I 19 martiri d'Algeria, icona di fratellanza

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A due anni dalla storica beatificazione celebrata presso il santuario di Notre-Dame di Santa Cruz di Orano, il Postulatore della causa di beatificazione, il trappista Padre Thomas Georgeon, spiega il senso profondo di un percorso e il valore perenne di una testimonianza molto sentita nel paese, nella Chiesa, nel mondo

Sono passati due anni dalla storica beatificazione dei 19 martiri di Algeria celebrata presso il santuario di Notre-Dame di Santa Cruz di Orano. In occasione della Festività dell’Immacolata, l’8 dicembre del 2018, in una chiesa gremita di persone tra le quali molti fedeli e religiosi musulmani, si officiò la prima beatificazione di cristiani in terra islamica, un segno di profondo radicamento e di volontà di convivenza pacifica al di là degli orrori della guerra. A due anni di distanza da quell’evento dall’alto valore simbolico e a oltre 25 dallo scoppio del conflitto civile che fece oltre 200mila morti in Algeria e travolse tra il 1994 e il 1996 i 19 religiosi insieme a novantanove imam, il Postulatore della causa di beatificazione, il trappista Padre Thomas Georgeon, spiega all’Agenzia Fides il senso profondo di un percorso e il valore permanente di una testimonianza ancora molto sentita nel Paese, nella Chiesa, nel mondo.

“Sono certo che ad appena due anni dalla beatificazione ci siano già frutti anche se non immediatamente percepibili. Credo che il Papa abbia scelto con cura il momento per quella storica celebrazione, era una fase in cui provava a compiere dei passi decisivi verso il dialogo con l’Islam: pochi mesi dopo ci fu l’incontro di Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb e la sigla del Documento sulla Fratellanza Umana, poi la visita in Marocco. Secondo la mia visione, c’è stata una volontà di Francesco di innescare una catena di avvenimenti che andavano nella direzione del dialogo tra persone di buona volontà. Vredo che il Papa abbia presente l’esperienza dei martiri di Algeria e che per lui sia un costante riferimento. Anche per la stesura dell’ultima enciclica Fratelli Tutti, ritengo che i 19 religiosi abbiano rappresentato come un’icona della fratellanza”.

Il Papa nella "Gaudete et exultate" parla dei monaci di Tibhirine come un esempio di intensa vita comune, come a suggerire che prima che per il martirio, siano stati un bellissimo esempio di amicizia, di decisioni prese in profonda comunione, è così?

“Penso che il Papa in quel’esplicito riferimento ai monaci di Tibhirine, abbia voluto sottolineare l’esperienza di comunità e di collegialità profonda. In questo modo Francesco vuole mostrare che la santità non è un cammino personale ma di Chiesa, un percorso comunitario. È così per tutti i battezzati e per i consacrati assume le sembianze di un cammino di santità da proseguire insieme, in modo forte: cosa faccio io singolo membro per promuovere santità, per viverla e farla vivere a ciascun confratello? I sette monaci trappisti hanno sperimentato questo cammino in un modo molto netto. È chiaro che non possiamo tutti seguire le loro orme, ma al di là del martirio, resta il valore di una scelta, specie negli ultimi 3 anni, che esaltava il desiderio di progredire insieme e capire insieme quale fosse la chiamata di Dio per ciascuno e per la comunità. Alla fine hanno raggiunto una decisione dopo un percorso complesso di discernimento che li ha condotti a un consenso unanime verso la permanenza nel loro monastero, accanto alla popolazione, nonostante il pericolo. Mi ha sempre molto colpito il fatto che tutto ciò sia stato sempre compiuto nel dialogo, non solo pregando per conto proprio, certo anche questo, ma soprattutto nel dialogo e nella ricerca comune. Per questo sostengo che nell’Enciclica Fratelli Tutti si senta l’eco di quelle scelte, vi sono riferimenti chiari al bene comune prima di quello personale. I sette monaci, nel loro cammino, non hanno provato a cercare il bene proprio, ma prima di tutto quello della comunità, nel senso lato, allargata anche ai contadini e i loro amici algerini. Io penso che in un certo senso, loro siano stati ispiratori dell’enciclica in cui si ritrovano concetti fondamentali che sono stati alla base dei comportamenti di tutti e 19 i martiri, l’accoglienza dell’altro, la promozione di una società in cui tutti hanno diritti”.

I sette monaci facevano parte dello stesso suo ordine, in che modo è stato segnato della vicenda dei confratelli di Tibhirine?

“Di certo ha cambiato qualcosa nella nostra spiritualità ma non penso abbiamo ancora ‘sfruttato’ appieno tutto ciò che si può ricevere da quella esperienza. C’è ancora un approfondito lavoro da compiere a livello di ordine e personale. Naturalmente non si può chiedere a tutti i nostri religiosi di entrare in rapporto diretto costante, in amicizia con questi beati. Ma di una cosa siamo certi: la loro esperienza è un dono per il nostro ordine, specie in questi tempi non facili in cui le comunità diminuiscono. Vedere come una comunità così povera e piccola sia riuscita ad aprire un cammino di vita e abbia rappresentato una testimonianza universale è di grande ispirazione”.

Nei primi tempi l’esperienza veniva vista con qualche perplessità dall’Ordine…

“Sì, è vero, ma le posso dire senza dubbio che chi guardava con una seppur minima diffidenza ha dovuto rivedere la propria posizione (ride). È chiaro che per i Trappisti rappresenti un dono e una chiamata e che la beatificazione sia una parola chiara per il nostro ordine. È importante mettersi in cammino per incominciare o continuare a sfruttare appieno ciò che i sette monaci ci dicono. A livello di fraternità vissuta assieme, animata dallo spirito, di ricerca costante del dialogo, il discernimento comunitario, la capacità di radunarsi e comprendere insieme, ascoltando lo spirito”.

Intrecciata con la vicenda dei martiri d’Algeria c’è quella dell’autista di monsignor Claverie, Mohamed Bouchiki, giovane collaboratore e amico del Vescovo di Orano, di fede islamica. Nell’icona di beatificazione scoperta l’8 dicembre del 2018 a Orano, trova posto per la prima volta anche lui, un fedele islamico. In un certo senso, si può parlare di una sorta di “ventesimo martire” nel segno della fratellanza?

“È un esempio tra gli esempi. Sapeva benissimo che correva il rischio e lui per pura amicizia ha scelto di rimanere accanto al vescovo e continuare a fornirgli i suoi servizi. So per certo che tra di loro c’era un dialogo molto rispettoso, spesso si sentiva dire che Mons. Claverie ha aiutato tanti musulmani ad approfondire la propria fede, tramite il suo modo di essere comunicava fiducia. Il ragazzo resta un vero esempio anche di umanità. Dopo la loro morte, è stato rinvenuto in un piccolo quaderno il suo testamento, una delle frasi recitava: ‘Chiedo perdono a chi ha sentito dalla mia bocca una parola cattiva a motivo della mia giovane età’, una grande testimonianza”.

Di recente è venuta a mancare una figura fondamentale per la Chiesa algerina, molto amata nel Paese, l'arcivescovo emerito di Algeri Henri Teissier, era molto legato ai religiosi uccisi?

“Si dice che Teissier, prima dello scorso 1 dicembre, fosse morto già 19 volte perché conosceva tutti molto bene ed è stato profondamente segnato dalle loro vicende. Mi diceva sempre ‘Thomas, avrebbero potuto uccidermi molto facilmente nel corso del decennio nero” e sentiva su di sé le loro storie. In lui c’è sempre stato il desiderio di essere uomo di dialogo e incontro e di grande rispetto verso fede islamica, inoltre aveva una cultura immensa. Durante le sue esequie a Lione, è intervenuto l’ambasciatore d’Algeria che ha offerto una testimonianza da brividi: è stato impressionante sentire una personalista politica algerina parlare così bene di un Vescovo. Nei giorni successivi alla sua morte tantissime autorità algerine di ogni livello hanno richiamato il suo lavoro e quando si sono celebrati i funerali anche ad Algeri, c’era moltissima gente. Ora giace ad Algeri, sepolto accanto al Cardinal Duval, altra grande figura di cristiano in Algeria”.

Cosa ne è stato del monastero di Tibhirine?

Da 4 anni c’è una piccola comunità di Chemin Neuf composta da 5 membri che si occupa di tenere viva la memoria e continuare il percorso di convivenza con la popolazione. SI prendono cura dell’azienda agricola lavorando con i contadini dei dintorni. Inoltre accolgono pellegrini, in stragrande maggioranza musulmani, che in ogni momento dell’anno – fatta eccezione ovviamente per questo periodo di pandemia – affollano in grandi numeri il monastero”.

Padre Thomas, il suo lavoro di postulatore si è concluso felicemente. Come continua la sua attività di testimone dei 19 religiosi? E come vede il cammino verso la santità?

“Siamo riusciti a ottenere un importante risultato che non era per niente scontato, proprio perché erano 19, appartenenti a diverse realtà e uccisi in momenti diversi: già così un dono enorme. È chiaro che per la santità c’è bisogno di miracoli, e che 19 vengano riconosciuti come intercessori è complesso, direi piuttosto difficile da dimostrare. Quando sono stato nominato postulatore nel 2013, ci dicevano ‘sarà lunga, passeranno almeno 20 anni’, ma per la volontà del Papa c’è stata un’accelerazione e siamo giunti al traguardo dopo appena 5 anni. Devo dire che la testimonianza parla ancora a tanti, è molto attuale. In Italia, poi, c’è ancora un interesse molto vivo. Vengo ripetutamente chiamato a presentare la vicenda e ho tenuto tantissimi incontri con molta gente curiosa di capire di più”.

Articolo originale su omnisterra.fides.org

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