Sacerdote, chi sei?

Category: Missione Oggi
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Offriamo a tutti i Confratelli una sintesi degli Esercizi Spirituali, predicati al Santo Padre e alla Curia romana, dal 10 al 16 febbraio 2008 , dal cardinale Albert Vanhoye, già segretario della Pontificia Commissione Biblica, sul tema: “Accogliamo Cristo nostro Sommo Sacerdote”, ispirato alla Lettera agli Ebrei.


La gloria di Cristo sta nell’aver amato sino alla fine, ristabilendo la comunione tra l'uomo e il Dio


Il porporato ha tenuto due meditazioni sui temi “Dio ci ha parlato nel suo Figlio” e “Cristo è Figlio di Dio e fratello nostro”.

Il Dio della Bibbia non è un Dio muto. E’ un Dio che parla agli uomini per entrare in comunicazione, in comunione con loro. Il nostro Dio, ha proseguito, vuole stabilire e approfondire dei rapporti personali con noi. Una volontà di comunicazione che risulta in modo eloquente quando il Signore parla a Mosè nel roveto ardente:


“E’ molto interessante vedere in che modo Dio si autodefinisce. Dice a Mosè: ‘Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe’. Dio non si autodefinisce con la sua onnipotenza, né con la sua onniscienza, ma si definisce con relazioni personali con alcuni uomini privi di importanza”.

Dio, ha sottolineato il porporato, avrebbe avuto tanti motivi per non parlare più al suo popolo, che gli era stato infedele, ma invece cerca questa relazione. Anche Gesù, ha aggiunto, quando parla alla Samaritana compie un gesto straordinario, vista l’inimicizia tra giudei e samaritani. Lo fa, perché questa è la volontà di Dio, una volontà di comunicazione. L’autore della Lettera agli Ebrei, ha detto il cardinale Vanhoye, ci mostra due periodi nella comunicazione della Parola di Dio e due specie di mediatori. Nel primo, Dio ha parlato per mezzo dei profeti, mentre nel secondo periodo, quello escatologico, c’è l’intervento decisivo di Dio per mezzo del Suo Figlio, il mediatore perfetto. Nelle meditazioni di questa mattina, dunque, il cardinale Vanhoye si è soffermato sui due aspetti del nome di Cristo, presentati dalla Lettera agli Ebrei. Egli è Figlio di Dio, ma anche nostro Fratello, perché prende la forma umile della esistenza umana. Dunque, Gesù si rende solidale con noi:

“Noi abbiamo più che un avvocato, ma un fratello che intercede presso Dio; un fratello che ha promesso di annunciarci, dopo la sua glorificazione, il nome del Padre e che adesso lo annuncia. Un fratello che non si dimentica di noi nella sua gloria, perché la sua gloria è proprio il frutto stesso della sua solidarietà con noi”.

Il Figlio, ha ribadito, viene definito per mezzo della sua relazione con il Padre. E’ dunque ben superiore agli angeli che pure sono mediatori tra noi e Dio. Il cardinale Vanhoye ha quindi rivolto il pensiero alla tappa decisiva della Salvezza, il mistero pasquale:

“La gloria di Cristo non è la gloria di un essere ambizioso o soddisfatto delle proprie imprese, né la gloria di un guerriero che abbia sconfitto i nemici con la forza delle armi, ma è la gloria dell’amore, la gloria dell’aver amato sino alla fine, di aver ristabilito la comunione tra noi peccatori e suo Padre”.

Cristo, dunque, è con il Padre, Signore del cielo e della terra. Cristo glorificato, ha detto il porporato, ha il potere di porre fine alla vecchia creazione, perché ha inaugurato la nuova creazione per mezzo della Sua Risurrezione.


Nel sacerdozio si devono unire autorevolezza e misericordia, autorità e comprensione

Le due meditazioni di questa mattina sono state: “Cristo sommo sacerdote degno di fede” e “Cristo sommo sacerdote misericordioso”.

Nella prima meditazione, “Cristo sommo sacerdote degno di fede”, il cardinale Vanhoye sottolinea che Gesù si è reso in tutto simile ai fratelli per diventare sommo sacerdote misericordioso e degno di fede. Sono queste - fa notare il porporato - due qualità indispensabili per esercitare la mediazione sacerdotale ed il ministero pastorale:

“Queste due qualità devono essere presenti necessariamente insieme per fare un sacerdote. Un uomo, pieno di compassione per i fratelli ma non accreditato presso Dio, non potrebbe esercitare la mediazione sacerdotale, stabilire l’alleanza. Nel caso inverso, un essere accreditato presso Dio, ma a cui mancasse il legame di solidarietà con noi, non potrebbe essere il nostro sacerdote”.

Se si ha fede nella Parola di Dio - spiega quindi il porporato - si procede con coraggio sapendo di essere sempre aiutati dal Signore perché tutto è possibile per chi crede.

Nella seconda meditazione, sul tema “Cristo sommo sacerdote misericordioso”, il cardinale Vanhoye illustra la qualità della misericordia, sentimento in Cristo profondamente permeato di umanità. In Gesù - aggiunge - è compassione acquisita con la partecipazione alla sorte dei propri simili:

“Non si tratta quindi, semplicemente, del sentimento superficiale di chi si commuove facilmente. Si tratta di una capacità acquisita attraverso l’esperienza personale della sofferenza. Bisogna essere passati attraverso le stesse prove, le stesse sofferenze di coloro che si vogliono aiutare. Cristo sa compatire perché è stato provato in tutto come noi”.

Nella meditazione di ieri pomeriggio, “Come Cristo è divenuto sommo sacerdote”, il porporato ha sottolineato come la lettera agli ebrei proclami che Cristo è il vero, unico sommo sacerdote. L’insegnamento di Gesù - ha aggiunto il porporato - ci indica un modello profondamente diverso, in contrasto con quello del sacerdozio antico. Tra due modi possibili di servire Dio, uno con sacrifici rituali, l’altro nelle relazioni umane, Gesù infatti ha scelto quest’ultimo, sapendo che Dio preferisce la misericordia:

“L’atteggiamento generoso di Gesù mediatore è stato di accogliere pienamente la solidarietà umana. La sofferenza esisteva. La morte, il peccato esistevano. Gesù è sceso in questa miseria umana offrendo il proprio amore. Ha fatto della sofferenza, della morte un’occasione di amore estremo. E così è divenuto sommo sacerdote perché ha tracciato una via della nuova alleanza, la via della comunione con Dio ritrovata per noi peccatori”.

Il cardinale Albert Vanhoye ha indicato, infine, la via per interpretare correttamente la nostra partecipazione al sacerdozio di Gesù. Dobbiamo diventare - ha affermato - profondamente solidali con i nostri fratelli e prendere su di noi le gioie, le speranze, le aspirazioni degli altri per manifestare loro l’amore di Dio e portarli nella comunione divina.


La Nuova Alleanza fondata nel sangue di Gesù ci rinnova e ci mette in relazione intima con Dio

Nelle due meditazioni di stamani, il cardinale Albert Vanhoye si è soffermato sul modo in cui la Lettera agli Ebrei presenta la promessa della Nuova Alleanza e sulla pagina evangelica delle nozze di Cana.

La Lettera agli Ebrei, ha sottolineato il cardinale Vanhoye, stabilisce una stretta connessione tra il sacerdozio di Cristo e la Nuova Alleanza, di cui Gesù è mediatore. Il testo, ha proseguito, presenta una lunga citazione dell’oracolo di Geremia, annuncio della Nuova Alleanza. Ripetutamente, è stata la riflessione del porporato, il popolo di Israele è stato infedele nei confronti di Dio. Eppure, Dio manda Geremia ad annunciare un’Alleanza davvero Nuova, diversa da quella fatta con i Padri. Dio vuole compiere un cambiamento radicale. Un’Alleanza che si fonda su quattro elementi:

"Primo aspetto, la Nuova Alleanza sarà interiore e non esteriore. Secondo aspetto, sarà una relazione di perfetta appartenenza reciproca tra Dio e il popolo. Terzo aspetto, non sarà un’istituzione collettiva, ma sarà una relazione personale di ciascuno con Dio. Quarto aspetto, questa relazione sarà fondata sul completo perdono dei peccati".

La Nuova Alleanza porta, dunque, ad una trasformazione del cuore. Sul Sinai, ha affermato il cardinale Vanhoye, Dio aveva scritto le sue leggi su tavole di pietre - leggi esterne da osservare - ma che non cambiavano il cuore delle persone. Era indispensabile una trasformazione interiore e Dio la promette. Una volta cambiato il cuore, ha aggiunto, si instaura una perfetta relazione reciproca tra Dio e il popolo. Non solo, la Nuova Alleanza, annuncia Geremia, non sarà collettiva ma consisterà in una relazione personale, intima, che renderà inutili gli ammonimenti. Nell’Antico Testamento, ha sottolineato il cardinale Vanhoye, era sempre necessario l’ammonimento, la minaccia dei profeti. Eppure, questi interventi non bastano a convertire il popolo di Israele. La Nuova Alleanza si presenta invece come una situazione diversa, senza più bisogno di ammonimenti. L’oracolo, ha detto il cardinale Vanhoye apre prospettive meravigliose, ma non spiega come questa straordinaria promessa di Dio potrà realizzarsi:

"Ce lo rivela invece Gesù nell’Ultima cena, quando istituisce l’Eucaristia. Gesù prende il calice e dice: 'Questo è il mio sangue dell’alleanza'. La Nuova Alleanza doveva essere fondata nel sangue: un sangue versato per molti in remissione dei peccati, secondo la promessa della Nuova Alleanza".

La Nuova Alleanza viene perciò fondata sul sangue di Gesù. Per questo, è stato il richiamo del cardinale Vanhoye, dobbiamo prendere coscienza di questa Alleanza che ci rinnova completamente e ci mette in relazione profonda con Dio per mezzo di Cristo.

La seconda meditazione, il porporato l’ha dedicata alle nozze di Cana, che, ha affermato, si celebrano proprio per stabilire un’alleanza. Il porporato ha ricordato che l’Alleanza tra Dio e il suo popolo è presentata nell’Antico Testamento proprio come delle nozze. L’idolatria al contrario è presentata come un’infedeltà, un adulterio del popolo di Israele, come nell’episodio del vitello d’oro. Tuttavia, anche nei momenti più tragici, il Signore non rinuncia al suo progetto di unione nell’amore e promette una nuova alleanza. A Cana, dunque, viene compiuto il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino. Gesù dà inizio ai suoi segni miracolosi e manifesta la sua gloria. Ma qual è la gloria di Gesù, si chiede il cardinale Vanhoye? E’ proprio la gloria dello sposo. E’ la gloria dell’amore generoso che dona il vino buono per compiere le nozze. Nella pagina evangelica, ha detto ancora, siamo colpiti dalla figura di Maria. La Madre aveva parlato al Figlio delle difficoltà dello sposo per la mancanza di vino. Gesù risponde in un modo che manifesta l’evoluzione nei rapporti con la Madre:

"Un commento patristico spiega che adesso non è più l’ora di Maria, cioè il tempo in cui la Madre deve guidare il Figlio nella vita, è l’ora di Gesù, l’ora in cui Gesù deve prendere l’iniziativa e realizzare il piano di Dio. Gesù non deve più obbedire a Maria, deve prendere in mano la propria missione di Messia".

Maria, ha sottolineato il predicatore, diventa così doppiamente madre di Gesù, insegnandoci la vera docilità a Lui. Questo Vangelo ci mette di fronte alla scelta di due atteggiamenti spirituali opposti: quello di docilità di Maria e quello di chi non vuole accettare nessun cambiamento di relazione, proposto da Gesù. Il cardinale Vanhoye ha concluso la meditazione con l’invito di San Paolo, nella Lettera ai Romani, a trasformarci rinnovando la nostra mente.


Il sacrificio di Cristo

Il sacrificio di Cristo ed il ruolo dello Spirito Santo nel Mistero pasquale: sono stati i temi delle meditazioni proposte stamane dal cardinale Albert Vanhoye.

“Il sacrificio di Cristo”, meditato attraverso la Lettera agli Ebrei. Se nel linguaggio corrente la parola sacrificio - ha premesso il cardinale Vanhoye - assume una valenza piuttosto negativa, nel senso religioso ha invece un significato molto positivo:

“Sacrificare, infatti, non significa privare, significa rendere sacro, come santificare significa rendere santo, semplificare rendere semplice. Quindi, il sacrificio è un atto molto positivo e fecondo che valorizza immensamente un’offerta”.

Il sacrificio di Cristo comprende infatti l’intero Mistero pasquale, ovvero la morte e la glorificazione:

“Senza la glorificazione sarebbe incompleto, non avrebbe fondato la Nuova Alleanza perché Cristo non avrebbe raggiunto Dio e non avrebbe attuato il collegamento tra la nostra miseria e la santità di Dio”.

Ha ricordato quindi il porporato come nell’Antico Testamento, lo scopo del sacrificio fosse di cambiare la disposizione di Dio, di ottenere i suoi favori, in cambio dei doni offerti. Diversamente avviene nel sacrificio cristiano, come spiega la Lettera agli Ebrei:

“L’autore, invece, dice che lo scopo del sacrificio è cambiare la disposizione dell’uomo, non le disposizioni di Dio. Il suo scopo è quello di rendere perfetto nella coscienza l’offerente, di dare un cuore purificato e docile a Dio”.

Un’aspirazione religiosa non basta però per cambiare la coscienza di un peccatore:

“Ci vuole una mediazione efficace. Il peccatore deve essere aiutato da un mediatore che non sia lui stesso un peccatore e che gli apra la via del contatto, della comunione con Dio, questo è il problema dell’Alleanza”.

Nella seconda meditazione il cardinale Vanhoye, ha poi approfondito il ruolo de “Lo Spirito Santo nell’oblazione di Cristo”, che apre la via verso Dio:

“Gesù invece è stato vittima degna e sacerdote capace. Vittima degna perché aveva una perfetta integrità morale e religiosa, era senza macchia, come disse l’autore, era santo, innocente, l’immacolato. E’ stato sacerdote capace in quanto era pieno della forza dello Spirito Santo”.

Di “Cristo mediatore della Nuova Alleanza nell’Ultima Cena” ha invece parlato il cardinale Vanhoye nella meditazione di ieri pomeriggio. Gesù sa già che sarà tradito, rinnegato, ucciso, anticipa questi eventi di morte e li trasforma in una vittoria dell’amore:

“Quando celebriamo l’Eucaristia e ci comunichiamo, riceviamo in noi questo intenso dinamismo di amore, capace di trasformare tutti gli eventi in occasione di vittoria dell’amore”.


Con la sua morte, Cristo ha portato Dio ad abitare nel cuore dell'uomo

Nell’Antica Alleanza era impossibile una piena comunicazione tra l'uomo e Dio, avvertito come una potenza inavvicinabile. Cristo, morendo per l’umanità, le ha permesso di accostarsi alla casa del Padre. Da allora e fino ad oggi la strada per entrarvi è data dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Sono le considerazioni centrali con le quali il cardinale gesuita, Albert Vanhoye, ha terminato la lettura meditata della Lettera agli Ebrei.

I cristiani vivono da sempre una condizione di privilegio, rispetto al rapporto dell’antico popolo ebreo con Dio. La condizione è quella di aver scoperto la vicinanza, la paternità di Dio e non - come nell’Antico Testamento - la sua distante e innominabile potestà. Il cardinale Vanhoye ha spiegato che gli ultimi capitoli, dal decimo in poi, della Lettera agli Ebrei contengono il cuore di questo assunto. Come cristiani, ha spiegato, possediamo un diritto d’ingresso nel santuario celeste - e non tanto una “fiducia” come asseriscono alcune traduzioni: un diritto a far parte della famiglia divina, fondato sul sangue versato da Gesù. Ed è questa suprema offerta sacrificale, ha spiegato il predicatore degli esercizi, a segnare la profonda novità rispetto agli ebrei dell’Antica Alleanza, che con la loro rigida ritualità frapponevano invece innumerevoli gradi di separazione tra l’uomo e Dio:

“Nell’antica Alleanza, c’era la separazione tra il popolo e i sacerdoti. Il popolo non era mai autorizzato a entrare nell’edificio del Tempio. Poteva soltanto stare nei cortili. I sacerdoti avevano il diritto di penetrare nell’edificio. C’era però separazione anche tra semplici sacerdoti e sommo sacerdote. I primi non potevano entrare nella parte più santa, ma solo nella parte santa dell’edificio. C’era anche la separazione tra sacerdote e vittima. Il sacerdote non poteva offrire se stesso, non era degno, non era capace. Doveva quindi offrire come vittima un animale, ma un animale non è in grado di santificare il sacerdote. C’era infine la separazione tra vittima e Dio. Un animale non può entrare in comunione con Dio. Ora, invece, per mezzo dell’offerta di Cristo, tutti i credenti hanno il diritto di entrare nel santuario e non si tratta più del santuario non autentico, fabbricato dalle mani dell’uomo, ma del Santuario vero, cioè si tratta di entrare nell’intimità di Dio”.

L'autore della Lettera agli Ebrei dunque, afferma l’esistenza non più della distanza ma della confidenza tra l’uomo e Dio, guadagnata dalla morte redentrice di Gesù, dalla sua umanità glorificata. Invita ad “accostarsi” con cuore puro a Dio, a fare cioè quello che prima era inconcepibile e vietato. L’Alleanza quindi è “nuova” perché ciò che la morte di Cristo ha prodotto, prima non esisteva. Rispetto all’antico israelita, ricercare la volontà di Dio per il cristiano non vuol dire più conformarsi a un codice fisso, ma ricercare una creazione continua. Soprattutto chi ha responsabilità pastorali, ha riflettuto il cardinale Vanhoye, deve essere consapevole di ciò. Ed essendo la novità cristiana una sorgente inesauribile, essa - ha ribadito - va sempre annunciata facendo attenzione a imperniarla sui tre cardini della fede, della speranza e della carità, piuttosto – come accade - su discorsi di tipo moraleggiante:

“Talvolta i predicatori cristiani fanno troppe esortazioni morali e non abbastanza esortazioni teologali, che sono più importanti. L’autore nomina le tre virtù teologali: la fede, la speranza, la carità. Avrebbe potuto nominare le virtù morali o cardinali, ma non lo ha fatto, perché queste virtù non hanno un rapporto diretto con la Nuova Alleanza. Gli ebrei erano preoccupati soprattutto di osservare bene tutte le tradizioni e i comandamenti. Invece, il Nuovo Testamento non insiste tanto sulla legge da osservare, ma esorta ad avere fede, speranza e carità”.

Con la seconda meditazione, il predicatore gesuita ha concluso la riflessione sulla Lettera agli Ebrei trattandone la solenne chiusura, incentrata sulla Risurrezione e sull’Alleanza eterna. Il cardinale Vanhoye ha ripercorso i livelli successivi di approfondimento della dottrina cristiana, passati dalla iniziale comprensione della Resurrezione di Gesù come semplice restituzione della vita di Dio al Figlio alla Resurrezione come frutto dell’intervento dello Spirito Santo, il soffio vitale di Dio. E qui il predicatore degli esercizi si è soffermato sul legame, messo in luce dalla Lettera, tra lo spirito vitale e il sangue, quest’ultimo già considerato sacro dagli antichi - e dalla Bibbia - perché portatore del soffio della vita. Un’intuizione corretta, confermata dalla scienza quando si è scoperto che è il sangue a ossigenare il corpo, a portare cioè il “soffio” del respiro umano alle cellule. E dunque, ha paragonato il cardinale Vanhoye:

“Come noi aspiriamo l’aria dell’atmosfera per ossigenare il nostro sangue e renderlo capace di vivificare tutto il nostro corpo, così Cristo nella sua Passione per mezzo di una preghiera intensa ha aspirato lo Spirito Santo. Per vincere la paura della morte, Egli ha pregato, ha supplicato e ha ricevuto lo Spirito Santo, il quale è entrato in Lui e lo ha spinto ad offrire la propria vita in un dono di amore. Possiamo dire che nella Passione, il sangue di Cristo si è imbevuto di Spirito Santo, acquistando la capacità di comunicare una vita nuova e di fondare la Nuova Alleanza”.

Riflettendo su questo nuovo rapporto stipulato tra Dio e l’uomo attraverso Cristo, l'autore della Lettera ha anch’egli una intuizione che, secondo il cardinale Vanhoye, esprime una verità del cristianesimo da un angolo di profondità mai affermato fino a quel momento. L'autore non augura solo ai cristiani di fare la volontà di Dio, ma che Dio stesso operi in loro ciò che a Lui è gradito:

“Così viene indicato, mi pare, l’elemento più profondo della Nuova Alleanza. Il fatto che riceviamo in noi l’azione stessa di Dio. Nell’Antica Alleanza, Dio prescriveva ciò che si doveva fare, lo prescriveva attraverso una legge esterna. Questo tipo di Alleanza non ha funzionato, perché l’uomo non è capace con le sole sue forze di compiere la volontà di Dio. Perciò il Signore ha voluto istituire una Nuova Alleanza: ha promesso di scrivere la sua legge nel cuore dell’uomo, di dargli un cuore nuovo e di dare il suo spirito (...) Pertanto, la nuova alleanza non consiste soltanto nel ricevere le leggi di Dio all’interno del nostro cuore, ma nel ricevere l’azione di Dio stesso in noi”.

Anche nel Vangelo di San Giovanni, ha rammentato il cardinale Vanhoye, Cristo parla delle sue opere come un dono del Padre. Lo stesso vale per i cristiani, che anzi sono accompagnati sin dalla fondazione della Chiesa dalla certezza, espressa da Gesù, di poter compiere opere anche più grandi di lui: o meglio compiute da Cristo stesso attraverso la loro intelligenza, generosità e dedizione.


Il cuore di Gesù e il cuore dei sacerdoti: docilità verso Dio e misericordia verso gli uomini

Sulla stretta relazione tra il cuore di Gesù e il ministero dei sacerdoti il porporato gesuita aveva imperniato l’ultima meditazione di stamattina. Nell’Antico Testamento, ha sottolineato con chiarezza, il sacerdozio non ha alcun rapporto con il cuore. Si tratta di una constatazione triste ma vera, ha osservato: in quei testi millenari si parla spesso del cuore del re - talvolta con poesia e retorica - ma mai del cuore di chi amministra il culto:

“Il culto antico non ha nessun rapporto con il cuore. Il culto è definito dalla legge, si attua con riti convenzionali, esterni. Il sacerdote deve compiere i riti, e basta. Gesù ha sostituito questo rito esterno, convenzionale con un culto personale, esistenziale, che parte dal suo cuore”.

Il cardinale Vanhoye ha passato in rassegna alcuni passi della Bibbia, nei quali alcuni profeti già anticipavano la necessità di un cuore rinnovato, capace di entrare in dialogo con Dio. Il modello arriva con il Nuovo Testamento: è il cuore perfetto di Gesù - un cuore in piena comunione col Padre - che tuttavia l’Incarnazione e la Passione trasformano profondamente per un suo atto di suprema generosità. Gesù assume un cuore di carne per rinnovare i cuori di ogni persona passando, ha affermato il porporato, attraverso un momento - quello della Passione - quanto mai contrario all’amore, perché dominato dalla crudeltà e dalle torture. E’ qui che Cristo diventa sacerdote perfetto e il suo cuore, nella Chiesa di tutti i tempi, continua a manifestarsi attraverso la mediazione dei ministri, chiamati ad avere le medesime qualità del loro capo: un cuore umile verso Dio, un cuore mite verso il prossimo:

“Per essere sacramento di Cristo sacerdote, il vescovo, il presbitero deve essere unito al cuore di Cristo nelle sue due disposizioni fondamentali: la docilità verso Dio, la misericordia verso gli uomini. Deve avere un cuore filiale verso Dio Padre ed un cuore fraterno verso le persone umane”.

Gesù, ha proseguito il predicatore degli esercizi, associa gli apostoli, e quindi i vescovi e i sacerdoti, al suo sacerdozio. Di più, con l’Ultima Cena mette letteralmente il proprio corpo, il proprio cuore, nelle mani dei presbiteri perché lo distribuiscano agli altri. In fondo, ha concluso il cardinale Vanhoye, la vita cristiana consiste nel ricevere e nell’avere nel proprio il cuore di Gesù.


Nell'umiltà e nel servizio si realizza il nuovo sacerdozio di Gesù

Parole conclusive di Benedetto XVI

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Cari fratelli,
alla fine di questi giorni di Esercizi spirituali vorrei dire di tutto cuore grazie a Lei, Eminenza, per la Sua guida spirituale offerta con tanta competenza teologica e con tanta profondità spirituale. Dal mio angolo di visuale ho sempre avuto davanti agli occhi l'immagine di Gesù in ginocchio davanti a San Pietro per lavargli i piedi. Attraverso le Sue meditazioni questa immagine ha parlato a me. Ho visto che proprio qui, in questo comportamento, in questo atto di estrema umiltà si realizza il nuovo sacerdozio di Gesù. E si realizza proprio nell'atto della solidarietà con noi, con le nostre debolezze, la nostra sofferenza, le nostre prove, fino alla morte. Così ho visto con occhi nuovi anche le vesti rosse di Gesù, che ci parlano del suo sangue. Lei, Signor Cardinale, ci ha insegnato come il sangue di Gesù era, a causa della sua preghiera, "ossigenato" dallo Spirito Santo. E così è divenuto forza di risurrezione e fonte di vita per noi.

{mosimage}Ma non potevo non meditare anche la figura di San Pietro con il dito alla fronte. È il momento nel quale egli prega il Signore di lavargli non solo i piedi ma anche la testa e le mani. Mi sembra che esprima - al di là di quel momento - la difficoltà di San Pietro e di tutti i discepoli del Signore di capire la sorprendente novità del sacerdozio di Gesù, di questo sacerdozio che è proprio abbassamento, solidarietà con noi, e così ci apre l'accesso al vero santuario, il corpo risorto di Gesù.

In tutto il tempo del suo discepolato e, mi sembra, fino alla sua propria crocifissione, San Pietro ha dovuto ascoltare sempre di nuovo Gesù, per entrare più in profondità nel mistero del suo sacerdozio, del sacerdozio di Cristo comunicato agli apostoli e ai loro successori.

In questo senso, la figura di Pietro mi pare come la figura di noi tutti in questi giorni. Lei, Eminenza, ci ha aiutato ad ascoltare la voce del Signore, ad imparare così di nuovo che cosa è il suo e il nostro sacerdozio. Ci ha aiutato ad entrare nella partecipazione al sacerdozio di Cristo e così anche a ricevere il nuovo cuore, il cuore di Gesù, come centro del mistero della nuova Alleanza.

Grazie per tutto questo, Eminenza. Le Sue parole e le Sue meditazioni ci accompagneranno in questo tempo di Quaresima nel nostro cammino verso la Pasqua del Signore. In questo senso auguro a tutti voi, cari fratelli, una buona Quaresima, feconda spiritualmente, perché possiamo realmente arrivare nella Pasqua ad una sempre più profonda partecipazione al sacerdozio del nostro Signore.

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