La via del digiuno

Published in Missione Oggi

L'uomo è onnivoro, e questa sua natura lo porta a non aver bisogno di una selezione rigorosa degli alimenti, siano essi di origine vegetale o animale. Tuttavia va notato che al giorno d'oggi egli non mangia nulla che non abbia prodotto direttamente o almeno preparato. L'atto della raccolta di cibo spontaneamente cresciuto è venuto meno nella maggior parte delle popolazioni del mondo. Per l'uomo «il cibo non esiste separato dal lavoro»1. Ci nutriamo di ciò che produciamo, ma non produciamo soltanto per nutrirci. L'azione di alimentarsi non è più visto come atto strettamente legato alla sussistenza, ma come evento sociale che comporta, fra le sue altre caratteristiche, quella di essere legato al piacere. A tal proposito Marx affermava: «gli uomini cominciano a distinguersi dagli animali nel momento in cui cominciano a produrre i loro mezzi di sostentamento, con un passo avanti che è la conseguenza stessa della loro organizzazione materiale»2.
Ora, la produzione di cibo è certamente conseguenza di un'organizzazione di ordine materiale, causata però da un'adeguata strutturazione di ordine sociale. Si dovrà dunque prendere nota del fatto che il fine ultimo a cui quest'organismo mira non è affatto tangibile: la nutrizione nell'uomo di oggi è quasi totalmente spogliata del suo aspetto puramente nutritivo.

Alla base di questo evento produttivo, troviamo la certezza della natura bipede dell'uomo. È grazie a tale natura che notiamo in esso una così grande differenza rispetto al processo nutritivo negli animali. Effettivamente l'uomo è in grado di produrre cibo (e non solo) proprio grazie alla sua postura eretta. Le braccia perdono la loro utilità deambulatoria e per questo possono liberamente essere impiegate per altri scopi: raccogliere, coltivare, cucinare. «Poiché le membra anteriori e la faccia sono liberate insieme alla posizione eretta; l'uomo non deve più servirsi della bocca per strappare gli alimenti dalla terra [...] la bocca e la lingua sono così libere per la parola»
3.
Il momento del pasto diventa evento conviviale di condivisione. Il passo in avanti di cui parla Marx è certamente una caratteristica peculiare esclusivamente umana che dà origine ad un nuovo modo di intendere l'alimento. Esso infatti da elemento prettamente orizzontale, ovvero utile solo a sfamare, diventa strumento d'elevazione verticale attorno a cui ruotano gran parte delle attività umane. In questo modo l'organizzazione materiale e gerarchica che sta dietro all'intera catena di produzione dell'alimento finito diventa nucleo fondante della società.

Il digiuno ci rammenta la vocazione alla trascendenza propria di ogni uomo. L'essere umano è capace di quella trascendenza che lo chiama al di fuori del mondo che lo nutre (dimensione orizzontale), di quella trascendenza che lo porta ad andare al di là della tendenza animale di impossessarsi di ciò che andrebbe sempre considerato come donato (dimensione verticale). Grazie al digiuno l'uomo si ricorda di non essere sola materia, ma di essere aperto ad altro: la sua vocazione non si esaurisce solo nell'immediato, solo nell'atto di raccogliere e consumare cibo solo quando ha fame. In quanto chiamata, la trascendenza infatti proviene da altro e chiama ad altro. In ciò sta la reale essenza e necessità del digiuno: nel prendere coscienza di tale intrinseca realtà. 
Il digiuno simbolizza in questo modo alcune dimensioni essenziali dell'atto del cibarsi. Tale simbolizzazione ha qualcosa di peculiare e per certi versi inconcepibile. Di tale realtà si prende atto tramite un atto mancato. È l'eliminazione o quantomeno la limitazione dell'atto del cibarsi che illustra in maniera sommamente efficace l'importanza e la intima natura del pasto.
L'assunzione delle pietanze, perché già di pietanze si parla (oggetto cucinato quindi), e non di un mero processo nutritivo che necessiti l'assunzione di un prodotto della terra così come lo troveremmo in natura, trascende l'atto puramente materiale. Non si tratta dell'atto di staccare il frutto dall'albero per nutrircene ma di elaborare quel medesimo frutto fino a trasformarlo con arte in qualcosa di diverso e condividere questa esperienza con altri.
Vale a dire che ci mettiamo a tavola per mangiare, e non ci limitiamo a raccogliere il cibo dalle piante per mangiarlo subito dopo: l'uomo vede nel cibo qualcosa di più della sola dimensione sensibile.

Quali dunque sono le peculiarità che caratterizzano il mangiare? La prima individuabile è quella con sé stessi (il cibo e me): esperienza questa che non si limita al solo gusto, non trova esaurimento nella sola cavità orale, negli organi della percezione gustativa. Non è solo il gusto mediante la bocca l'attrice dell'atto nutritivo, ma anche il tatto e quindi le mani. 
La seconda peculiarità è quella della della condivisione (il cibo e l'altro): il pasto rappresenta quella condivisione che si realizza nella parola. In quanto condivisione infatti esso è propriamente parola col vicino, dialogo. L'esperienza dialogica consiste infatti certamente nello scambio di parola fra due individui (dia=due, logos=parola); ma tuttavia tale evento, che è epifania
4 dell'altro, diviene presa di coscienza dell'altro nel "me" che si fa recettore della parola espressa e déttami. Il dialogo, la condivisione, è sempre un'esperienza che comunque vada muta l'io che è in me, che mi modifica interiormente. Ecco dunque che nella condivisione i due poli si incontrano, le due estremità si baciano e in questa congiunzione l'esperienza dell'altro diventa fondamento essenziale per l'esatta comprensione di me. 

La condivisione del cibo è ora compresa come evento iniziatico in cui il soggetto intende l'altro come uguale a sé ma comunque diverso. Nella presa di coscienza del nostro limite, della nostra debolezza, il nostro renderci conto della finitezza che ci è propria, attraverso il necessario atto del mangiare per cui ci rendiamo conto di non essere eterni e di essere chiamati alla lotta per la sopravvivenza, è ciò che ci ha spinti a plasmare la manducazione in qualcosa di diverso, in un evento sociale. La cognizione della morte, che aleggia come spada di Damocle sopra le nostre teste, è resa evidente dal fatto che se non mangiamo, muoriamo.
Dunque digiunare è via negativa della conoscenza del cibo: un procedimento ascendente del pensiero che progressivamente ci porta alla scoperta di ciò che il cibo è. E se è vero ciò che affermava Feuerbach: «Noi siamo quello che mangiamo», allora definendo il cibo possiamo arrivare a definire noi stessi.

L'atto di non mangiare ci porta a prendere coscienza della nostra mortalità nella dimensione in cui tale atto ci appare come necessario alla nostra sussistenza. Il digiuno, con ciò che questo comporta (debilitamento, deperimento, ecc.) è testimonianza della fragilità della nostra natura materiale, prova tangibile della nostra finitezza. In tale modo la privazione del cibo assurge al compito di indicatore, di segnale che ci aiuta a comprendere in maniera chiara l'essere quel soffio effimero che sono i nostri corpi.
Se il cibo dunque visibilizza la dignità sociale dell'uomo, è vero anche che il digiuno visibilizza una più profonda dignità umana (che spesso è dalla dignità sociale messa in scacco) nella dimensione in cui aiuta il digiunante a comprendere e a comprendersi come "altro" rispetto a ciò che è abituato a vedere e saper cogliere di sé. Grazie al cibo, mediante il digiuno, l'uomo fa esperienza di una dimensione di sé che non aveva mai scoperto prima. Quegli stessi sensi che percepivano la complessità dell'atto del cibarsi (dimensione orizzontale e dimensione verticale) ora non di meno intuiscono il silenzio del vuoto e di questo si meravigliano e si interrogano. Tale vuoto, tale silenzio delle fauci agisce quale loquacissimo retore la cui funzione di pedagogo insegna all'uomo la più dura ed insieme la più dolce delle lezioni: la morte è una verità certa, ma la finitudine dell'immanente non è ciò per cui questa creatura è creata. C'è un oltre, c'è un aldilà, un aldilà che si rende leggibile nella natura stessa dell'uomo. Un io aperto all'infinito altro.

Il digiuno allora funge da visibilizzatore di ciò che altrimenti sembrerebbe arduo e duro riuscire a definire e descrivere con la sola parola. Il digiuno diviene esperienza iniziatica, cammino quasi misterico, quasi un sacramento nel momento in cui rende evidente ciò che evidente solitamente non è.
Ora io sono così assuefatto della meccanica logica del mangiare, che non mi rendo conto di ciò che mangiare vuol dire. L'evento ordinario che proprio per causa della sua propria ordinarietà perde il suo reale significato, per essere scoperto, ha bisogno dello straordinario. E dove l'ordinario è il nutrirsi, lo straordinario è il digiunare.
Già la Chiesa delle origini aveva intuito l'importanza del digiuno come evento non solo culturale, ma cultuale, tramite il quale il soggetto digiunante non solo scopre sé stesso, ma legando a questa (mancata) azione la preghiera, entra in una dimensione di orazione più perfetta e profonda. La Didaché, che possiamo a ragione definire il più antico testo catechetico della Chiesa, noto come insegnamento o dottrina dei dodici apostoli, reclama a gran voce il primato di tale pratica.
Il digiuno e la preghiera sono azioni da offrire «per quelli che ci perseguitano»
5. Il digiuno diventa pratica ascetica che aiuta a svuotarsi di ciò che sappiamo superfluo, di ciò che non dovrebbe appartenerci. Il surplus va inteso come una sovrastruttura che oscura il nostro sguardo, fuligine che si frappone fra la nostra retina e il volto di Dio che è sempre rivolto verso la sua creatura. Rimuovere questa cortina di fumo è squarciare l'aspettativa mondana per riscoprire la grandezza dell'essenziale: rifiutare Mammona per adorare e riconoscere Dio. In questo rapporto di riconoscimento doppio (riconosco l'amore del Padre chinato verso di me e riconosco allo stesso tempo la potenziale grandezza che in me si cela) sta il disvelamento della caducità umana, volta continuamente verso sé stessa, intenta a rincorrere gli orpelli del secolo e ad accontentarsi della gloria vacua ed effimera di tesori terreni, «dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano»6

Ad una maggiore coscienza di sé e della propria natura corrisponde una più grande efficacia della preghiera. Essa infatti, luogo e spazio privilegiato di interlocuzione con l'Altissimo, altro non è se non che un incontro fra due amanti, in cui uno nella sua immensa perfezione è scaturigine della fedeltà e l'altro, per una deficienza volontaria è chiamato contro la propria originaria natura a venir meno a questa dote che pure era intenzione dell'Altissimo che questi coltivasse fin dall'origine del tempo.
Il digiuno infatti è aiuto per la preghiera, luogo dove l'uomo incontra Dio, da cui si è allontanato con il peccato originale, peccato che avvenne proprio con l'assunzione di cibo, un cibo non necessario. 
I progenitori mangiarono infatti di quell'unico albero di cui non avrebbero dovuto mangiare. In questo cibo, o meglio, nelle dinamiche che portarono e che scaturirono dall'assunzione di esso sta la radice del male. Non è un caso che nell'immaginario comune questo frutto non fosse che una mela. In latino il gioco di parole è evidente e non lascia spazio a dubbi: “mela” e “male” si esprimono infatti col medesimo termine: «malum». 
«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare»
7. Quest'unico frutto assume i connotati del desiderabile per eccellenza, di ciò che sta davanti ai nostri occhi e di cui per un incomprensibile divieto siamo impossibilitati a godere. La semplice esclusione da una parte, una porzione minima ed insignificante di tutto l'Eden rende l'intera esperienza di Adamo ed Eva del paradiso terrestre, con le gioie che ne conseguirebbero, vana, insoddisfacente e incompleta. Similmente anche noi, come i nostri progenitori, non riusciamo ad uscire dalla tentazione di godere appagati di ciò che possediamo e che cerchiamo sempre più, e più ancora, immergendoci in un vortice di desiderio che finisce per lasciarci insoddisfatti e frustrati. 

Anche per noi il cibo è divenuto ed è da sempre simbolo di un raggiungimento. Eva ambiva ad una somiglianza così perfetta con Dio, e tale somiglianza la vedeva suggellata dalla fagocitazione del cibo tanto desiderato, come noi del resto nell'utilizzo, nel consumo o addirittura nel semplice acquisto di alcuni cibi vediamo il sigillo che certifica il nostro avvenuto e palese successo. E ancora, raggiunto questo obiettivo, ecco che all'orizzonte se ne palesa un altro, ed un altro ancora, e ancora un altro. L'orizzonte dei desideri umani appare alla vista come una chimera irraggiungibile. La nostra sete di appagamento è un pozzo in cui difficilmente chi vi lanciasse un sasso riuscirebbe a sentire il sordo tonfo dell'infrangersi con le acque.
Da dove dunque scaturisce questa sete inesprimibile per tutto ciò che è vano e privo di un significato in sé? Come l'uomo può porre un così grande interesse per ciò che a questo mondo appare così vuoto, così effimero, così privo di ogni forma di senso?

«L'uomo è così infelice che per annoiarsi non ha bisogno di motivi, gli basta la condizione della sua natura. Ed è così fragile che pur essendo pieno di mille motivi validi per annoiarsi, è sufficiente una piccolissima cosa, come un biliardo e una palla, per distrarlo. Perché quell'uomo che da pochi mesi ha perso il suo unico figlio e che ancora questa mattina, preso da processi e litigi, era così turbato, ora non ci pensa più? Non vi stupite, è troppo intento a vedere da che parte passerà il cinghiale che i cani inseguono con tanta energia da sei ore: basta questo. Per quanto un uomo sia colmo di tristezza, se si riesce a distrarlo in qualche modo, eccolo felice in quel lasso di tempo; ma per quanto un uomo sia felice, se non si diverte o non è preso da qualche passione o passatempo che impedisca a la noia di prendere il sopravvento, diventerà in breve triste e infelice. Senza distrazioni non c'è gioia; con le distrazioni non c'è tristezza; ed è proprio questo che costituisce la felicità delle persone di elevata condizione, avere un gran numero di individui che le distraggono, e poter mantenere questa situazione»8

Digiunando, l'uomo si rende conto del surplus di cui dispone quotidianamente e, allontanandosene, ricorda a sé stesso qual'è la propria natura, una caduca natura mortale, aprendosi di conseguenza a ciò che nonostante tutto gli è connaturale: l'apertura alla trascendenza, la ricerca di Dio.

L'esperienza del digiuno non solo aiuta l'uomo a porre sé davanti a sé stesso, ma lo pone anche in mezzo agli altri. Quella stessa esperienza che era propria del cibarsi, esperienza sociale, la ritroviamo anche nel digiuno ma in una posizione ribaltata: se mangiare assieme è fare esperienza di sé come esseri immersi in una società di simili, il non mangiare ci catapulta fra gli ultimi, ci pone nella condizione di assumere il punto di vista del povero. La parva mensa quaresimale a cui volontariamente ci accostiamo altro non è che il medesimo pasto che milioni di individui condividono ogni giorno senza averne libera scelta nel silenzio opprimente della loro miseria. «C'era un uomo ricco, che era vestito di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco»
9. La cecità di Epulone (il ricco) è ciò che forse più ci fa indignare, ma non è in nulla dissimile dalla nostra stessa volontà di ignorare il fratello sofferente che a pochi passi da noi tende la mano bisognoso o che anche senza compiere questo gesto vive un'indigenza palese che dovrebbe interrogare la nostra coscienza.
Eppure un impegno costruttivo verso il povero Lazzaro sarebbe costato così poco.
Il digiuno ci aiuta a realizzare una comunione indiretta con lo stato di vita dell'indigente e ci aiuta a piegare il nostro volto su quello del fratello sofferente.
Tale gioco di sguardi fra chi possiede tutto o almeno qualcosa e chi non possiede niente dovrebbe creare in noi una mozione necessariamente forte tanto da spingerci verso un reale atto di misericordia. «Misericordia e pietà sono le ali del digiuno [...] Il digiuno senza misericordia è simulacro della fame, è apparenza senza valore di santità. Senza pietà il digiuno è occasione di avarizia. Quando digiuniamo, fratelli, riponiamo il nostro pasto nella mano del povero»
10.

Dopotutto è con queste stesse parole che si apre il periodo quaresimale: «Ricordati uomo che sei polvere e in polvere tornerai» e ancora «Convertiti e credi al Vangelo». Queste le proposizioni che la liturgia del Mercoledì delle Ceneri ci propone. La Quaresima è un tempo atto alla scoperta di sé e all'applicazione del dettato evangelico. Convertirsi significa proprio questo: essere coscienti di ciò che siamo e agire consequenzialmente tenendo bene a mente quale sia il nostro ruolo nei confronti di chi quotidianamente ci troviamo d'innanzi.

 

http://www.teologiaspicciola.org

 

 

1 Ghislain LafontEucaristia, Il pasto e la parola. Grandezza e forza dei simboli
2 FeuerbachL’ideologia in generale, Roma 1956, p.18
3 Ghislain LafontEucaristia, Il pasto e la parola. Grandezza e forza dei simboli, p.29
4 dal greco epifàneia: manifestazione.
5 Didaché 1, 3
6 Matteo 6,19
7 Genesi 2, 16-17
8 PascalPenseés, 126
9 Luca 16, 19-21
10 Pier CrisologoOmelia ottava sul digiuno della quaresima

L'uomo è onnivoro, e questa sua natura lo porta a non aver bisogno di una selezione rigorosa degli alimenti, siano essi di origine vegetale o animale. Tuttavia va notato che al giorno d'oggi egli non mangia nulla che non abbia prodotto direttamente o almeno preparato. L'atto della raccolta di cibo spontaneamente cresciuto è venuto meno nella maggior parte delle popolazioni del mondo. Per l'uomo «il cibo non esiste separato dal lavoro»1. Ci nutriamo di ciò che produciamo, ma non produciamo soltanto per nutrirci. L'azione di alimentarsi non è più visto come atto strettamente legato alla sussistenza, ma come evento sociale che comporta, fra le sue altre caratteristiche, quella di essere legato al piacere. A tal proposito Marx affermava: «gli uomini cominciano a distinguersi dagli animali nel momento in cui cominciano a produrre i loro mezzi di sostentamento, con un passo avanti che è la conseguenza stessa della loro organizzazione materiale»2.
Ora, la produzione di cibo è certamente conseguenza di un'organizzazione di ordine materiale, causata però da un'adeguata strutturazione di ordine sociale. Si dovrà dunque prendere nota del fatto che il fine ultimo a cui quest'organismo mira non è affatto tangibile: la nutrizione nell'uomo di oggi è quasi totalmente spogliata del suo aspetto puramente nutritivo.

Alla base di questo evento produttivo, troviamo la certezza della natura bipede dell'uomo. È grazie a tale natura che notiamo in esso una così grande differenza rispetto al processo nutritivo negli animali. Effettivamente l'uomo è in grado di produrre cibo (e non solo) proprio grazie alla sua postura eretta. Le braccia perdono la loro utilità deambulatoria e per questo possono liberamente essere impiegate per altri scopi: raccogliere, coltivare, cucinare. «Poiché le membra anteriori e la faccia sono liberate insieme alla posizione eretta; l'uomo non deve più servirsi della bocca per strappare gli alimenti dalla terra [...] la bocca e la lingua sono così libere per la parola»
3.
Il momento del pasto diventa evento conviviale di condivisione. Il passo in avanti di cui parla Marx è certamente una caratteristica peculiare esclusivamente umana che dà origine ad un nuovo modo di intendere l'alimento. Esso infatti da elemento prettamente orizzontale, ovvero utile solo a sfamare, diventa strumento d'elevazione verticale attorno a cui ruotano gran parte delle attività umane. In questo modo l'organizzazione materiale e gerarchica che sta dietro all'intera catena di produzione dell'alimento finito diventa nucleo fondante della società.

Il digiuno ci rammenta la vocazione alla trascendenza propria di ogni uomo. L'essere umano è capace di quella trascendenza che lo chiama al di fuori del mondo che lo nutre (dimensione orizzontale), di quella trascendenza che lo porta ad andare al di là della tendenza animale di impossessarsi di ciò che andrebbe sempre considerato come donato (dimensione verticale). Grazie al digiuno l'uomo si ricorda di non essere sola materia, ma di essere aperto ad altro: la sua vocazione non si esaurisce solo nell'immediato, solo nell'atto di raccogliere e consumare cibo solo quando ha fame. In quanto chiamata, la trascendenza infatti proviene da altro e chiama ad altro. In ciò sta la reale essenza e necessità del digiuno: nel prendere coscienza di tale intrinseca realtà. 
Il digiuno simbolizza in questo modo alcune dimensioni essenziali dell'atto del cibarsi. Tale simbolizzazione ha qualcosa di peculiare e per certi versi inconcepibile. Di tale realtà si prende atto tramite un atto mancato. È l'eliminazione o quantomeno la limitazione dell'atto del cibarsi che illustra in maniera sommamente efficace l'importanza e la intima natura del pasto.
L'assunzione delle pietanze, perché già di pietanze si parla (oggetto cucinato quindi), e non di un mero processo nutritivo che necessiti l'assunzione di un prodotto della terra così come lo troveremmo in natura, trascende l'atto puramente materiale. Non si tratta dell'atto di staccare il frutto dall'albero per nutrircene ma di elaborare quel medesimo frutto fino a trasformarlo con arte in qualcosa di diverso e condividere questa esperienza con altri.
Vale a dire che ci mettiamo a tavola per mangiare, e non ci limitiamo a raccogliere il cibo dalle piante per mangiarlo subito dopo: l'uomo vede nel cibo qualcosa di più della sola dimensione sensibile.

Quali dunque sono le peculiarità che caratterizzano il mangiare? La prima individuabile è quella con sé stessi (il cibo e me): esperienza questa che non si limita al solo gusto, non trova esaurimento nella sola cavità orale, negli organi della percezione gustativa. Non è solo il gusto mediante la bocca l'attrice dell'atto nutritivo, ma anche il tatto e quindi le mani. 
La seconda peculiarità è quella della della condivisione (il cibo e l'altro): il pasto rappresenta quella condivisione che si realizza nella parola. In quanto condivisione infatti esso è propriamente parola col vicino, dialogo. L'esperienza dialogica consiste infatti certamente nello scambio di parola fra due individui (dia=due, logos=parola); ma tuttavia tale evento, che è epifania
4 dell'altro, diviene presa di coscienza dell'altro nel "me" che si fa recettore della parola espressa e déttami. Il dialogo, la condivisione, è sempre un'esperienza che comunque vada muta l'io che è in me, che mi modifica interiormente. Ecco dunque che nella condivisione i due poli si incontrano, le due estremità si baciano e in questa congiunzione l'esperienza dell'altro diventa fondamento essenziale per l'esatta comprensione di me. 

La condivisione del cibo è ora compresa come evento iniziatico in cui il soggetto intende l'altro come uguale a sé ma comunque diverso. Nella presa di coscienza del nostro limite, della nostra debolezza, il nostro renderci conto della finitezza che ci è propria, attraverso il necessario atto del mangiare per cui ci rendiamo conto di non essere eterni e di essere chiamati alla lotta per la sopravvivenza, è ciò che ci ha spinti a plasmare la manducazione in qualcosa di diverso, in un evento sociale. La cognizione della morte, che aleggia come spada di Damocle sopra le nostre teste, è resa evidente dal fatto che se non mangiamo, muoriamo.
Dunque digiunare è via negativa della conoscenza del cibo: un procedimento ascendente del pensiero che progressivamente ci porta alla scoperta di ciò che il cibo è. E se è vero ciò che affermava Feuerbach: «Noi siamo quello che mangiamo», allora definendo il cibo possiamo arrivare a definire noi stessi.

L'atto di non mangiare ci porta a prendere coscienza della nostra mortalità nella dimensione in cui tale atto ci appare come necessario alla nostra sussistenza. Il digiuno, con ciò che questo comporta (debilitamento, deperimento, ecc.) è testimonianza della fragilità della nostra natura materiale, prova tangibile della nostra finitezza. In tale modo la privazione del cibo assurge al compito di indicatore, di segnale che ci aiuta a comprendere in maniera chiara l'essere quel soffio effimero che sono i nostri corpi.
Se il cibo dunque visibilizza la dignità sociale dell'uomo, è vero anche che il digiuno visibilizza una più profonda dignità umana (che spesso è dalla dignità sociale messa in scacco) nella dimensione in cui aiuta il digiunante a comprendere e a comprendersi come "altro" rispetto a ciò che è abituato a vedere e saper cogliere di sé. Grazie al cibo, mediante il digiuno, l'uomo fa esperienza di una dimensione di sé che non aveva mai scoperto prima. Quegli stessi sensi che percepivano la complessità dell'atto del cibarsi (dimensione orizzontale e dimensione verticale) ora non di meno intuiscono il silenzio del vuoto e di questo si meravigliano e si interrogano. Tale vuoto, tale silenzio delle fauci agisce quale loquacissimo retore la cui funzione di pedagogo insegna all'uomo la più dura ed insieme la più dolce delle lezioni: la morte è una verità certa, ma la finitudine dell'immanente non è ciò per cui questa creatura è creata. C'è un oltre, c'è un aldilà, un aldilà che si rende leggibile nella natura stessa dell'uomo. Un io aperto all'infinito altro.

Il digiuno allora funge da visibilizzatore di ciò che altrimenti sembrerebbe arduo e duro riuscire a definire e descrivere con la sola parola. Il digiuno diviene esperienza iniziatica, cammino quasi misterico, quasi un sacramento nel momento in cui rende evidente ciò che evidente solitamente non è.
Ora io sono così assuefatto della meccanica logica del mangiare, che non mi rendo conto di ciò che mangiare vuol dire. L'evento ordinario che proprio per causa della sua propria ordinarietà perde il suo reale significato, per essere scoperto, ha bisogno dello straordinario. E dove l'ordinario è il nutrirsi, lo straordinario è il digiunare.
Già la Chiesa delle origini aveva intuito l'importanza del digiuno come evento non solo culturale, ma cultuale, tramite il quale il soggetto digiunante non solo scopre sé stesso, ma legando a questa (mancata) azione la preghiera, entra in una dimensione di orazione più perfetta e profonda. La Didaché, che possiamo a ragione definire il più antico testo catechetico della Chiesa, noto come insegnamento o dottrina dei dodici apostoli, reclama a gran voce il primato di tale pratica.
Il digiuno e la preghiera sono azioni da offrire «per quelli che ci perseguitano»
5. Il digiuno diventa pratica ascetica che aiuta a svuotarsi di ciò che sappiamo superfluo, di ciò che non dovrebbe appartenerci. Il surplus va inteso come una sovrastruttura che oscura il nostro sguardo, fuligine che si frappone fra la nostra retina e il volto di Dio che è sempre rivolto verso la sua creatura. Rimuovere questa cortina di fumo è squarciare l'aspettativa mondana per riscoprire la grandezza dell'essenziale: rifiutare Mammona per adorare e riconoscere Dio. In questo rapporto di riconoscimento doppio (riconosco l'amore del Padre chinato verso di me e riconosco allo stesso tempo la potenziale grandezza che in me si cela) sta il disvelamento della caducità umana, volta continuamente verso sé stessa, intenta a rincorrere gli orpelli del secolo e ad accontentarsi della gloria vacua ed effimera di tesori terreni, «dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano»6

Ad una maggiore coscienza di sé e della propria natura corrisponde una più grande efficacia della preghiera. Essa infatti, luogo e spazio privilegiato di interlocuzione con l'Altissimo, altro non è se non che un incontro fra due amanti, in cui uno nella sua immensa perfezione è scaturigine della fedeltà e l'altro, per una deficienza volontaria è chiamato contro la propria originaria natura a venir meno a questa dote che pure era intenzione dell'Altissimo che questi coltivasse fin dall'origine del tempo.
Il digiuno infatti è aiuto per la preghiera, luogo dove l'uomo incontra Dio, da cui si è allontanato con il peccato originale, peccato che avvenne proprio con l'assunzione di cibo, un cibo non necessario. 
I progenitori mangiarono infatti di quell'unico albero di cui non avrebbero dovuto mangiare. In questo cibo, o meglio, nelle dinamiche che portarono e che scaturirono dall'assunzione di esso sta la radice del male. Non è un caso che nell'immaginario comune questo frutto non fosse che una mela. In latino il gioco di parole è evidente e non lascia spazio a dubbi: “mela” e “male” si esprimono infatti col medesimo termine: «malum». 
«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare»
7. Quest'unico frutto assume i connotati del desiderabile per eccellenza, di ciò che sta davanti ai nostri occhi e di cui per un incomprensibile divieto siamo impossibilitati a godere. La semplice esclusione da una parte, una porzione minima ed insignificante di tutto l'Eden rende l'intera esperienza di Adamo ed Eva del paradiso terrestre, con le gioie che ne conseguirebbero, vana, insoddisfacente e incompleta. Similmente anche noi, come i nostri progenitori, non riusciamo ad uscire dalla tentazione di godere appagati di ciò che possediamo e che cerchiamo sempre più, e più ancora, immergendoci in un vortice di desiderio che finisce per lasciarci insoddisfatti e frustrati. 

Anche per noi il cibo è divenuto ed è da sempre simbolo di un raggiungimento. Eva ambiva ad una somiglianza così perfetta con Dio, e tale somiglianza la vedeva suggellata dalla fagocitazione del cibo tanto desiderato, come noi del resto nell'utilizzo, nel consumo o addirittura nel semplice acquisto di alcuni cibi vediamo il sigillo che certifica il nostro avvenuto e palese successo. E ancora, raggiunto questo obiettivo, ecco che all'orizzonte se ne palesa un altro, ed un altro ancora, e ancora un altro. L'orizzonte dei desideri umani appare alla vista come una chimera irraggiungibile. La nostra sete di appagamento è un pozzo in cui difficilmente chi vi lanciasse un sasso riuscirebbe a sentire il sordo tonfo dell'infrangersi con le acque.
Da dove dunque scaturisce questa sete inesprimibile per tutto ciò che è vano e privo di un significato in sé? Come l'uomo può porre un così grande interesse per ciò che a questo mondo appare così vuoto, così effimero, così privo di ogni forma di senso?

«L'uomo è così infelice che per annoiarsi non ha bisogno di motivi, gli basta la condizione della sua natura. Ed è così fragile che pur essendo pieno di mille motivi validi per annoiarsi, è sufficiente una piccolissima cosa, come un biliardo e una palla, per distrarlo. Perché quell'uomo che da pochi mesi ha perso il suo unico figlio e che ancora questa mattina, preso da processi e litigi, era così turbato, ora non ci pensa più? Non vi stupite, è troppo intento a vedere da che parte passerà il cinghiale che i cani inseguono con tanta energia da sei ore: basta questo. Per quanto un uomo sia colmo di tristezza, se si riesce a distrarlo in qualche modo, eccolo felice in quel lasso di tempo; ma per quanto un uomo sia felice, se non si diverte o non è preso da qualche passione o passatempo che impedisca a la noia di prendere il sopravvento, diventerà in breve triste e infelice. Senza distrazioni non c'è gioia; con le distrazioni non c'è tristezza; ed è proprio questo che costituisce la felicità delle persone di elevata condizione, avere un gran numero di individui che le distraggono, e poter mantenere questa situazione»8

Digiunando, l'uomo si rende conto del surplus di cui dispone quotidianamente e, allontanandosene, ricorda a sé stesso qual'è la propria natura, una caduca natura mortale, aprendosi di conseguenza a ciò che nonostante tutto gli è connaturale: l'apertura alla trascendenza, la ricerca di Dio.

L'esperienza del digiuno non solo aiuta l'uomo a porre sé davanti a sé stesso, ma lo pone anche in mezzo agli altri. Quella stessa esperienza che era propria del cibarsi, esperienza sociale, la ritroviamo anche nel digiuno ma in una posizione ribaltata: se mangiare assieme è fare esperienza di sé come esseri immersi in una società di simili, il non mangiare ci catapulta fra gli ultimi, ci pone nella condizione di assumere il punto di vista del povero. La parva mensa quaresimale a cui volontariamente ci accostiamo altro non è che il medesimo pasto che milioni di individui condividono ogni giorno senza averne libera scelta nel silenzio opprimente della loro miseria. «C'era un uomo ricco, che era vestito di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco»
9. La cecità di Epulone (il ricco) è ciò che forse più ci fa indignare, ma non è in nulla dissimile dalla nostra stessa volontà di ignorare il fratello sofferente che a pochi passi da noi tende la mano bisognoso o che anche senza compiere questo gesto vive un'indigenza palese che dovrebbe interrogare la nostra coscienza.
Eppure un impegno costruttivo verso il povero Lazzaro sarebbe costato così poco.
Il digiuno ci aiuta a realizzare una comunione indiretta con lo stato di vita dell'indigente e ci aiuta a piegare il nostro volto su quello del fratello sofferente.
Tale gioco di sguardi fra chi possiede tutto o almeno qualcosa e chi non possiede niente dovrebbe creare in noi una mozione necessariamente forte tanto da spingerci verso un reale atto di misericordia. «Misericordia e pietà sono le ali del digiuno [...] Il digiuno senza misericordia è simulacro della fame, è apparenza senza valore di santità. Senza pietà il digiuno è occasione di avarizia. Quando digiuniamo, fratelli, riponiamo il nostro pasto nella mano del povero»
10.

Dopotutto è con queste stesse parole che si apre il periodo quaresimale: «Ricordati uomo che sei polvere e in polvere tornerai» e ancora «Convertiti e credi al Vangelo». Queste le proposizioni che la liturgia del Mercoledì delle Ceneri ci propone. La Quaresima è un tempo atto alla scoperta di sé e all'applicazione del dettato evangelico. Convertirsi significa proprio questo: essere coscienti di ciò che siamo e agire consequenzialmente tenendo bene a mente quale sia il nostro ruolo nei confronti di chi quotidianamente ci troviamo d'innanzi.

 

  


1 Ghislain LafontEucaristia, Il pasto e la parola. Grandezza e forza dei simboli
2 FeuerbachL’ideologia in generale, Roma 1956, p.18
3 Ghislain LafontEucaristia, Il pasto e la parola. Grandezza e forza dei simboli, p.29
4 dal greco epifàneia: manifestazione.
5 Didaché 1, 3
6 Matteo 6,19
7 Genesi 2, 16-17
8 PascalPenseés, 126
9 Luca 16, 19-21
10 Pier CrisologoOmelia ottava sul digiuno della quaresima

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