Noi missionari siamo come le "sentinelle del mattino", perché viviamo ai confini geografici, sociali, culturali, ambientali, politici... proprio perché, per vocazione, viviamo situazioni di limite riusciamo a cogliere i segni premonitori dei tempi e siamo sempre pronti a cercare delle risposte alle sfide epocali, come anche oggi in questa crisi che tocca tutti gli aspetti della convivenza umana, sociale, ambientale, religiosa e finanziaria...
Noi missionari, però, non siamo tutti uguali; difatti ci sono quelli che creano eventi, a volte carismatici, sorprendenti e originali allo scopo di scuotere l'immaginario degli altri, provocarli e stimolarli per uscire dagli schemi stereotipi; altri invece vivono la loro fedeltà alla missione nella quotidianità, nella semplicità della testimonianza e nel nascondimento.
Questi due modi di affrontare le sfide sono ambedue necessari e non devono essere contrapposti, anzi devono articolarsi sempre più - meglio se si realizzano nella vita di ogni missionario - mettendo bene a fuoco prima di tutto l'obiettivo della missione, che è quello di promuovere la vita in abbondanza per tutti, soprattutto per i poveri; in secondo luogo, creare fraternità universale, tessendo quella rete di rapporti umani, sociali, interculturali per superare ogni frammentarietà e autoreferenzialità e tendere al progetto del Dio di Gesù Cristo che vuole formare una unica e grande famiglia universale.
Il più grande equivoco per un missionario, giovane o anziano, è quello di pensare che sia il luogo geografico a determinare il suo impegno, l'intensità e la qualità della sua azione; oppure pensare che per raggiunti limiti di età, per circostanze varie possa ritirarsi a vita privata e in un certo senso pensare che la "sua" missione sia compiuta.
Il missionario sa che la vocazione è un dono e per questo rimane tale sempre e dovunque, ma con una attenzione particolare ai più poveri ed abbandonati che sono sempre più la "nostra famiglia". Inoltre, a differenza del passato, dobbiamo tenerci allenati a vivere e a pensare sempre più in un contesto di missione globale.
Sottolineo positivamente il lavoro e lo sforzo che state facendo, come Regione, promovendo tante iniziative di riflessione teologica, biblica e pastorale alla ricerca di nuove strade per un rinnovato impegno nella missione globale rivisitando il nostro carisma. La questione del linguaggio non più adeguato a parlare e farsi comprendere dai giovani e dal mondo laico di oggi, per esempio il termine "ad gentes" cercando di superare la questione etnica e geografica del termine, definendolo piuttosto come il nuovo spazio sociale e culturale nel quale i missionari devono inserirsi. Il termine "ad vitam", come l'impegno a saper promuovere i valori della vita, soprattutto dove questa è disprezzata e vilipesa. Il termine "ad pauperes" come urgenza e necessità di scegliere uno stile di vita sobrio e solidale con e tra i poveri. Il termine "ad extra" soprattutto come impegno di promuovere e educarsi a rapporti interculturali e interreligiosi fecondi e segno di fraternità già in atto nell'oggi della storia.
Ritengo che, sono fondamentalmente tre i parametri per vivere la missione nel nostro tempo, che partendo dalla nostra tradizione e dalla missione compongono la bussola per orientarsi nella rotta da seguire: la prassi missionaria di Gesù, la re-interpretazione del carisma e la lettura attenta dei segni dei tempi.
Ritornare alla prassi missionaria di Gesù storico diventa un imperativo per il rinnovamento della missione, soprattutto tenendo presente due condizioni: leggere e interpretare la Parola nelle varie versioni evangeliche a partire dal luogo e dalle situazioni contestuali nelle quali sono state descritte e situate. In secondo luogo, cogliere la novità della prassi di Gesù a partire dal suo dislocamento da Nazareth a Cafarnao, dalla terra dei suoi fratelli, piuttosto farisei osservanti, verso la città cosmopolita, dove la legge mosaica non ha tutto il peso che gli si dava a Gerusalemme, dove viene superata la distinzione tra puro ed impuro e la precettistica farisaica. Scegliere di vivere tra coloro che son considerati peccatori, esclusi, impuri e emarginati e rivolgere loro la grande novità del Vangelo chiamandoli "Beati".
Rileggere inoltre il carisma in un contesto sociale, ecclesiale, antropologico profondamente mutato; prima di tutto come forza che dà capacità di operare nell'oggi con la forza dello Spirito e in secondo luogo come una storia che va continuamente riletta e re-interpretata nella stessa prassi missionaria a seconda del tempo e dei vari contesti sociali e culturali dove come missionari viviamo ed agiamo. L'identità del carisma non è determinabile semplicemente in base alla ricostruzione storica del suo momento originario ma piuttosto come una re-invenzione da parte dello Spirito.
Infine, la lettura sapienziale dei segni premonitori dei tempi, soprattutto attraverso un atteggiamento di apertura e con occhi contemplativi, lasciandosi sorprendere dalla presenza dello Spirito che soffia dove e come vuole. La complessità della realtà stimola i missionari a non aggrapparsi spasmodicamente a quanto è stato codificato nel passato, né a riproporre approcci di lettura e di interpretazione stereotipati, ma senza remore, favorire la pluralità di vedute, di interpretazioni, creando spazi soprattutto a nuovi approcci per esempio quello interculturale, laicale e al femminile.
*p. Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata