Monzambico a 360 gradi

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Mons. Diamantino Antunes

Approfittiamo della visita a Roma di Mons. Diamantino Antunes, vescovo di Tete (Mozambico) per avvicinarci alla situazione del paese dove svolge il suo ministero episcopale, la presenza quasi centenaria dei Missionari della Consolata e le sfide della missione della chiesa in Mozambico.

I missionari della Consolata in Mozambico

Fra poco, nel 2025, si compiono 100 anni di presenza dei Missionari della Consolata in Mozambico. I primi missionari partenti da Torino ricevettero la benedizione di Giuseppe Allamano, già molto malato, pochi mesi prima della sua morte. A loro si unirono altri missionari che partirono dal Kenya. I territori che i nostri missionari occuparono fin dal principio non erano precisamente i piú comodi, anzi, fu necessario un viaggio durato qualche mese per raggiungere le regioni della zona occidentale del Mozambico e una parte importante del viaggio fu necessario farla a piedi.

Quando raggiungemmo il Mozambico i cattolici non erano se non una piccola minoranza in tutto il paese, alla fine il contributo piú importante che abbiamo dato all’evangelizzazione si é centrato soprattutto nella zona nord del paese.

Oggi ci avviciniamo alla celebrazione di questo centenario vivendo un momento abbastanza difficile: il numero di missionari presenti in Mozambico si é ridotto e il tempo della Pandemia non ha giocato a nostro favore. Abbiamo perso tre missionari, altri che erano in vacanza in patria non sono potuti ancora rientrare.

Un paese sotto molti punti di vista in crisi

Una delle malattie gravi del sistema politico del Mozambico é purtroppo la corruzione. Negli ultimi anni il paese si é indebitato molto con le agenzie globali di finanziamento ma questi soldi spesso sono stati usati per finanziare tutto un sistema di clientelismo politico che non contribuisce a fare crescere il paese già molto povero come conseguenza della guerra, prima coloniale e poi civile che ha consumato le energie di intere generazioni di mozambicani.

Recentemente nell’oceano indico, al largo delle coste del Nord del Mozambico, sono stati scoperti immense riserve di gas naturale che é sfruttato da compagnie multinazionali. Funziona anche in Mozambico quella che potremmo chiamare la “maledizione delle materie prime”. Non sempre i proventi dell’estrazione del gas naturale ed altre risorse naturali finiscono per creare condizioni economiche per promuovere la popolazione impoverita. Tutto questo non favorisce una relazione cordiale fra le imprese estrattive e la popolazione locale e questo produce malcontento.

L’origine di questo conflitto nella Provincia di Cabo Delgado, che ha fatto centinaia di morti e miglia di sfollati, ha diverse cause: socio-religiose ed economiche.  L’estremismo islamico che abbiamo imparato a conoscere in altri scenari internazionali, purtroppo è anche arrivato in Mozambico. È legato probabilmente alla radicalizzazione di giovani che si sono formati fuori dal paese, la maggior parte delle volte nei paesi del golfo persico. Questi, una volta tornati in patria, hanno cominciato a creare conflitti nelle loro stesse comunità che fino a quel momento avevano avuto relazioni cordiali e perfino fraterne con altre confessioni religiose... eppure, anche se questo radicalismo ha origini foranee, nella Provincia di Cabo Delgado ha potuto attecchire con abbastanza facilità come conseguenza della situazione locale dove molti giovani non hanno nessuna prospettiva di lavoro o di futuro. Per alcuni di loro la guerra estremista è diventata un’occasione per far soldi e quasi una specie di lavoro.

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La chiesa

In tutta questa situazione la voce della chiesa cattolica si alza come una voce indipendente e critica nei confronti del governo. I comunicati della Conferenza Episcopale sono attesi ma anche soppesati e guardati a volte con diffidenza dal governo e per questo è necessario essere politicamente sempre molto prudenti anche se audaci in proposte e iniziative di carattere sociale. In Mozambico il 75% della popolazione ha meno di 35 anni e rispondere ai bisogni di questa immensa gioventù è una sfida per la società civile, per il sistema politico e anche per la chiesa che deve annunciare una buona notizia credibile alla parte più importante dei suoi fedeli che vivono spesso nella disperazione.

La diocesi di Tete e l’esperienza come vescovo

Quando mi hanno proposto l’incarico di vescovo della diocesi di Tete non é stato facile accettare: non avevo mai lavorato in quel territorio e anche essere originario del Portogallo, l’antica potenza coloniale, non giocava certo a mio favore. Ad ogni modo quando ho cominciato a lavorare mi sono sentito bene accolto.

La diocesi di Tete ha un territorio di 101 mila Km quadrati (piú di un terzo dell’Italia) e in una geografia tra l’altro non facile. Confina con 11 giurisdizioni ecclesiastiche di quattro differenti paesi: tre all’interno dello stesso Mozambico, e poi quattro del Malawi, due dello Zambia e altre due dello Zimbabwe. La città di Tete è piú vicina alle capitali di questi paesi confinanti che alla stessa capitale del Mozambico; in questo territorio si parlano sette lingue diverse e di queste quattro si usano anche per la celebrazione dell’eucaristia. È facile capire che, con queste condizioni, l’identità diocesana è qualcosa di estremamente fragile. Per risponde ai bisogni pastorali di questo immenso territorio possiamo contare con la presenza di 20 sacerdoti diocesani e 50 missionari (dei quali 6 sono Missionari della Consolata) e per fortuna una gran quantità di ministri laici che in numerose occasioni e spesso per anni hanno portato avanti la vita di fede delle comunità cristiane quando il sacerdote, anche a causa della guerra, non poteva farsi presente. Oggi il seminario diocesano conta con un discreto numero di giovani in formazione che fanno ben sperare per il prossimo futuro. Per far funzionare questo immenso corpo diocesano la sfida più grande  è probabilmente quella economica: molto riceviamo da fuori ma anche queste fonti esterne si stanno esaurendo e non è sano continuare a dipendere dall’estero. La chiesa del Mozambico dovrebbe potersi finanziare in modo autonomo per sostenere anche la crescita significativa che sta sperimentando.

I 24 martiri di Guiúa

Voi conoscete la storia di questo martirio. I Missionari della Consolata avevano costruito a Guiúa, nella diocesi di Inhambane, un centro catechistico per la formazione di laici che era stato chiuso durante la guerra civili dopo l’uccisione, nel 1987, del  catechista Peres Manuel (e che oggi è anche incluso nella lista dei martiri). Alla fine del 1991 sembrava che la guerra fosse ormai prossima alla fine e sono stati gli stessi catechisti a chiedere la riapertura del Centro di Guiúa durante l’assemblea diocesana di pastorale. Il vescovo non era favorevole ma aveva dato il suo parere positivo se ci fossero state delle famiglie disposte a cominciare e alla fine 13 famiglie si erano offerte. Quando queste vennero massacrate, nel 22 di Marzo di 1992, da poco erano presenti nella missione. È molto evidente che si è trattato di un massacro premeditato ed eseguito con l’intenzione di scardinare gli sforzi che la chiesa faceva per riportare alla normalità un paese che aveva pagato un caro prezzo a conseguenza della guerra. Le persone che eseguirono questa strage sapevano bene chi fossero le persone che stavano uccidendo e perché le stavano uccidendo e l’odio alla fede, una delle condizione per stabilire il martirio, era più che evidente.

Pochi anni dopo il massacro è opera del padre Francisco Lerma la prima raccolta di testimonianze relative a questo martirio e alla vita dei catechisti martiri. Nel 2017, la diocesi di Inhambane ha dato inizio al processo per la beatificazione e canonizzazione dei martiri di Guiúa. La commissione di inchiesta ha interrogato 135 persone. Il 22 Marzo 2019 si è conclusa la fase diocesana del processo e tutta la documentazione raccolta (circa di 4000 pagine) è stata mandata  alla congregazione dei santi. Oggi sono a Roma per aiutare nella redazione della “positio” che è il documento successivo che bisogna presentare alla Santa Sede nel quale si tratta di dimostrare come la morte di queste persone risponde alle condizioni di martirio: oltre a dimostrare l’odio alla fede da parte dei persecutori, bisogna provare l’accettazione volontaria della morte da parte delle vittime e la fama di martirio tra il popolo di Dio. Penso che questa causa abbia anche un profondo significato per la vita della chiesa oggi in Africa che molto deve al ministero del catechista che recentemente papa Francesco ha promosso per mezzo del suo documento “Antiquum Ministerium”.

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Le tombe dei martiri di Guiúa

Martiri di Chapotera

Gli anni bui della guerra hanno prodotto molto martirio in Mozambico, nella diocesi di Tete abbiamo recentemente aperto una causa di beatificazione e canonizzazione dei martiri di Chapotera. Si tratta di due sacerdoti gesuiti: Padre João de Deus Kamtedza, primo gesuita mozambicano, e Padre Sílvio Alves Moreira, portoghese. Se la causa dovesse arrivate a buon porto, sarebbero i primi gesuiti riconosciuti martiri nell’Africa.

Sono stati missionari di fede e coraggio. Non avevano mai abbandonato la loro parrocchia durante la guerra e continuavano a svolgere l’attività pastorale in mezzo a molte difficoltà e limitazioni. Denunciavano con coraggio i mali della guerra e difendevano la popolazione. Nella Angonia, come in tutta la provincia di Tete, la guerra civile era molto intensa e la violenza contra la popolazione era continua.  Molte le persone uccise i e corpi erano spesso lasciati insepolti. I missionari li seppellivano con l’aiuto dei catechisti violando in alcuni casi l’ordine che proibiva farlo. Alla fine una delle parti in conflitto, stanca di queste che consideravano provocazioni, hanno ucciso  i padri João e Sílvio nel giorno 30 ottobre di 1985 nella loro residenza di Chapotera. Sono stati uccisi in modo violento, i suoi corpi furono abbandonati nella brughiera e si sono potuti raccogliere solo cinque giorni dopo l’uccisione.  La morte dei due missionari ha avuto come conseguenza l’esodo della popolazione verso il vicino Malawi perché non avevano già chi li difendesse.

Quando abbiamo interrogato gli anziani che hanno vissuto questa tragedia e il successivo esodo tutti hanno affermato che i missionari gesuiti erano morti perché sono stati buoni pastori che non avevano abbandonato la loro gente nel pericolo e avevano vissuto in carne propria il calvario della loro gente.

 

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