“PARTECIPARE” ALLA LITURGIA. PERCHE? COME?

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1.Il 20 aprile 2000 il Santo Padre Giovanni Paolo II approvava la “terza edizione tipica” del Missale Romanum “riformato a norma del Concilio Ecumenico Vaticano II”.

Tale edizione giungeva a trent’anni dalla “prima edizione tipica”, che la Sacra Congregazione per il Culto Divino aveva promulgato il 26 marzo 1970, a cui aveva fatto seguito la “seconda edizione tipica” il 27 marzo 1975.

La partecipazione “attiva” dei fedeli alla liturgia è stata definita, con una discutibile formula ad effetto, “il cavallo di battaglia” della riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II.

L’assise ecumenica (1962-1965) se n’è occupata soprattutto nella I sessione, conclusasi il 4 dicembre 1963 con la promulgazione della costituzione Sacrosanctum Concilium [= SC] che ha avviato il processo di revisione dei libri liturgici e il rinnovamento nella mentalità e nello stile delle celebrazioni ecclesiali che si è praticamente concluso nell’arco di poco più di dieci anni.

Il documento conciliare è stato, tuttavia, il traguardo e lo sbocco di un lungo e travagliato cammino che ha mosso i primi passi nei secc. XVIII e XIX, in alcuni ambienti dell’illuminismo cattolico europeo ai quali va il merito della riscoperta delle antiche fonti liturgiche e patristiche, l’avvio del rinnovamento nell’ecclesiologia e il sorgere sommesso dell’istanza di una partecipazione più attiva al culto della Chiesa.

Per quanto attiene all’Italia un accenno – anche perché di attualità – lo merita la nota opera di Antonio Rosmini, recentemente beatificato, in primo momento messa all’Indice, dal titolo Le cinque piaghe della santa Chiesa, pubblicata nel 1848, delle quali la prima appunto La separazione tra il clero e i fedeli nel pubblico culto.

La denuncia “profetica” del roveretano suscitò non poche critiche anche se era pienamente fondata. A partire dal medioevo, infatti, il distacco tra ciò che avveniva nel presbiterio e la navata, si era fatto sempre più forte.

Oggi, con le ricerche e gli studi compiuti su questa materia ci sono ben note le cause storico-culturali che lo hanno determinato. La liturgia di fatto era percepita e celebrata come opus solius cleri, un “affare” cioè riservato ai sacri ministri e in una cornice cerimoniale segnata non raramente da esteriorità e formalismo. I fedeli “assistevano” e “ascoltavano”, i più senza comprendere la lingua e tanto meno il linguaggio rituale che, desunto in gran parte dalla Bibbia, non era conosciuto se non da pochi eletti.

Erano diventati dunque “muti ed estranei spettatori”, costretti in qualche modo ad alimentare la loro devozione, durante le azioni liturgiche, ai pii esercizi e la loro esperienza di fede ai sermoni che ad esse si sovrapponevano… I più anziani lo ricordano ancora.

Il superamento di una situazione del genere, secondo gli studiosi, prende provvidenzialmente le prime mosse da un documento di Pio X dal titolo: Tra le sollecitudini: un “motu proprio” del 1903 che si proponeva di correggere gravi abusi che si erano fatti strada nella musica liturgica nei secoli immediatamente precedenti.

C’è una frase nel Proemio di quel documento, quale si ritrova anche nella SC, che descrive la liturgia come “la prima e indispensabile fonte a cui i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano”. L’affermazione, tuttavia, sembrava non trovare corrispondenza nella prassi del tempo, anche se profondamente vera, se si riflette su ciò o meglio a Colui che si celebra nei santi misteri.

Cosa e come fare allora per non vederla smentita dai fatti?

Proprio per rispondere a questi e ad altri interrogativi nasce e si sviluppa in Europa, a partire dalla Germania e dalla Francia per giungere poi anche in Italia il Movimento liturgico che vede protagonisti intellettuali cattolici e insigni monaci benedettini, ma anche pastori d’anime che danno vita a studi, ricerche e iniziative aventi di mira non solo l’approfondimento sulla natura della liturgia sotto l’aspetto biblico-teologico, il rinnovamento pastorale ma anche al fine di “restituire la liturgia al popolo e il popolo alla liturgia”, per utilizzare un’espressione cara al benedettino Cipriano Vagaggini che fu uno degli esponenti più qualificati del movimento liturgico italiano nella sua ultima fase.

L’istanza fondamentale maturata in seno al movimento e in altri ambienti ecclesiali della prima metà del secolo appena trascorso è stata quella di una riforma generale della liturgia.

Lo studio per la sua realizzazione è iniziato, quasi in coincidenza della pubblicazione dell’enciclica di Pio XII Mediator Dei (1947), con la costituzione di una Commissione segreta istituita dallo stesso Papa.

I primi frutti di questo lavoro furono la riforma della Veglia pasquale e della Settimana Santa agli inizi degli anni ’ 50. Nel 1958 Pio XII pubblica una Istruzione sulla musica sacra nella sacra liturgia nella quale un ampio spazio della prima parte è dedicato alla partecipazione attiva alla celebrazione eucaristica e alle sue forme di attuazione. Giungiamo così alla vigilia del Concilio indetto – com’è noto – dal successore, Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959.

 

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La partecipazione dei fedeli alla liturgia è stato certamente uno dei grandi obiettivi del primo documento discusso in Concilio, approvato e promulgato il 4 dicembre 1963, dal titolo Sacrosanctum Concilium. In esso l’istanza pastorale della partecipazione scaturisce da un profondo ripensamento sulla natura della liturgia che ha attinto, come a suo fondamento, alla Rivelazione e cioè alla Scrittura e alla Tradizione e si è avvalso degli studi storico-critici sulle fonti pubblicati nel periodo precedente dal movimento liturgico. Naturalmente a ciò ha contribuito anche il rinnovamento avvenuto in altri settori, come quello dell’ecclesiologia, del rinnovamento biblico-patristico ed ecumenico. Al punto tale che l’ampia e approfondita discussione sullo schema de sacra Liturgia ha spianato notevolmente la strada a quella dei successivi documenti.

In un noto discorso del 6 aprile 1966 Paolo VI così si esprimeva: “La partecipazione è una delle affermazioni più autorevoli e frequenti del Concilio sulla liturgia…, uno dei princìpi più caratteristici della dottrina e della riforma conciliare”.

Difatti la SC la menziona ben 16 volte e lo stesso fanno altri nove documenti conciliari. È problema veramente “cruciale” perché strettamente connesso con due questioni teologiche fondamentali che hanno contribuito in maniera decisiva a mutare il “paradigma” della liturgia, dell’Eucaristia e dei sacramenti in particolare, rispetto a quello medioevale. E cioè: la liturgia come “mistero del culto”, in connessione con la teologia dei misteri di O. Casel definita dal teologo Ratzinger “probabilmente l’idea teologica più fruttuosa del XX secolo”; la seconda relativa alla liturgia non solo come “azione di Cristo” ma anche “della Chiesa”, la quale non è solo destinataria del dono della salvezza, ma è anche per certi aspetti, “protagonista” dell’atto di culto che l’ attualizza nel rito.

In parole più semplici la partecipazione del popolo di Dio, e dunque dei fedeli, scaturisce dalla natura stessa dell’evento liturgico, come si evince dalla stessa etimologia del termine che mette insieme “azione” e “popolo”. La liturgia, infatti, “fa” il popolo di Dio, gli comunica il dono salvifico, lo introduce nella comunione con Cristo; ma è vero anche che il popolo di Dio “fa” la liturgia. Naturalmente – e va sottolineato – si tratta del “popolo radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito e ordinato sotto la guida dei pastori” secondo la bella espressione di San Cipriano citata anche da SC al n. 26.

È chiaro allora che riscoprire il senso pieno della partecipazione attiva alla celebrazione dei santi misteri, significa riscoprire il contenuto profondo e le finalità dell’atto di culto cristiano, in quanto opera di Cristo e della Chiesa.

Della partecipazione attiva dei fedeli la SC s’interessa particolarmente e puntualmente in due punti. Anzitutto al n. 14, nel più ampio cotesto del I capitolo che ha come tema Principi generali per la riforma e l’incremento della sacra liturgia. Vi si afferma che “la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche è richiesta dalla natura stessa della Liturgia”, in quanto azione del popolo e per il popolo, come si diceva appena sopra. Essa è “diritto e dovere dei fedeli in forza del battesimo”, in quanto essi formano il popolo sacerdotale. Un diritto che va rispettato e onorato e un dovere che va consapevolmente e fedelmente assolto. Sono quindi puntualizzate le caratteristiche salienti della partecipazione che è chiamata ad essere “piena, consapevole e attiva”. Si conclude affermando che la Madre Chiesa desidera che una tale partecipazione sia posta in atto, ma soprattutto che pastori e fedeli siano ad essa adeguatamente “formati”.

Il discorso sulla partecipazione ritorna poi nel II capitolo, dedicato al Mistero eucaristico, e precisamente al n. 48, nel quale c’è un passaggio che merita una particolare sottolineatura. Qui il desiderio espresso nel numero già citato si traduce in “preoccupazione”. “La Chiesa – recita il testo –si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come muti ed estranei spettatori a questo mistero di fede, ma comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti dalla parola di Dio, si nutrano alla mensa del Corpo del Signore, rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata… offrano se stessi”.

Si tratta di un testo davvero fondamentale per vari aspetti. Anzitutto perché si colgono il senso e lo spessore del “partecipare”. Le sue due dimensioni o aspetti, da considerare distinti ma non separabili la partecipazione all’azione rituale con parole, gesti, movimenti, canto, ecc. ma anche – e prima di tutto – come partecipazione “liturgica” al mistero.

Quest’ultima, oggettivamente più importante, è prioritaria sul piano del valore e dei contenuti è requisito indispensabile per la seconda. Senza questa, infatti, si rischia di far scadere la prima a livello di puro e sterile attivismo religioso. Scrive S. Marsili: “La celebrazione liturgica è tutta sul piano simbolico”, cioè svela e rende presente il Mistero attraverso “riti e preghiere”; obbedisce cioè alla “legge della sacramentalità” ovvero dell’incarnazione che presiede a tutta l’economia della salvezza (cf. Dei Verbum, n. 2). “Ciò che ci viene presentato dal simbolo rituale non è offerto alla nostra coscienza intellettiva, come qualcosa che nella sua realtà oggettiva resta di fronte, al di fuori di noi, ma ci viene offerto come realtà che si immedesima in noi coinvolgendoci nel nostro esistere e nel nostro essere”.

L’obiettivo a cui mira il simbolo liturgico e quindi la partecipazione è perciò la nostra divinizzazione, la conformazione al Cristo pasquale e la comunione al suo Corpo che è la Chiesa. In una parola è la salvezza di cui il Signore vuole farci dono. Partecipare, in questa prospettiva, comporta l’accoglienza del dono, nella fede. È questa la partecipazione “pia”: fatta di stupore, di rendimento di grazie e in ultima analisi di fede che non può mai darsi per scontata. È frutto di formazione, di educazione o meglio di “iniziazione”.

La Chiesa dei primi secoli l’ha realizzata con la mistagogia, come un percorso cioè nel quale si fondono insieme conoscenza ed esperienza, catechesi e familiarità con i santi misteri attraverso una celebrazione che sia come affermano i Vescovi italiani negli “Orientamenti pastorali” per il decennio in corso “seria, semplice e bella” (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 49).

Senza questa manuductio il rischio di naufragare nelle secche dell’attivismo, ovvero di ridurre la partecipazione a puro godimento estetico e la liturgia a spettacolo ovvero a cerimonie esteriori, è tutt’altro che ipotetico. Partecipare è anzitutto accogliere un dono, quello dello Spirito che il Risorto offre ai credenti nella celebrazione dei santi misteri attraverso l’azione simbolico-rituale; accoglierlo consapevolmente, con stupore, nella gioia e nell’azione di grazie. La partecipazione “attiva” è dunque prima di tutto l’inserimento nell’atto di culto che Cristo Signore ha reso al Padre con “il suo sacrificio pasquale e che tuttora gli rende sempre vivo ad intercedere a nostro favore” (Eb 7,34) e di cui lo Spirito ci rende idonei. È questo il culto “in spirito e verità” che Gesù è venuto ad inaugurare e proporre ai suoi discepoli e che il Padre ricerca dai suoi adoratori (cf. Gv 4,23).

Se le parole e i gesti che costituiscono l’ordito di ogni celebrazione, soprattutto sacramentale, sono percepiti e accolti come “veicolo” che narra e rende presente la perenne alleanza di Dio con gli uomini nel suo Figlio crocifisso e risorto e ci inserisce in essa; se la memoria diventa presenza qui-e-oggi per la comunità che celebra e per ciascuno dei suoi membri; se ciò che è avvenuto “in quel tempo”, avviene “oggi” per coloro che credono (la liturgia implica la fede e ne è “professione in atto”), allora non si è solo spettatori di un “evento”, ma se ne diventa in certo modo “protagonisti”. La celebrazione, infatti, vuole farci partecipi del Mistero, ma ciò avviene in mysterio attraverso la mediazione simbolica.

In questo Dio, nella sua condiscendenza, si “adatta” all’uomo “spirito incarnato” (San Tommaso) che conosce, entra in relazione, stabilisce legami in primo luogo attraverso mediazioni sensibili. Ciò vale anche per la comunione alla quale Dio invita e ammette gli uomini che, con la fede, si aprono al suo progetto di salvezza.

Solo così la partecipazione “attiva” nel senso più immediato e concreto di coinvolgimento di tutto l’uomo e dell’assemblea intera diventa “vera” e fruttuosa.

 

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Se quanto si è cercato di esporre – anche se in forma forzatamente breve – è vero e teologicamente fondato, allora ci si rende conto facilmente quanto è importante e urgente riprendere, a distanza da oltre quarant’anni dal Concilio, il discorso intorno alla partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia.

Se i frutti spirituali e pastorali della riforma e del rinnovamento che ne è seguito non sono stati raccolti nella misura sperata, una delle ragioni è anche e soprattutto perché non è stato colto il senso autentico e pieno del partecipare. È la stessa causa che spiega i lamentati abusi che talora si sono introdotti nella celebrazione come pure le resistenze e i ritardi che si sono incontrati, sia da parte dei fedeli che dei pastori.

La Costituzione liturgica, al n. 43, parafrasando una celebre affermazione di Pio XII fatta in occasione del Congresso internazionale di liturgia svoltosi ad Assisi nel 1956, dice che “l’interesse per il rinnovamento e l’incremento della liturgia (sancito autorevolmente dal Vaticano II) deve essere considerato un segno dei provvidenziali disegni di Dio nel nostro tempo”; non solo ma “come passaggio dello Spirito santo nella sua Chiesa”. Chi ha vissuto quell’evento ne ha fatto concreta esperienza e ha cercato di lasciarsi muovere da quel “vento”.

Per diverse ragioni si lamentano da più parti e da diverso tempo una fase di stanchezza e qualche spinta persino a tornare indietro. Giovanni Paolo II, nella conclusione della lettera apostolica Vicesimus quintus annus, scritta per commemorare il XXV anniversario della SC dichiara che “sembra venuto il tempo di ritrovare il grande soffio che sospinse la Chiesa nel momento in cui la Sacrosanctum Concilium fu preparata, discussa, votata, promulgata e conobbe le prime misure di applicazione”.

Non è facile. È passato molto tempo e la situazione socio-culturale, come pure quella religiosa e pastorale sono notevolmente cambiate. Entusiasmarsi non è facile, anche perché manca lo stimolo della novità e il clima dell’attesa di quella stagione ecclesiale. Eppure è necessario perchè – come affermano i Vescovi italiani in un documento di alcuni anni fa – “il cammino del rinnovamento liturgico deve continuare”. È sempre il medesimo Spirito che spinge la Chiesa al largo, verso il futuro.

Questo è possibile, ora, se si fa più forte la convinzione sulla “bontà della causa”. È indispensabile ritornare alle sorgenti, occorre rivisitare con coraggio e pazienza il magistero conciliare, come a più riprese ha sollecitato Giovanni Paolo II, soprattutto in occasione del Grande giubileo del 2000.

Ecco perché si continua ad insistere molto opportunamente sulla priorità della formazione, soprattutto biblico-liturgica, a tutti i livelli. Ci sono davvero da riscoprire il genuino spirito della divina liturgia, i suoi fondamenti, il suo ruolo rivelativo ed educativo, che è quanto dire il suo “statuto teologico” e le potenzialità che racchiude in ordine specialmente alla spiritualità e all’azione pastorale. Questo discorso può apparire scontato e ripetitivo, ma resta fondamentale e vale anche – come dovrebbe essere emerso da quanto detto – per quello che attiene alla partecipazione. La SC lo aveva affermato chiaramente al n. 14, parlando proprio della partecipazione: “Non si può sperare la realizzazione di tutto ciò (e cioè di un autentico e fecondo rinnovamento) se gli stessi pastori di anime non siano penetrati loro per primi nello spirito e nella forza della liturgia e ne diventino maestri”. E conclude: “perciò è assolutamente necessario dare il primo posto alla formazione liturgica”, del clero in particolare”.

Dunque non può esserci futuro serio, duraturo e fruttuoso per il rinnovamento liturgico se si prescinde da questa fondamentale condizione.

C’è, tuttavia, un’istanza ulteriore che scaturisce da quanto siamo venuti dicendo in relazione alla natura e allo spirito genuino della celebrazione liturgica e della partecipazione che essa comporta in quanto “azione rituale”.

La forma rituale, infatti, è epifania e veicolo del Mistero, è “tradizione”, in quanto trasmette il dono che è prioritario, è l’Evento divino che, anche se è “per noi”, a noi destinato, è “fuori di noi”; ci consente, proprio per questo, di entrare nella relazione trinitaria, e quindi nella comunione divina.

Prima di essere “agenti” noi siamo “pazienti”. Partecipare è accogliere consapevolmente e gioiosamente il dono, per poter poi rispondere o corrispondere attivamente con tutto noi stessi a “quanto abbiamo ricevuto nella fede”.

Queste non sono affermazioni astratte. Celebrare è una esperienza da fare, come pure da stimolare continuamente, da ravvivare con gioia; e, finalmente, da manifestare e offrire a chiunque vi assiste, anche casualmente perché ha sempre una forte carica evangelica.

Questo comporta che la celebrazione sia coinvolgente nella sua verità e semplicità, nella sua serietà e soprattutto nella sua bellezza. Tutta l’assemblea, e ciascuno dei suoi componenti vanno coinvolti nella loro totalità di pensiero, di emozioni e di azione, in modo che ciascuno si domandi non tanto e non solo cosa “significa”, ma piuttosto che cosa “accade” qui e oggi al fine di diventare partecipe della salvezza che per ritus et preces ci è donata.

 

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Mi piace concludere con un’icona evangelica. È quella notissima, offerta da Giovanni al capitolo 13 del suo Vangelo, che ci presenta Gesù che lava i piedi ai discepoli la sera prima della sua passione.

Conosciamo la reazione istintiva di sorpresa e di rifiuto di Pietro di fronte ad un gesto di carattere chiaramente simbolico o rituale e per di più proprio degli schiavi, come pure la rivelazione di senso da parte di Gesù: “Se io non ti laverò non sarai messo a parte di ciò che è mio” (v. 8). Da qui la resa di Pietro.

Ciò significa che attraverso il “rito” della lavanda dei piedi Gesù desidera introdurre i discepoli nella sua “ora” e quindi in quella del Padre, perché possano gustare la pienezza della sua oblatività nell’amore.

Dunque la “forma rituale” è per noi da una parte il veicolo per consentirci di entrare nella relazione d’amore con il Padre, per Cristo, nello Spirito e, dall’altra, il modo concreto e “umano” per dire la nostra “resa” di fede, come pure la gioia e il nostro rendimento di grazie.

Questo è “partecipare” alla liturgia. Se “sapremo” queste cose saremo davvero beati!

Last modified on Thursday, 05 February 2015 16:56

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