. GUTIÉRREZ, Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana, Brescia 1995. Cf. B. DE LAS CASAS, Brevissima relazione dela distruzione delle Indie, ECP. Fiesole 1991.
55 cit. in F. C. JOSAPHAT, Contemplação e libertação, Editora Ática, São Paulo 1995, p. 143.
56 Cf. A. TRENTO, Il cristianesimo felice. Riduzioni gesuitiche; Marietti, Genova-Milano 2003.
57 Cf. G. DI FIORE, «Strategie di evangelizzazione nell’Oriente asiatico», in G. MARTINA e UGO DOVERE, Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 97-162.
58 Cf. S. DELACROIX (dir.), Histoire universelle des Missions Catholiques, vol. II., Editions de l’Acanthe-Grund, Monaco-Paris 1957, pp. 44-49.
59 Cf. J. BRODRICK, San Francesco Saverio apostolo delle Indie e del Giappone (1506-1552), EMI, Bologna 20062.
60 Cf. A. LUCA, Alessandro valignano. La missione come dialogo con i popoli e le culture, EMI, Bologna 2005.
61 Questi contrasti di strategia missionaria trovano conferma in quanto scriveva P. Lécrivain: «I gesuiti del XVII secolo, preoccupati di assumere ogni valore umano e facendo forza sul prestigio che loro conferivano le loro conoscenze scientifiche, scelsero di cristianizzare quanto già esisteva. Gli altri ordini e il clero secolare furono più timidi, più sensibili ai rischi che correva il cristianesimo se, per caso, si fosse distaccato dalla cultura, quella occidentale, che faceva un tutt’uno con la sua storia: essi proposero, così come era, la fede dell’Occidente» («Le grandi tappe dell’inculturazione»), in G. LANGEVIN – R. PIRRO (edd.), Gesù Cristo e le culture nel mondo e nella storia, Cittadella, assisi 1993, p. 48.
62 Cf. G. DI FIORE, «Strategie di evangelizzazione nell’Oriente asiatico», in G. MARTINA e UGO DOVERE, Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 139ss.
63 Cf. G. RICCIARDOLO, Oriente e Occidente negli scritti di Matteo Ricci, Chirico, Napoli 2003.
64 Compendio si storia della Sacra Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, PUU, Roma 1974, p. 163.
65 Cf. F. GONZÁLEZ FERNÁNDEZ, «L’attività missionaria in Africa tra Ottocento e Novecento», in G. MARTINA e UGO DOVERE, Il cammino dell’evangelizzazione. Problemi storiografici, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 244ss.
66 E. NTAKARUTIMANA, Vers une théologie africane, Editions Universitaires, Fribourg Suisse 2002.
67 Cf. E. BIANCHI, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006.


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