Lo scorso 14 luglio è stata celebrata una riunione on line di missionari della consolata che lavorano con migranti. Il continuo movimento verso nord, pone una serie di sfide alla Chiesa e anche alla nostra missione. I migranti ci disinstallano, ci portano fuori dalla nostra zona di comfort; ma, allo stesso tempo, arricchiscono il nostro carisma; la migrazione sta diventando parte del nostro carisma ad gentes in tutti i continenti.
Si è potuto constatare che il fenomeno migratorio, anche se ha protagonisti diversi nei diversi continenti, in realtà spesso è affetto dalle stesse problematiche. Per questo motivo ascoltare le esperienza nei diversi continenti può essere una strategia utile per il lavoro di tutti i missionari che dedicano tempo e cuore all'attenzione dei migranti. Approfittiamo per condividere alcune esperienze ed alcuni passi fatti.
La parrocchia di Oujda (Marocco)
Testimonianza di padre Edwin Duyani
Padre Edwin è arrivato in Marocco nel novembre 2020, dopo aver lavorato a Malaga, Spagna, in una comunità che lavora con gli immigrati dall'Africa e dal Sud America. Inizialmente si pensava a una presenza itinerante e non fissa in un posto ma poi l'arcivescovo di Rabat, il cardinale Cristóbal López Romero, ha offerto una parrocchia come spazio in cui vivere e da dove partire per avvicinarsi al problema migratorio.
La città di Oujda è a poca distanza dal confine algerino ed è punto di passaggio nel cammino verso l'Europa. Molti dei migranti provengono dalla Guinea Bissau, dal Mali e dalla Costa d'Avorio.
Nel lavoro si cerca di rispondere a quattro esigenze proposte da Papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale dei Migranti e Rifugiati 2018: ACCOGLIERE, PROTEGGERE, PROMUOVERE e INTEGRARE.
Accogliere, proteggere e promuovere sono al centro del progetto, in tema di protezione le sfide sono tantissime perchè ci si scontra con situazioni comuni di maltrattamenti e persino con le mafie. L'integrazione invece esige tempi più lunghi ed è ostacolata da barriere culturali, difficoltà con la lingua, la preparazione professionale e la documentazione per poter lavorare.
Ci sono tre tipi di migranti che arrivano a Oujda: quelli che rimangono a lungo, quelli che continuano verso l'Europa e quelli che ritornano nei loro paesi.
I problemi maggiori che trovano sul loro cammino hanno a che vedere con la regolarizzazione dei loro documenti. Mentre attraversano il deserto, molti di loro sono sottoposti a violenza, sia per mano della polizia, delle mafie e della gente, spesso arrivano senza soldi e senza documenti. Poi c'è il dramma di cercare lavoro per aiutare le loro famiglie rimaste nei loro paesi d'origine, lavoro che non si trova anche per mancanza di documenti e una preparazione professionale. Un altro problema è la comunicazione: da una parte la polizia spesso interrompe la comunicazione con le famiglie sequestrando i telefoni, dall'altra anche loro sono tentati di non comunicare con le famiglie perché non vogliono che si conoscano dettagli della loro deplorevole situazione. E per concludere, come spesso succede con i migranti, anche la società marocchina non accetta la loro presenza lì.
In media, da 50 a 100 persone passano per la casa ogni mese, ma le risorse per occuparsi di loro sono come sempre limitate, si fa quel che si può.
La politica migratoria dell'Unione Europea ruota intorno a tre assi: il controllo di coloro che possono entrare e le condizioni che regolano il loro ingresso; i processi di integrazione nella società di accoglienza; le politiche di cooperazione con i paesi d'origine.
Queste politiche servono a controllare il numero di migranti e ultimamente, l'Europa sta lavorando con il Marocco per evitare che i migranti possano raggiungere suolo europeo: c'è poca umanità in tutto questo e l'aiuto comunitario che si consegna ai paesi di origine produce anche processi di corruzione e di violenza.
E che lavoro fa allora la chiesa? È simile al lavoro del Buon Samaritano e cerca di offrire un alloggio a quelli che sono di passaggio verso l'Europa ma anche a quelli che rimangono a Oujda per un lungo periodo di tempo. Si portano avanti anche programmi di protezione e promozione ma in mezzo a tantissime difficoltà e con risultati abbastanza limitati e poveri. È importante poi dire che lavoriamo con varie organizzazioni ecclesiali, civili e internazionali che si occupano di migranti.
L'equipe itinerante de Boa Vista
Testimonianza di P. Josiah K’Okal
Ci sono molti punti di contatto e somiglianze fra il lavoro svolto a Oujda e quello svolto a Boa Vista con i migranti venezuelani e indigeni. Per cominciare i missionari che lavorano a Boa Vista provengono dalle diverse regioni del continente dove da molti anni sono presenti i Missionari della Consolata. Poi cerchiamo di sommarci alle altre forze ecclesiali e anche civili che si stanno impegnando nell'emergenza umanitaria che si vive in questa regione del nord del Brasile in frontiera con il Venezuela. Siccome ci occupiamo specialmente di indigeni si lavora coordinatamente con i missionari che accompagnano gli indigeni Warao in Venezuela, e questo ci aiuta a capire meglio la realtà degli immigrati.
Le politiche di accoglienza di "Operação Acolhida" non aiutano molto il nostro lavoro perché gli spazi in cui sono ricevuti i migranti sono controllati e la nostra presenza non è facilmente consentita. Con il continuo arrivo di altri venezuelani, vengono aperti nuovi rifugi, ma la società protesta perché molte persone non li vogliono vicino alle loro case e il numero di persone che il governo mette a disposizione per affrontare l'emergenza è molto limitato.
Poi non ci sono molte opportunità di lavoro e questo rovina il sogno degli immigrati.
Le politiche migratorie del Brasile si basano su tre pilastri: il controllo delle frontiere e la regolarizzazione dei documenti evitando una immigrazione disordinata e incontrollata; l'accoglienza fatta principalmente in rifugi, simili a campi profughi e la politica di inviare migranti verso altre regioni del paese in cui ci siano offerte di lavoro.
Questa, che sarebbe un'ottima idea, ad ogni modo non è portata avanti opportunamente perché negli spazi destinati all'accoglienza non si preparano né si aiutano i migranti: molti alla fine restano quasi intrappolati all'interno delle strutture di accoglienza senza essere in grado di farsi una vita. Come Missionari della Consolata cerchiamo di lavorare con i venezuelani che si trovano fuori dai luoghi ufficiali di rifugio e vivono in situazioni precarie. Lo facciamo sopratutto con con gli indigeni Warao, Eñepa e Karine, cercando di aiutarli a preservare la loro cultura.