ICONA DELLA CROCE GLORIOSA

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Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

 

Il Crocifisso Risorto

Nelle rappresentazioni iconografiche bizantine il Crocifisso non viene mai rappresentato nel suo realismo della carne spossata e morta né nell’agonia. Pur essendo morto, il Cristo non ha perduto nulla della sua regale e divina nobiltà. Infatti il Salvatore in croce non è semplicemente un Cristo morto, è il Kyrios, il Signore della propria morte e della vita. Egli non ha subito alcuna alterazione dal fatto della Passione: resta il Verbo, la Vita eterna che si consegna alla morte e la vince.

La “Croce Gloriosa” più che essere una mera rappresentazione dell’avvenimento della crocifissione, è una elaborazione teologica della missione salvifica del Dio fatto uomo. Sulla croce non è raffigurato “l’uomo dei dolori”, ma il RE. Come giustamente ha affermato S. Giovanni Crisostomo: “Io lo vedo crocifisso e lo chiamo RE”. La croce è dipinta non come uno strumento di tortura e di sofferenza, ma come un trono di gloria. I colori del fondo sono, infatti, quelli di un trono regale su cui è seduto il RE. Le ferite delle mani, dei piedi e del costato non hanno nulla di drammatico. “Non sono i chiodi che lo trattengono alla croce, ma l’amore”. Il sangue che fuoriesce dalle sue piaghe non è quello del torturato condannato a morte, ma è il sangue misericordioso che il Risorto ci dona per la nostra salvezza e che riempie i calici di tutti gli altari del mondo. Le sue piaghe non ci colpiscono come nei crocifissi che siamo abituati a vedere nell’arte occidentale, ma ci trafiggono i suoi occhi grandi dalla sguardo intenso che ci scrutano e ci interrogano. Sul capo non è posta la corona di spine, ma l’aureola dorata del Dio Sovrano, del “Salvator mundi”.

Sulla croce gloriosa, rappresentazione globale del mistero del Cristo morto e risorto, il Cristo crocifisso è raffigurato col corpo glorioso della risurrezione. Mostra le piaghe come le mostrò ai suoi discepoli dopo la risurrezione, in particolare a Tommaso, ripetendo anche per noi le parole che disse al discepolo dubbioso: “Non essere incredulo, ma credente…e beati quelli che crederanno in me senza vedermi” (Gv 20,27-28).

I vangeli ci narrano che Pilato compose l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Giovanni ci dice che il Crocifisso è il Re dei Giudei, il Messia promesso, colui che difenderà gli umili del popolo. La sua non è la morte di un malfattore, ma la intronizzazione del Sovrano che è signore di se stesso e dispone della propria vita.

Questo cartello posto sulla croce era scritto in ebraico, in latino e in greco (Gv 19,20). Con questa notazione di universalità linguistica, Giovanni ci vuol dire che il Crocifisso è il Messia non solo dei Giudei, ma il Re-Salvatore del mondo intero. La sua missione universale, tradotta nelle lingue principali, deve essere conosciuta non solo dalle pecore del gregge di Israele, ma anche da altre pecore che non appartengono a questo popolo. La nuova comunità di cui il Crocifisso diventa Re non dovrà avere limiti di razza dal momento che “quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

I Cherubini, a destra e a sinistra della scritta, ricordano quelli che erano raffigurati sul “Propiziatorio”, il coperchio dell’Arca dell’Alleanza, che conteneva solo i segni della presenza di Dio col suo popolo. Come la croce, l’Arca era di legno, ma a differenza della croce era rivestita di oro, quasi a prefigurare la croce gloriosa che se pur di legno, si riveste ora di oro perché porta il RE. I due Cherubini ricordano inoltre gli angeli che nel giorno della resurrezione dissero alle donne di non cercare tra i morti colui che è vivo.

Al di sopra della scritta è rappresentato il mistero finale della vita terrena e della missione di Cristo: la sua ascensione al cielo che diventa promessa del suo ritorno: “Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11).

La sua vittoria sul peccato e sulla morte, fa della croce “l’albero della vita”; il Cristo innalzato da terra che attira tutto e tutti a se: “ Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà…il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1, 9-10).

 

Gli apostoli Pietro e Paolo

Contrariamente alla tradizione iconografica che raffigura ai lati delle braccia della croce, a destra la Madonna addolorata e a sinistra l’evangelista Giovanni, sulla nostra croce abbiamo raffigurato, invece, gli apostoli Pietro e Paolo titolari della parrocchia. La scelta s’inserisce nel discorso più ampio della croce gloriosa come riflessione teologica e non come rappresentazione storica dell’evento della crocifissione.

Pietro e Paolo non erano presenti all’evento della crocifissione. Pietro perché lo aveva rinnegato, Paolo perché non aveva ancora conosciuto il Cristo. Ma entrambi, per vie diverse, sono giunti alla croce. Anche loro sono stati immolati su questo altare, e ora siedono a destra e a sinistra del trono di gloria di Cristo. Il loro sguardo e le loro persone sono tutte rivolte al Cristo Signore; Pietro, raffigurato a destra avvolto in un manto verde, ha in mano le chiavi del Regno dei cieli che Gesù gli ha affidato, e stringe una pergamena dove si legge la sua professione di fede: “Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivo”. Paolo, a sinistra, avvolto nel manto rosso, ha in mano il volume che raccoglie i le sue 14 lettere scritte in seguito alla rivelazione che Paolo aveva avuto direttamente da Gesù risorto e indirizzate alle comunità nate dalla sua evangelizzazione.

Pietro e Paolo hanno testimoniato l’amore per Gesù fino al martirio. Il discorso duro e forte della croce aveva inizialmente spaventato i dodici. In particolare Pietro che, subito dopo essere stato costituito da Gesù capo della Chiesa, chiama in disparte Gesù per rimproverarlo per quel discorso sulla sofferenza, la persecuzione e la croce che gli suona come un discorso da “perdente”. Ma Gesù lo stupisce nuovamente perché lo caccia via come “Satana” perché non ragiona secondo la sapienza di Dio ma secondo quella degli uomini.

La croce lo spaventerà fino al rinnegamento di Cristo il venerdì santo: “Non conosco quell’uomo” dirà per tre volte. Ma poi si pentirà piangendo amaramente. E dopo la risurrezione, Gesù, apparendo nuovamente a Pietro, gli chiede semplicemente di amarlo e poi gli affida la guida della Chiesa: “Pasci le mie pecorelle”. Amare Cristo fino al dono supremo della vita, fino alla croce.

Dopo l’esperienza della Pentecoste, pieno di Spirito Santo, Pietro non ha più paura della sapienza della croce ma mostra di averla compresa profondamente. Così infatti annuncerà al mondo: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia” (1Pt 2,24).

Pietro coronò la sua vita col martirio. Tra il 64 e il 67 fu crocifisso sul colle Vaticano nel circo Neroniano, la tradizione antichissima fa risalire allo storico cristiano Origene, la prima notizia che Pietro fu crocifisso per sua volontà, con la testa in giù. Il corpo di Pietro venne sepolto a destra della via Cornelia, dove fu poi innalzata la Basilica Costantiniana.

Anche Paolo ha conosciuto l’amore di Gesù che lo ha rigenerato a vita nuova. Paolo faceva parte della setta dei farisei, formatosi nella rinomata e famosa scuola di Gamaliele era profondamente religioso, osservante della Legge e radicato nelle tradizioni dei padri. Per lui il cristianesimo era una eresia sorta in seno all’ebraismo e ne contaminava la purezza. Pertanto sua missione era quella di sradicare e distruggere quanti si dichiaravano appartenenti a quella setta.

La storia della sua conversione ha inizio sulla via di Damasco dove resta folgorato da quel Gesù che lui perseguita. Dirà un giorno, testimoniando della sua conversione, di avere avuto la grazia di vedere Gesù risorto, e di essere stato scelto come apostolo: “Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio” (1Cor 15,7-9).

La sua vita si conformò talmente a Cristo da poter dire alle sue comunità: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me….D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo” (Gal 2, 20-21).

Possiamo definire Paolo come il primo grande teologo della croce. Contrariamente alla mentalità corrente che vedeva nella croce un segno di umiliazione, egli annuncia il Cristo al mondo non secondo la sapienza umana ma seguendo la follia della croce: “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23).

Nel 66, forse a Nicopoli, Paolo fu arrestato e condotto a Roma, dove il tribunale lo condannò a morte perché cristiano; fu decapitato tradizionalmente un 29 giugno di un anno imprecisato, forse il 67, essendo cittadino romano gli fu risparmiata la crocifissione; la sentenza ebbe luogo in una località detta “palude Salvia”, presso Roma (poi detta Tre Fontane, nome derivato dai tre zampilli sgorgati quando la testa mozzata rimbalzò tre volte a terra); i cristiani raccolsero il suo corpo seppellendolo sulla via Ostiense, dove poi è sorta la magnifica Basilica di San Paolo fuori le Mura.

Last modified on Wednesday, 27 July 2022 09:58

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