La missione in un mondo in fuga (II)

Category: Missione Oggi
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L’epifania

In molte parti del mondo, tutto ciò che i missionari possono fare è esserci. In alcuni paesi comunisti e islamici non è possibile nulla di più, se non essere un segno implicito del Regno. Talvolta, nei quartieri più poveri delle nostre città, o quando si lavora con i giovani o con i malati psichici, la missione deve incominciare in modo anonimo. Il prete-operaio è semplicemente là, nella fabbrica. La nostra fede invece anela ad assumere una forma visibile, a essere vista. Quest’anno, Neil MacGregor, direttore della National Gallery di Londra, ha organizzato una mostra dal titolo "Vedere la salvezza". Durante la maggior parte della storia europea, la nostra fede è stata resa visibile attraverso vetrate, dipinti e sculture.

La celebrazione della nascita di Cristo cominciava tradizionalmente con l’Epifania, rivelazione della gloria di Dio tra di noi. Quando Simeone riceve tra le sue braccia il bambino Gesù nel tempio, gioisce, "perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli" (Lc 2,30s).
Come afferma Giovanni, noi annunciamo "ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato" (1Gv 1s). La missione spinge oltre la presenza, verso l’epifania.

Fin dai tempi della lotta iconoclasta del IX secolo, il cristianesimo ha cercato di mostrare il volto di Dio. Nell’Europa del Medioevo, la gente vedeva raramente dei ritratti, all’infuori di quello di Cristo e dei santi; nel mondo di oggi, invece, siamo bombardati di volti. Sui nostri muri abbiamo nuove icone: Madonna, la principessa Diana, Tiger Woods, le Spice Girls. Al giorno d’oggi essere importanti significa raggiungere lo "status di icona". Ovunque trionfano volti: politici, attori, calciatori, ricchi, persone famose solo per essere famose. Ci sorridono dai cartelloni pubblicitari nelle strade, o dagli schermi televisivi. Ma noi crediamo che tutta l’umanità aneli alla vista di un altro volto, il volto di Dio, visione beatificante. Come possiamo rendere manifesto quel volto?

Non basta aggiungere semplicemente il volto di Cristo alla folla dei volti. Potrebbe essere un bene se Walt Disney producesse una versione a cartoni animati del Vangelo, ma non sarebbe sufficiente. Mettere sullo schermo il volto di Gesù accanto a Topolino o a Paperino non significherebbe conseguire l’epifania. Molte Chiese protestanti in Gran Bretagna recano all’esterno delle insegne con scritte che riprendono parole del Vangelo e sembrano in competizione con gli annunci pubblicitari di cui le strade straboccano. Tutto ciò potrà anche essere degno di ammirazione, ma in me suscita sempre un certo imbarazzo. Mi ritornano in mente le risatine di noi bambini, quando ci trovavamo a passare davanti all’insegna di una Chiesa locale su cui campeggiava la domanda: "Vegliammo con le vergini sagge, o dormimmo con le vergini imprudenti?".

La sfida è questa: come rivelare la gloria di Dio, la bellezza di Dio? Come manifestare la bellezza di Dio in questo mondo saturo di immagini? Von Balthasar parla di "autoevidenza della bellezza", di una sua "intrinseca autorità".7 Riconosciamo nella bellezza un appello che è difficile ignorare. C.S. Lewis afferma che la bellezza risveglia in noi il desiderio "della nostra patria lontana",8 il focolare al quale abbiamo per tanto tempo aspirato e che non abbiamo mai visto. La bellezza svela il nostro fine ultimo, quello per il quale siamo stati creati, la nostra sapienza. In questo mondo in fuga, con il suo incerto futuro, il missionario è il portatore della sapienza, la sapienza del destino ultimo dell’umanità. È questo destino ultimo che si intravede nella bellezza del volto di Dio. Come possiamo manifestarlo oggi?

È più facile porre questa domanda che trovare per essa una risposta; spero che quelle che mi proporrete voi siano più stimolanti delle mie! Io credo che dobbiamo presentare immagini e volti di una qualità diversa da quella dei volti che vediamo nelle nostre strade. In primo luogo, la bellezza non si rivela nel volto di chi è ricco o famoso, ma piuttosto in quello di chi è povero e senza potere. In secondo luogo, le immagini del villaggio globale propongono divertimento e distrazione, mentre la bellezza di Dio si svela nella trasformazione.

Le immagini del villaggio globale mostrano la bellezza del potere e della ricchezza. È la bellezza della gioventù e della salute, che ha tutto per sé. È la bellezza della società del consumo. E non pensiate che io sia geloso di chi è giovane e sano, per quanta nostalgia possa provare per quella condizione: tuttavia, il Vangelo situa altrove la bellezza. Lo svelamento della gloria di Dio è la croce, un uomo che muore, un uomo abbandonato. È un’idea così scandalosa che sembra ci siano voluti quattrocento anni per rappresentarla. La prima rappresentazione di Cristo crocifisso è probabilmente quella che appare sulle porte di santa Sabina, dove vivo io, e che risale al 432, dopo la distruzione di Roma da parte dei barbari. L’irresistibile bellezza di Dio risplende attraverso la più totale povertà.

Può sembrare un’idea assurda, fin tanto che non si richiama alla mente uno dei santi più splendidi e affascinanti: san Francesco d’Assisi. Quest’estate ho fatto un breve pellegrinaggio ad Assisi. La basilica era piena di gente, attirata dalla bellezza della sua vita. Gli affreschi di Giotto sono bellissimi, ma la bellezza più profonda è quella del "poverello". La sua vita è segnata da un vuoto, una povertà, che può essere riempita solo da Dio. Il Card. Suhard ha scritto che essere missionario "non consiste nel dedicarsi a un’opera di propaganda, né nell’accendere la gente, ma nell’essere un mistero vivente. Significa vivere in modo tale che la vita non avrebbe più alcun senso se Dio non esistesse".9 Noi vediamo in Francesco la bellezza di Dio, perché la sua vita non avrebbe senso se Dio non esistesse.

Inoltre — ed è un dato altrettanto importante — Francesco ha scoperto una nuova immagine della povertà stessa di Dio (perché io stia facendo tutta questa pubblicità ai francescani, non lo so proprio!). Secondo Neil MacGregor, è stato Francesco a inventare il presepio, il segno di Dio che abbraccia la nostra povertà. Nel 1223 scrisse al signore di Greccio: "Vorrei rappresentare la nascita di Cristo esattamente come ha avuto luogo a Betlemme, così che la gente possa vedere con i suoi stessi occhi le prove che ha dovuto sostenere da bambino, come fu deposto in una mangiatoia, con accanto il bue e l’asino".10 Durante la Rinascenza del XIII secolo, con i suoi nuovi affreschi, i nuovi ed esotici beni di consumo, la nuova civiltà urbana, la sua mini- globalizzazione, Francesco rivela la bellezza di Dio con una nuova immagine della povertà.

Ecco la sfida che dobbiamo raccogliere nel villaggio globale: mostrare la bellezza del Dio povero e debole. È un compito particolarmente difficile, perché spesso la nostra missione si svolge proprio là dove la povertà è più drammatica: in Africa, in America Latina, in alcune regioni dell’Asia, dove la povertà è atroce in modo eclatante. I missionari costruiscono scuole, università, ospedali. Dirigiamo istituzioni solide e assolutamente indispensabili. Siamo considerati ricchi. D’altronde, in molti paesi il sistema sanitario e quello educativo affonderebbero se non fosse per la Chiesa. Come possiamo, in queste condizioni, manifestare la gloria di Dio, visibile nella povertà? Come offrire questi servizi insostituibili, e nel contempo continuare a condurre una vita che sia mistero, e che non avrebbe alcun senso senza Dio?

Accennerò ora rapidamente a un secondo modo di manifestare la bellezza di Dio, e cioè attraverso atti di trasformazione. Ho iniziato questa conferenza affermando che ciò che è veramente unico nella nostra società non è forse tanto il dato della globalizzazione, quanto piuttosto il fatto di non sapere in che direzione stia andando il mondo. Non abbiamo alcuna idea di quale genere di futuro ci stiamo creando. Persino il Polo Nord ha cominciato a fondere e a trasformarsi in una pozza d’acqua. E dopo? Questa incertezza provoca un’angoscia profonda. Quasi non osiamo neppure contemplare il domani, e in queste condizioni è più facile limitarsi a vivere per il presente. Questa è la cultura della gratificazione immediata. Per citare Kessler: "Oggi la stragrande maggioranza delle persone vive non tanto di grandi speranza e prospettive globali, ma di intenzioni a breve scadenza, di obiettivi a portata di mano. "Vivi la tua vita, ora" suona l’imperativo esistenziale della cultura secondaria globale, che va prendendo piede sempre più. Basta vivere la vita così, nel presente — senza obiettivi".11

Quando arrivo a Londra in aereo, vedo spesso la grande Ruota del millennio, l’orgogliosa celebrazione, da parte della città, dei duemila anni dalla nascita di Cristo. Ma la ruota non fa altro che girare e girare, sempre ammesso che tutto funzioni a dovere. Non va da nessuna parte. Ci offre la possibilità di essere spettatori, di osservare il mondo senza farci coinvolgere. Ci intrattiene, e ci consente di sfuggire per qualche attimo al ritmo frenetico della città. Essa simboleggia efficacemente il modo in cui spesso cerchiamo di sopravvivere in questo mondo in fuga. Siamo ben contenti di lasciarci distrarre, di evadere per un momento. Ed è proprio questo che ci è offerto da molte delle nostre immagini: una distrazione che ci consenta di dimenticare.12 I videogiochi, le soap operas, i film ci offrono una sorta di amnesia di fronte a un futuro ignoto. (Ciò detto, sto ancora aspettando che uno dei miei nipoti mi porti sulla Ruota del millennio!).

Questa tendenza all’evasione si esprime innanzitutto in un fenomeno tipico della fine del XX secolo, l’happening. Si utilizza anche il termine francese le happening. Quando la Francia ha festeggiato il nuovo millennio con un gigantesco pic-nic di mille chilometri, c’è stato un "happening incroyable"! Un happening può essere una discoteca, una partita di calcio, un concerto, un party, una serata, le Olimpiadi. Un happening è un momento di esuberanza, di estasi, che ci trasporta fuori dal nostro mondo opaco e rigido, così che possiamo dimenticare. Quando Disneyland ha costruito in Florida una nuova città, in cui la gente potesse cercare di sfuggire alle angosce dell’America moderna, l’ha chiamata Celebration.

Nondimeno, il cristianesimo trova il proprio centro in un "happening incroyable" la Risurrezione. È un genere di happening di una qualità affatto diversa. Non offre evasione, ma trasformazione. Non ci invita a dimenticare il domani, ma è il futuro stesso che irrompe nel presente. Di fronte a tutta la nostra angoscia in questo mondo in fuga, in cui non sappiamo dove stiamo andando, i cristiani non possono rispondere né con l’amnesia, né con ottimistiche previsioni sul futuro. Noi scopriamo i segni della risurrezione che irrompe con gesti di trasformazione e di liberazione. Le nostre celebrazioni non sono un’evasione, ma un’anticipazione del futuro. Quello che offrono non è oppio, come sosteneva Marx, bensì una promessa.

Cornelius Ernst, un domenicano inglese, ha descritto l’esperienza di Dio come "il momento genetico". Il momento genetico è trasformazione, novità, creatività, con cui Dio fa irruzione nella nostra vita. Queste le sue parole: «Ogni momento genetico è un mistero. È alba, scoperta, primavera, novella nascita, venire alla luce, risveglio, trascendenza, liberazione, estasi, promessa nuziale, dono, perdono, riconciliazione, rivoluzione, fede, speranza, amore. Si potrebbe affermare che il cristianesimo è la consacrazione del momento genetico, il nucleo vivente da cui rilegge le prospettive infinitamente varie e mutevoli dell’esperienza umana nella storia. Questo rivendica o dovrebbe rivendicare: il potere di trasformare e rinnovare tutte le cose: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose" (Ap 21,5)".13

Perciò, la sfida che si profila per la nostra missione è quella di scoprire come rendere visibile Dio attraverso gesti di libertà, di liberazione, di trasformazione, piccoli happenings che siano segni della fine. Abbiamo bisogno di piccole irruzioni dell’irriducibile libertà di Dio, e della sua vittoria sulla morte. È abbastanza curioso che mi sia risultato più facile pensare a immagini profane decisamente evidenti che non a immagini religiose: l’esile sagoma di fronte al carro armato in piazza Tienanmen, la caduta del Muro di Berlino.

Quali potrebbero essere le immagini esplicitamente religiose? Forse una comunità di monache domenicane nel nord del Burundi, Tutsi e Hutu che vivono e pregano insieme, in pace, in una terra in cui regna la morte. Il loro piccolo monastero, circondato dal verde dei campi coltivati, in una terra bruciata e devastata, è un segno di Dio, il quale non lascia che la morte abbia l’ultima parola. Un altro esempio potrebbe essere una comunità ecumenica che ho avuto occasione di visitare a Belfast, nell’Irlanda del Nord. Cattolici e protestanti vivevano insieme, e quando qualcuno veniva ucciso durante gli scontri tra le due fazioni, un membro cattolico e un membro protestante della comunità si recavano insieme a fare visita ai parenti della vittima, e a pregare insieme a loro. Questa comunità era un’incarnazione della nostra sapienza, un segno di come non siamo condannati inesorabilmente alla violenza, una piccola epifania del Regno. Non sappiamo se la pace sia a portata di mano, o se invece la violenza sia destinata a inasprirsi, ma certo qui si era di fronte a una parola fattasi carne, una parola che parlava del disegno ultimo di Dio.



Notes:

7 Cf. A. Nichols, o.p., The Word Has Been Abroad: a guide through Balthasar’s aesthetics, Edinburgh, 1998, p. 1.
8 La citazione è tratta da R. Harries, Art and the Beauty of God: A Christian Understanding, London, 1993, p. 4.
9 La citazione è tratta da S. Hauerwas, Sanctify Them in the Truth, Edinburgh, 1998, p. 38.
10 N. MacGregor, Seeing Salvation, London, 2000, p. 49.
11 H. Kessler, "Appagamento — sperimentato al momento e tuttavia dolorosamente non trovato?", in Concilium 35,(1999), 4, 143.
12 Cf. A. Moreira, "La memoria pericolosa di Gesù Cristo in una società post-tradizionale", e F.D. Dagmang, "Gratificazione istantanea e liberazione", entrambi in Concilium 35,(1999), 4.
13 C. Ernst op, The Theology of Grace, Dublin 1974, 74ss.

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