Le religiose unite contro la schiavitù in Africa

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Talitha Kum, la rete di consacrate contro il traffico di esseri umani, diventa “più africana” e cambia approccio per contrastare un terribile fenomeno che coinvolge sempre più bambini. La testimonianza della coordinatrice Suor Gabriella Bottani.

Secondo il rapporto “Global Estimates of Modern Slavery” del settembre 2017, sono circa 40,3 milioni le vittime della schiavitù moderna nel mondo, di queste 25 milioni sono coinvolte in ogni forma di lavoro forzato e 15,4 milioni in matrimoni indotti: 5,4 vittime per ogni 1000 abitanti, uno su 4 è un bambino. In Africa, il fenomeno sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti ed è per questo che Talitha Kum – il network mondiale di vita consacrata femminile contro il traffico di esseri umani – ha deciso di mettere il continente in cima alle priorità di intervento e di adottare un nuovo approccio. Ci spiega quale suor Gabriella Bottani, coordinatrice della rete.

«Fino a un po’ di tempo fa, gli interventi di contrasto alla tratta delle religiose e della Chiesa in Africa, erano molto frammentati, senza una regia, ognuno andava per conto suo rischiando di fare cose bellissime ma di scarso impatto. Negli ultimi anni ci si è resi più conto di quanto il traffico di esseri umani stia assumendo le caratteristiche del macro fenomeno e che sia giunto il momento di fornire risposte globali e articolate. Per questo da diverse parti dell’Africa, religiose di varie famiglie, hanno sentito l’esigenza di coordinare gli sforzi e hanno chiesto a Talitha Kum di sostenerle. Abbiamo quindi subito scelto di uscire dall’idea di lavorare ciascuno per conto suo e di costituire reti con varie specializzazioni, un approccio integrato e multidisciplinare per contrastare il fenomeno e sostenere le vittime».

Talitha Kum esiste dal 2009 ed è presente in Africa già da tempo, cosa è cambiato nelle vostre modalità di intervento nel continente africano?

«Una volta si andava in Africa, si faceva un corso di training e si tornava. Ma ci siamo accorte che non funzionava e che dovevamo lavorare di più sulla leadership delle congregazioni e sulla consapevolezza del fenomeno. Da un certo punto abbiamo cominciato a ricevere richieste esplicite per fare rete e sistematizzare un intervento multidisciplinare. Ci hanno contattato suore da Mozambico, Camerun, Burkina Faso, Nigeria, poi anche Niger, Kenya e Rwanda ed è passato il concetto che Talitha Kum non è Roma, ma è Africa, sono le suore di Maputo, di Benin City, di Niamey, di Yaoundé a essere protagoniste, noi ci limitiamo a mettere a disposizione la nostra esperienza e a coordinare. In breve le richieste si sono moltiplicate, a Bobo Dioulasso, in Burkina, si è costituito un nucleo originario e da lì partono le cellule. Da quando, tre anni fa, abbiamo deciso che la priorità fosse l’Africa Subsahariana e iniziato a lavorare con le leader delle congregazioni in loco, la situazione è molto cambiata e si è innescato un processo con sempre più movimenti di adesione»

Lei ha parlato di nuovo approccio multidisciplinare, può spiegarci cosa intende?

«Il rischio, fino a un po’ di tempo fa, era specializzarsi in un settore, le case di accoglienza per vittime, la riabilitazione, i rimpatri, poi si è capito che il fenomeno è molto ampio e complesso. La situazione è drammatica e l’incontro con la grande violenza sofferta ha favorito una maggiore presa di coscienza. Abbiamo avuto chiaro che dobbiamo affrontare la questione con una pluralità di interventi, quindi accoglienza e assistenza, ma anche sanità, pastorale, educazione sia formale - in cui molte congregazioni sono impegnate - che informale (catechismi, oratori, ecc….). Abbiamo iniziato un lavoro capillare di sensibilizzazione con i leader tradizionali, girato per le campagne, visitato e dialogato con i capo villaggio: tutte cose che da sole non saremmo mai riuscite a fare, in rete è tutto molto più possibile. Inoltre per Talitha Kum è fondamentale introdurre una dinamica di azione che muove verso il tentativo di trasformazione della società e mira ad affrontare le cause. Prendiamo il caso dei matrimoni forzati: ci sono le case che accolgono ma ci domandiamo come agire alla base della società per rimuovere la causa. Sono rimasta molto colpita dal livello di collaborazione delle religiose africane, la vita religiosa in Africa si mette in gioco»

Che tipo di fenomeno è quello della schiavitù in Africa?

«Il primo dato è che è soprattutto intrafricano. Sono le stesse suore che ci spiegano che la gran parte del fenomeno si consuma tra Paesi limitrofi e comunque all’interno dei confini continentali. C’è una drammatica questione di sfruttamento sessuale nei campi profughi, aumenta la vulnerabilità nelle zone di conflitto. In Camerun, ad esempio, nella zona anglofona dove ci sono grosse tensioni tra gli indipendentisti e il governo centrale, riceviamo notizie di un numero crescente di ragazze trafficate. Tante vittime finiscono in Mali, ed è tragico il bilancio del fenomeno in Libia. Abbiamo aiutato di recente due ragazze che rientravano dalla Libia nel rimpatrio verso la Liberia, quando sono arrivate nella casa di accoglienza in Burkina Faso, avevano segni evidenti di torture e abusi. Abbiamo anche osservato che il fenomeno dello sfruttamento e della schiavitù è diffuso nelle aree più ricche dell’Africa. Prendiamo il caso di Benin City, la città tristemente famosa al mondo per la tratta della ragazze, si trova nel sud della Nigeria, la zona più benestante, dove le disuguaglianze aumentano e il disagio sociale è enorme. È un benessere mal distribuito, drogato, che, peraltro, sta consumando il tessuto familiare e i valori tradizionali. In questo senso è molto incoraggiante il modello che stiamo portando avanti che riparte dalla gratuità, cerca i mezzi nella solidarietà e nella piena condivisione, è la migliore risposta allo sfruttamento costante»

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