Quattro chiacchiere con Mons. Giorgio Marengo

Mons. Giorgio con Altankhuu, segretario dell'abate, monastero di Dashchoiliin Mons. Giorgio con Altankhuu, segretario dell'abate, monastero di Dashchoiliin SozziJA
Published in Missione Oggi

Da poco nominato cardinale dal papa Francesco, Mons. Giorgio Marengo, Missionario della Consolata e prefetto apostolico di Ulaanbaatar, ha visitato recentemente Roma con una delegazione di monaci buddisti del monastero Dashchoiliin. Abbiamo avuto modo di sentirlo a proposito della sua esperienza missionaria in Mongolia cominciata quasi vent’anni fa.

Il paese

La Mongolia è un pese tremendamente grande (1,5 milioni di chilometri quadrati) e anche tremendamente spopolato (3,2 milioni di abitanti metà dei quali concentrati nella capitale Ulaanbaatar). La città capitale, che è il cuore pulsante del paese e che oggi gode di un discreto sviluppo economico e urbanistico, è attorniata da un immenso deserto e da immensi pascoli in cui la popolazione vive in uno stato nomade ed è essenzialmente dedicata alla pastorizia: se gli abitanti della Mongolia sono 3,2 milioni... i capi di bestiame nel paese sono 60 milioni.

Se voi osservate bene la carta geografica vedrete che il paese è chiuso fra la Cina e la Siberia e questa posizione geografica è abbastanza complicata... I vincoli con i poderosi vicini sono sempre stati forti, nel secolo XX più con la Russia che con la Cina, ma evidentemente anche delicati i rapporti. Fino ad oggi l’esistenza della Mongolia è servita alle due superpotenze orientali per mantenere una certa divisione e distanza... ma questo potrebbe anche cambiare nella misura in cui cambino le relazioni geopolitiche e lo sviluppo economico.

Se anni fa, quando arrivarono i primi missionari, si sono trovati di fronte un paese alquanto impoverito, oggi le cose sono cambiate in modo importante. Grazie anche a un sottosuolo ricco di risorse minerali, la Mongolia sta crescendo economicamente e in modo abbastanza equilibrato, anche se non mancano nemmeno episodi di corruzione e cattiva amministrazione.

La cultura e la storia

La radici profonde della cultura mongola si perdono nella notte dei tempi, da alcuni ritrovamenti archeologici sappiamo anche che il cristianesimo era arrivato in quella remota regione, ma il fatto storico importante che ha determinato l’insorgere dell’identità nazionale è stato il nascere e l’estendersi dell’impero di Gengis Khan a cavallo fra il XII e XIII secolo. Questo condottiero quasi mitico ha costruito un impero fra i più vasti che ricordi l’umanità dal momento che, al momento della sua massima espansione, copriva la quasi totalità del continente euroasiatico: dai balcani fino alla Cina. Questo impero, durato poco più di cent’anni, ancora oggi costituisce l’orgoglio e l’identità profonda della gente e della cultura mongola: tutti si sentono discendenti di Gengis Khan. 

Come in buona parte delle nazioni asiatiche la spiritualità buddista costituisce il cuore profondo della cultura e della forma di vedere il mondo. L’arte, la letteratura, la poesia è fondamentalmente plasmata dalle tradizioni buddiste. Questa cultura buddista profonda è importante nella vita di tutti i Mongoli e quindi anche nella vita delle piccole comunità cristiana, tutte persone che sono giunte alla fede negli ultimi anni 30 anni: sono solo due generazioni di cristiani presenti in Mongolia. Malgrado la professione della fede cristiana anche loro “trasudano” ancora valori e riferimenti del buddismo mongolo.

Il buddismo in Asia si è diffuso e ha affondato le sue radici in modo diverso in diverse geografie. Concretamente in Mongolia il buddismo fa riferimento alla corrente tibetana di questa religione ma assume anche abbondanti elementi esterni legati a tradizioni sciamaniche, esoteriche, con una ritualità spesso magica. Un perfetto buddista, secondo l’insegnamento di Siddartha Gautama, fondamentalmente deve essere un monaco; è lui la guida spiritualmente, ma molto spesso anche politica, della comunità; è sempre una persona in vista sostenuta in quella posizione dalla stessa comunità. 

La maggior parte delle persone che si professano buddiste non frequentano il tempio più di due o tre volte all’anno, ma sono fedeli nell’osservanza di una ritualità dalla quale dipende in buona parte la loro fortuna e la loro vita. Tutto questo è ben presente anche nelle nostre comunità cristiane e per questo motivo, fra le altre cose, è importante stabilire il dialogo e una conoscenza reciproca. In questa direzione si deve muove anche  la nostra chiesa.

Questa anima buddista non è stata scalfita e non è sostanzialmente cambiata anche il lunghissimo parentesi comunista, iniziato nel 1921 e terminato 70 anni dopo, dopo la caduta del muro di Berlino. La storia della Mongolia nel periodo del regime comunista è ancora in buona parte da scrivere, sono tante le persone che sono ancora in vita e che hanno avuto in un modo o nell’altro un ruolo in quella pagina difficile della storia del paese ed è ancora presto per rimuovere i sedimenti di quell’epoca. Possiamo comunque dire che il sistema comunista era analogo a quello che oggi si conserva in Corea del Nord, era quasi impossibile entrare nel paese e siccome prima della rivoluzione comunista il paese era organizzato in modo teocratico come il Tibet, l’avvento comunista ha prodotto una persecuzione sanguinosa nella quale sono stati uccisi verosimilmente attorno ai 15 mila monaci.

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La nostra presenza di chiesa

Oggi la libertà di religione è sancita dalla costituzione e proclamata in tutto il paese, e per questo anche la chiesa cattolica è potuta arrivare fin qua, ma la relazione con le autorità civili sono comunque non facili. Ci sono molte restrizioni con rispetto al numero di missionari ed attività che questi possono svolgere; è difficile avere un visto di entrata e questo è vincolato al numero di impiegati mongoli coinvolti nelle attività missionarie. Anche la visita dei monaci buddisti al papa Francesco, che accompagnerò in questi giorni, vorrebbe un po’ facilitare la relazione bilaterale fra la Santa Sede e le autorità religiose buddiste e creare un clima di maggior simpatia e fiducia nei confronti della nostra piccola comunità cristiana. Oggi essere mongolo ed essere cristiano è qualcosa di abbastanza raro e non sempre accolto favorevolmente.

La poca accettazione della nostra presenza si vede nella quotidianità in tante cose. Per esempio il tempo del Covid... la Mongolia aveva perfino chiuso il suo spazio aereo e i diversi lockdown sono stati rigorosi, rigidi e forse più forti con i luoghi di culto. Quando alla fine poco a poco si è aperto tutto... questi continuavano ad essere inaccessibili. Le nostre chiese sono rimaste chiuse un anno e mezzo. Io come vescovo ho dovuto essere ordinato in Italia e poi l’entrata canonica nella cattedrale l’ho fatta con solo due testimoni, necessari per la validità legale, ma i nostri cristiani hanno dovuto partecipare alla cerimonia per mezzo di un collegamento on line fatto con il cellulare di uno dei pochi presenti.

Nell’anno 2003 io facevo parte del primo gruppo di missionari e missionarie della Consolata che hanno raggiunto la Mongolia, fin dall’inizio questa avventura l’abbiamo affrontata assieme, come famiglia Consolata fatta di missionari e missionarie e continuiamo in questo modo.

Nel 2020 il papa Francesco mi ha nominato vicario prefetto apostolico di Ulaanbaatar e in qualche modo la mia missione è cambiata radicalmente: ho dovuto abbandonare la comunità nella quale stavo vivendo, quella di Arvaiheer, e sono stato proiettato in uno spazio diverso, con impegni e incombenze che non pensavo di dover affrontare, e nel  quale bisogna anche assumere un certo grado di solitudine. Come rappresentante di una chiesa “piccola” come la mongola, facciamo parte della conferenza Episcopale dell’Asia centrale nella quale ci sono tutti i vescovi che risiedono nei paesi che finiscono in “stan”, e che sono tutti più occidentali della Mongolia... e la Mongolia che rappresento.

La chiesa in questo paese è recentissima: quest’anno si compiono 30 anni dall’arrivo dei primi missionari. Era una comunità di tre missionari della congregazione del Cuore Immacolato di Maria: due filippini e un belga. Uno di loro, Mons. Wenceslao Padilla divenne vescovo precisamente nell’anno in cui noi, Missionari della Consolata, arrivammo al paese. È stato il mio predecessore ed è scomparso improvvisamente nell’anno 2018. La sua è una figura che ha lasciato il segno e nel 2016 ha anche ordinato il primo dei due sacerdoti di origine mongola con cui contiamo e che si sono formati in Corea. 

La nostra chiesa è fatta fin dall’inizio da piccoli numeri: tutti i battezzati della Mongolia sono 1400 e sono raggruppati in 8 parrocchie. Anche in futuro sicuramente continuerà ad avere le stesse caratteristiche è continuerà ad essere accompagnata da un gruppo di  evangelizzatori fin dal principio eterogeneo: siamo 64 missionari (22 sacerdoti, 35 religiose, 3 fratelli consacrati e 1 vescovo) e apparteniamo a 24 nazionalità diverse. La chiesa universale è in qualche modo ben rappresentata fra di noi. 

Le conversioni di massa, una chiesa in rapida ascesa come quella che vediamo nell’Africa, in Asia non è pensabile e forse neanche adeguata alla realtà. La nostra è più prossima alla chiesa degli Atti degli Apostoli, dove le famiglie si convertivano e in qualche modo si conoscevano tutti ed erano tutti fratelli. Noi in Mongolia ci conosciamo tutti.

Ho fatto un breve calcolo e potrei dire che noi evangelizzatori della prima ora in Mongolia dedichiamo il 71% del nostro tempo alla promozione umana, è stata lei quella che ci ha aperto le porte di questo paese, e il 29% all’evangelizzazione e alla cura pastorale. In realtà, visti i nostri numeri, ogni momento di cura pastorale, una eucaristia celebrata, è quasi sempre un primo annuncio.

Nella nostra chiesa abbiamo delle priorità che mi sembrano importanti. La profondità perché i nostri cristiani hanno bisogno di approfondire sempre di più la loro fede se vogliamo che questa attecchisca in modo stabile e fruttifero in questo paese. Un autentico dialogo interreligioso lo possiamo fare solo se abbiamo una conoscenza e un vissuto autentico e profondo della nostra stessa fede. Poi il primo annuncio perché è il vangelo e solo il vangelo il motore che muove la nostra fede, con maggior ragione quando alle spalle non ci sono retaggi storici e culturali che possono sostenere un vissuto magari incompleto della stessa fede. Se vogliamo costruire la sola chiesa possibile in Asia che è una chiesa inculturata, anche la formazione degli evangelizzatori è assolutamente importante: non possiamo portare profondità e autenticità alle comunità cristiane se prima noi stessi non viviamo nello stesso modo. C’è una espressione che è stata creata da un vescovo indiano per dire come deve essere l’evangelizzazione nel continente Asia: “sussurrare il vangelo al cuore”. Mi sembra particolarmente indovinata e la ripeto spesso: dice bene della famigliarità, l’amicizia e la vicinanza che vogliamo stabilire con le persone e le culture dell’Asia (solo a una persona prossima possiamo sussurrare) e parla dell’unico luogo dove il Vangelo è di casa, il cuore, la parte profonda e autentica di ogni uomo ed ogni cultura.

Last modified on Tuesday, 12 July 2022 15:35
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