La persecuzione dei cattolici durante la Rivoluzione culturale

Published in Missione Oggi

Gli anni della Rivoluzione culturale sono stati giudicati ufficialmente dalle autorità cinesi “dieci anni di catastrofi”. Per le religioni e per la Chiesa cattolica sono stati gli anni della più violenta persecuzione e della soppressione sistematica della loro presenza. Ma quanto e cosa hanno sofferto i cattolici cinesi durante la Rivoluzione culturale non è molto documentato. Vi sono molti più resoconti sulla persecuzione nel periodo degli anni ‘50. Il motivo è che i documenti di quella “catastrofe” sono stati bruciati o rimangono sepolti negli archivi. E di recente solo poche vittime hanno osato parlarne.

Con la Circolare del 16 Maggio 1966, Mao Zedong lanciava la lotta politica contro i suoi nemici che chiamava ‘mostri e demoni’, cioè tutti coloro che si opponevano al controllo del Partito e all’ideologia comunista: intellettuali, ricchi, padroni di terre, contro-rivoluzionari e seguaci delle varie religioni.  Dopo l’editoriale del Quotidiano del Popolo del primo giugno, “Spazzar via tutti i mostri e i demoni”, le Guardie Rosse lanciano una campagna violenta arrestando e perseguitando tutti i membri di queste categorie. Segue poi la campagna per sradicare le ‘Quattro Cose Vecchie’, vecchie tradizioni, costumi, cultura e modi di pensare, direttiva reiterata nella grande dimostrazione di Guardie Rosse del 18 agosto nella Piazza Tiananmen, celebrata con il pieno appoggio di Mao Zedong. Da allora, le Guardie Rosse aumentano i loro attacchi: i seguaci delle religioni diventano uno dei loro principali bersagli.

I cristiani, in particolare, sono considerati subito “nemici del popolo” e i  cattolici continuano ad essere sospettati di attività contro-rivoluzionarie. La persecuzione si scaglia sia sui credenti che sugli edifici religiosi. Le chiese sono spogliate di tutto, danneggiate e usate come ripostigli, fabbriche o abitazioni, se non demolite. Statue, paramenti, articoli e libri religiosi sono bruciati. 

I semplici fedeli sono scacciati da casa, costretti a girare nelle strade del villaggio e delle città con in testa alti cappelli cilindrici su cui sono scritti i loro ‘crimini’; sono poi mandati ad abitare in miseri locali o in capanne, mentre i persecutori rubano tutto quello che vogliono e distruggono o bruciano il resto dell’arredamento.

Molti soffrono una morte miserevole. Vescovi, sacerdoti e suore, anche i ‘patriottici’ che ancora operano ufficialmente, sono arrestati, insultati e condannati ai campi forzati o in prigione.  A Baoding (Hebei), Guardie Rosse della scuola media si sono rovesciati nella cattedrale: raccolgono tutti gli articoli religiosi sul piazzale e accendono il fuoco. Radunano poi clero e suore con maniere violente attorno al rogo. Siamo “patriottici”, dichiara P. Antonio Li Daoning. “Ti picchiamo come patriottico” gli rispondono. Sotto la violenza il prete sviene ed è buttato sul rogo. Un’altra vittima è Sr. Zhang Ergu, che è picchiata a morte con bastoni perché si è rifiutata di calpestare un’immagine della Madonna. In un altro caso simile in una chiesa del nord Henan, un sacerdote è spinto così vicino al rogo che gli si bruciano i piedi; portato a casa, dopo due giorni muore..

Nel giugno 1966, Mons. Xi Minyuan è arrestato e imprigionato accusato di attività anti-rivoluzionarie e di rapporti con gli stranieri: muore in carcere. A Kaifeng, Sr. Wang Qian, è legata, portava via dalle Guardie Rosse e sepolta viva.

Il sinologo Anthony Clark riporta che durante una visita alla chiesa del Salvatore (la Beitang) a Beijing, ha notato il giardiniere che dava un’attenzione speciale a un luogo presso un albero del piazzale. Alla sua richiesta, ha confidato che nell’estate 1966 un gruppo di Guardie Rosse hanno attaccato un anziano prete, l’hanno legato e costretto a inginocchiarsi e dichiarare che rinunciava alla sua fede. Dato però il suo rifiuto, l’hanno picchiato a morte e sepolto proprio in quel luogo.

A Taiyuan, P. Wang Shiwei è arrestato, picchiato e messo in prigione; qui è legato e incatenato in modo che non può neppure sdraiarsi. Dopo torture, il 15 febbraio 1970, è condotto fuori della cella e fucilato.

Il 24 agosto 1966, le ultime sette suore straniere che con altre suore cinesi amministravano la Scuola cattolica del Sacro Cuore per i bambini del corpo diplomatico a Beijing, sono attaccate e picchiate dalle Guardie Rosse. Una di essa è frustata sul viso con tanta violenza da strapparle quasi gli occhi. Il giorno dopo sono sottoposte a processo, le straniere espulse, le cinesi condannate a 20 anni di carcere. Il viaggio da Beijing a Hong Kong è estenuante. Sr. Molly O’Sullivan, giunta a Lowu, è così spossata dalla febbre che sviene. Le guardie la gettano su un carrello che le consorelle spingono attraverso il ponte. In Hong Kong è subito portata in ospedale ma il giorno dopo muore e ritorna al Padre celeste.   

Per i cattolici che già erano in prigione o in campi di lavoro forzato dagli anni ‘50, il periodo della Rivoluzione culturale si è trasformato in un incubo terribile, perché sottoposti a continui interrogatori, attacchi in processi pubblici, insulti, battiture e violenze. Alcuni sopravvissuti hanno pubblicato le loro memorie, come Mons. Domenico Deng Yiming, P. Francesco Tan Tiande, P. Giovanni Huang Yongmu,  P. Li Chang, Margherita Chu, Giuseppe Ho, Giovanni Liao e Teresa Mo, ecc.

Esistono ancora tante tragedie e sacrifici che i Cattolici cinesi hanno sofferto durante la Rivoluzione culturale, ma che rimangono nascosti nel cuore delle vittime e dei persecutori. Di questi ultimi, pochi hanno avuto il coraggio di confessare e di chiedere perdono; la maggioranza non ne sente il bisogno o vuole dimenticare. Molte vittime e loro conoscenti non osano parlare per paura. Perché? Un sacerdote che ho invitato a raccogliere documentazione su questo periodo, confessa: “Parlando dal cuore, non posso esprimere quello che provo quando ricordo questo tempo di grandi sofferenze, dal momento che nelle condizioni presenti della Chiesa tale situazione non è ancora finita. Forse la minaccia alla fede è fatta in modo più sottile, ma più profondo rispetto alle generazioni passate. Dobbiamo pregare il Signore che ci rafforzi e ci dia il coraggio di continuare a testimoniare la fede nel nostro Salvatore”.

 

 

Il silenzio sui 50 anni della Rivoluzione Culturale in Cina e in occidente

Bernardo Cervellera

Cinquanta anni fa, il 16 maggio 1966, Mao Zedong ha lanciato una campagna per eliminare i suoi rivali, iniziando quel periodo della storia cinese chiamata “Rivoluzione Culturale”. Nel tentativo di nascondere i suoi fallimenti per la campagna del Grande Balzo in Avanti (che hanno portato alla morte per fame almeno 35 milioni di persone), Mao ha spinto i giovani contro “i vecchi” del Partito per “purgare” la società. In questa vera e propria guerra civile, i figli hanno condannato a morte i genitori, gli studenti i loro insegnanti, le giovani Guardie Rosse gli anziani del partito e l’esercito. Si calcola che nel periodo, durato fino alla morte di Mao nel 1976, sono morti almeno 1,7 milioni di persone. Almeno altri 4 milioni di cinesi hanno subito il carcere o il lager; fra essi molti intellettuali, professionisti, personalità religiose.

Sotto lo slogan di una “rivoluzione permanente”, Mao ha spinto i giovani a combattere e distruggere i “quattro vecchi”: i costumi, le tradizioni, la cultura, il pensiero. Oltre alle persone, sono andati distrutti libri, dipinti, edifici, templi, congelando per oltre 10 anni studi e approfondimenti sulla cultura cinese, sulle religioni, rapporti con università e comunità internazionali (fra cui anche le Chiese e il Vaticano).

Questo periodo viene ricordato dai cinesi con angoscia e definito il “grande caos” (da luan), ma di più in pubblico non si dice.

Per questo non sorprende – anche se è piuttosto strano – che oggi nessun grande giornale in Cina abbia ricordato questo anniversario, che ha inciso e ferito la memoria e le paure dei cinesi. Ed è curioso che mentre molte università straniere studiano questo periodo così determinante per la storia della Cina, all’interno il Partito comunista non permette alcuno studio approfondito e alcun dibattito pubblico.

Nel marzo scorso, all’avvicinarsi dell’anniversario, un editoriale del Global Times, il magazine del Quotidiano del Popolo, ha messo in guardia chiunque osi presentare interpretazioni o riflessioni sulla Rivoluzione culturale che siano diverse dalla interpretazione ufficiale. “Le riflessioni – si dice nel testo – sono normali… ma esse non devono aggiungere o cambiare il verdetto politico ufficiale”.

Tale verdetto politico è quello emesso dal Partito nel 1981, secondo cui quel periodo è stato “una catastrofe”, da attribuire soprattutto alla famosa “banda dei Quattro”, gli stretti collaboratori di Mao Zedong. Nulla si dice delle responsabilità dello stesso Mao, che aveva definito la Rivoluzione culturale uno dei suoi migliori risultati.

Ancora oggi il Partito non osa alzare il velo sulle responsabilità del “Grande timoniere” e su quelle degli altri quadri, e dopo 50 anni non ha portato alcuna giustizia alle vittime, né alcuna scusa per coloro che hanno sofferto.

Il problema ha una sua attualità perché molti osservatori dentro e fuori della Cina affermano che il Paese si sta dirigendo verso una nuova Rivoluzione culturale: ne è prova il grando controllo sui media, su internet, sugli insegnamenti accademici, sulle religioni, come pure il lievitare di un nuovo culto della personalità che osanna il presidente Xi Jinping.

Secondo molti riformisti, il disastro e le violenze della Rivoluzione culturale vanno studiati perché essa mostra la fragilità del sistema costruito da Mao, con l’identificazione del Partito e dello Stato e l’accentramento del potere in una sola persona. Per questo essi chiedono riforme di tipo economico - valorizzando le imprese private e lasciando che il mercato decida della sorte delle gigantesche imprese statali – ma anche di tipo politico, garantendo indipendenza alla magistratura, favorendo elezioni interne, lasciando più libertà alla società civile.

Mentre i riformisti desiderano una società più liberale che dia più respiro anche all’economia, vi sono anche gruppi che desiderano il ritorno alla Rivoluzione culturale, o domandano un rafforzamento del Partito-Stato, accusando le modernizzazioni economiche di aver distrutto l’ideale maoista di uguaglianza, lasciando spazio alla corruzione e a un profondo abisso fra ricchi e poveri.

Forse è da attribuire a questa fazione lo spettacolo ufficiale tenutosi il 2 maggio scorso in piazza Tiananmen, in cui la corale dei “56 fiori” ha reso omaggio a Mao riempiendo l’aria di “canzoni rosse”, dove si esalta “il sole eterno del pensiero di Mao Zedong” e lo “stringersi al Partito” da parte delle masse rivoluzionarie.

Le diverse posizioni danno luogo a una lotta interna, in cui però domina la personalità di Xi Jinping che alla fine esige il silenzio sulle critiche al Partito, timoroso che avvenga per la Cina quanto è accaduto al Partito comunista sovietico.

L’anniversario della Rivoluzione culturale dovrebbe essere anche un’occasione di revisione per tutti quei politici e intellettuali occidentali che al tempo osannavano Mao e la “rivoluzione permanente” come il paradiso in terra e nascondevano le violenze, le torture, le uccisioni e le distruzioni. I silenzi occidentali di allora sono simili ai silenzi di oggi. Con una differenza: ieri si voleva salvare l’ideologia maoista; oggi si vuole salvare gli investimenti cinesi in Europa o europei in Cina. Ma la conclusione è sempre la stessa: è il popolo a soffrire.

Fonte: AsiaNews

 

Last modified on Sunday, 22 May 2016 00:32

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