Teologia della missione: prospettive attuali (2004)

Category: Missione Oggi
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L’anno prossimo celebreremo i quarant’anni della fine del Vaticano II (1965-2005), il primo dei concili ecumenici che si è impegnato a definire la missione della chiesa, anche se in un testo periferico rispetto alle grandi costituzioni conciliari. Infatti, la Lumen gentium, universalmente considerata il cuore teologico del magistero conciliare, nella sua pretesa di fare una sintesi di tutta l’ecclesiologia, non ha incluso tra i suoi capitoli la missione. E’ vero che il cap. II, al n. 17, riflette sul «carattere missionario della chiesa», ma siamo ormai a livello di conclusione del capitolo sul «popolo di Dio». Quindi LG 17 può essere, sì, ritenuto la pista di lancio della missione a livello di magistero conciliare, ma ancora senza un piano di volo preciso. All’oblio della missione da parte del testo fondamentale del concilio suppliscono però alcuni eloquenti riferimenti della Gaudium et spes e soprattutto l’AG. Insomma, nonostante la deficienza missionaria della LG, è importante rilevare che per la prima volta un concilio ecumenico si è impegnato a definire la missione, anche se in un testo apparentemente debole, come il decreto AG.

Poiché il tema a me affidato tocca le prospettive attuali della teologia della missione, darò per scontata la novità teologica del Vaticano II, concentrando maggiormente la mia attenzione sugli sviluppi della teologia della missione negli anni del postconcilio, nel suo intreccio costante con le dichiarazioni del magistero universale della chiesa. Vedremo anche in che direzione la teologia della missione sta muovendo i suoi primi passi all’inizio del terzo millennio. Per capire meglio il mutamento di paradigma avvenuto nel concilio e nel postconcilio indicherò alcuni limiti della teologia della missione preconciliare.

1. Facendo il punto della situazione prima del Vaticano II: tra ideologia coloniale e rivendicazione teologica

            C’è da dire subito che i cattolici sono arrivati in ritardo, rispetto ai protestanti, nella formulazione del discorso sulla missione. E anche quando hanno cominciato a sviluppare una riflessione più sistematica, sono stati decisamente influenzati dal pensiero protestante, soprattutto di G. Warneck. Se ne possono vedere le tracce nella scuola di Münster e nella prima opera del suo fondatore, J. Schmidlin, Einführung in die Missions Wissenschaft, del 1917. Prima di allora parlare di missione in campo cattolico voleva dire esplorare un recinto sacro, destinato ad alcuni privilegiati, soprattutto missionari, non sempre teologicamente provvisti. La scuola di Münster e quella di Lovanio hanno avuto il merito di togliere il discorso della missione da quest’apartheid, quasi fosse una dépendance esterna alla chiesa, rendendolo più fruibile teologicamente (ecclesiologicamente). In seguito, la scuola di Parigi ebbe il merito di estendere il discorso della missione a tutta la chiesa (cf. France, pays de mission? e la messa «in stato di missione» di tutta la chiesa in Francia).

Nonostante il dibattito teologico favorito dalle scuole di Münster e di Lovanio e la crisi del mito geografico della missione provocata dalla scuola di Parigi, la Commissione preparatoria per le missioni (del concilio Vaticano II) sembra ignorare le questioni teologiche, privilegiando l’aspetto giuridico della missione.[1] Nella Commissione centrale preparatoria (del concilio Vaticano II), l’allora prefetto della Congregazione De Propaganda Fide, il card. Agagianian, ebbe a dichiarare che l’evangelizzazione non poneva alcuno speciale problema dottrinale da quando i papi recenti avevano chiarito la base e gli scopi dell’azione missionaria.[2] S’ignorava così quasi mezzo secolo di dibattito teologico sulla questione (soteriologica) della salvezza dei non cristiani, sulla questione (ecclesiologica) della plantatio ecclesiæ, nonché sulla sfida più radicale di allargare il concetto di missione alle zone scristianizzate dei paesi storicamente cristiani.         

            Il concilio non obbedirà a quest’inquadramento giuridico della missione proposto dalla Commissione preparatoria e ne recupererà l’istanza teologica (ecclesiologica), anche se nessuna delle due scuole più in vista vincerà la partita conciliare. La scuola di Lovanio apparirà ad un certo punto avvantaggiata rispetto a quella di Münster, perché più vicina alla sensibilità giuridica della chiesa cattolica, ma la tesi della plantatio ecclesiae soffrirà non poche critiche a causa del sospetto di colonialismo: bisognava piantare, sì, la chiesa, ma a partire dalla coscienza dell’interlocutore, egli stesso uditore della Parola e protagonista della missione. Le due scuole saranno costantemente evocate, anche se non esplicitamente, dal concilio, che riuscirà a coglierne le proposte più genuine e a superarne i limiti. La scuola di Parigi sarà evocata implicitamente soprattutto nella costituzione pastorale GS, là dove si parla del più generale impegno della chiesa in tutti gli aspetti della storia umana.

Concludiamo questa breve panoramica preconciliare, elencando alcuni limiti teologici delle scuole missiologiche, soprattutto di Münster e di Lovanio, le cui tesi sono più direttamente evocate da AG. I limiti riguardano soprattutto l’insufficienza del concetto di plantatio ecclesiae, interpretato dagli uni – gli esperti di Propagande Fide – più giuridicamente, dagli altri – i teologi periti conciliari, come il francese Y. Congar[3] – più teologicamente.

 

1.1 A proposito di “universalità” della chiesa

            Le scuole di Münster e di Lovanio, per quanto animate da buone intenzioni teologiche, sono debitrici di un’ecclesiologia che concepisce la chiesa ancora in termini di confini etnici e culturali, come societas perfecta, misurabile e quantificabile, secondo le espressioni della sua presenza storica in Occidente. Sicché quando si parla d’universalità della chiesa, normalmente s’intende l’assimilazione di nuovi membri in una chiesa già bell’e fatta, oppure una proiezione della cristianità occidentale nei paesi non cristiani, piuttosto che la genesi misterico-sacramentale di nuove comunità cristiane che, nel proprio ambiente culturale, diventano segni viventi della salvezza che si realizza in maniera diversa in ogni singola chiesa locale. In questa concezione “universalistica” della chiesa, che sa ancora d’espansione della cristianità occidentale, l’opera missionaria è concepita monocentricamente, come responsabilità esclusiva del papa, quale unico rappresentante della sua globalità (l’idea della chiesa locale è ancora secondaria), attraverso la curia romana e gli istituti missionari. In altre parole, essendo la chiesa concepita come un tutto unito geograficamente, l’unico che potrebbe allargarne i confini è appunto il papa, nella sua qualità di responsabile supremo di tutta la vita cristiana.

 

1.2 La missione come espansione della chiesa europea

            In una chiesa che si concepisce universale nei termini succitati, cioè come un’unità storico-geografica, è giocoforza che la missione venga intesa come dilatazione dei confini storici e geografici della chiesa europea. Si ripresenta, dunque, ancora lo specchio colonialistico e imperialistico della missione, nonostante la preoccupazione per l’abito occidentale della chiesa, che ormai tutti i missionari sentono l’urgenza di smettere, in nome dell’adattamento, soprattutto a contatto con le più che millenarie civiltà dell’Asia.

 

1.3 L’ecclesiologia dell’identità (tra chiesa e regno di Dio)    

            Si tratta di una tendenza dell’ecclesiologia, propria anche della scuola di Lovanio, che definisce la missione come plantatio ecclesiae, dove per chiesa s’intende facilmente anche il regno di Dio. Da qui la critica d’ecclesiocentrismo. Ebbene, il cammino verso il regno non è soltanto il cammino della chiesa, ma anche quello dell’umanità tutt’intera. Per cui lavorare per il regno vuol dire non soltanto dilatare la chiesa, impiantare la chiesa, ma anche sostenere tutte quelle iniziative sul piano della giustizia, della libertà e della pace, portate avanti laicamente, indipendentemente dalla chiesa, oppure dalle altre religioni. Il regno non dovrebbe più incutere quel timore che suscitava in chi si rifiutava di identificarlo con la chiesa, a causa delle sue contraddizioni e pesanti strutture non facilmente assimilabili al regno. L’ecclesiologia dell’identità tra chiesa e regno di Dio viene superata dal concilio,[4] che definisce in maniera più dinamica la connessione tra le due realtà: la chiesa non è esattamente oggettivabile come il regno di Dio e viceversa, poiché essa è il germe e l’inizio del regno (cf. LG 5). Del resto, l’azione dei missionari è abbastanza eloquente a questo proposito, perché non solo edifica la chiesa dove non è ancora presente, ma dona risonanza e visibilità anche ai segni del regno di Dio già presente, oltre i confini visibili della chiesa, per esempio nel dialogo con i non cristiani e con i non credenti. Lo stesso decreto AG ci mette su questa strada, facendoci passare da un ecclesiocentrismo esclusivista ad un regnocentrismo, che non elimina né la chiesa né la storia dall’orizzonte della missione, ma comprendendo ambedue nella loro connessione dinamica con il regno.

 

1.4 A proposito del compito soteriologico della chiesa

            Un altro limite delle scuole succitate – soprattutto di Münster e Lovanio – deriva non dalla missiologia come tale, ma dalla teologia della fede, allora in voga, che sosteneva la necessità assoluta della fede per la salvezza. Sicché chi è fuori della chiesa non può salvarsi, se non a determinate condizioni. Abbiamo a che fare con un concetto piuttosto rigido di fede. Le discussioni teologiche sviluppatesi, fin dall’inizio del Novecento, su questo punto sono state decisive per mettere in crisi sia la tesi della missione come una questione di vita o di morte per i pagani: pensiamo ai problemi teologici della salvezza dei pagani, dei non credenti, dei bambini morti senza battesimo, degli adulti morti prima di Cristo, ecc.

Attraverso l’incrocio del vissuto missionario – si veda per esempio V. Lebbe in Cina,[5] J. Monchanin in India,[6] P. Tempels in Congo[7] – con la teologia si giunse prima del concilio ad un profondo rimescolamento delle carte in campo missiologico. Nacquero in questo contesto anche le cinque grandi encicliche missionarie preconciliari: Maximum illud (1919), Rerum eccelsiæ (1926), Evangelii præcones (1951), Fidei donum (1957), Princeps pastorum (1959). Il Vaticano II non farà che recuperare tutta la ricchezza del magistero missionario del periodo precedente.

 

2. Teologia della missione dopo il Vaticano II: nuovi orizzonti e nuove prospettive

Sono vari gli orientamenti del pensiero missionario, che si sviluppano dopo il Vaticano II, sicché possiamo parlare di teologia della missione al plurale, ossia di teologie della missione anziché di teologia al singolare. Tali teologie si articolano in forma dialettica rispetto alle tesi delle scuole di missiologia. Di modo che, per esempio, alla teoria della plantatio ecclesiæ (Lovanio) si replica con quella della chiesa «inside out» (al contrario),[8] della «chiesa estroversa», direbbe il teologo Severino Dianich;[9] oppure, alla teoria della prædicatio evangelii (Münster) si replica con quella della missione come «Shalom». E ancora, alla teoria dell’«adattamento» si replica con quella dell’«inculturazione»; alla teoria della missione come «conversione» si accosta quella della missione come «dialogo». Tali correnti attraversano tutto il campo missionario, senza distinzioni denominazionali, e si basano sulla «svolta antropologica» operata dalla teologia contemporanea, più disponibile a considerare il mondo e la storia come luoghi e orizzonti della missione.[10]

 

2.1 Nell’orizzonte del mondo: la missione “senza chiesa”?

Una prima teologia si sviluppa in ambiente protestante, più sensibile di quello cattolico e ortodosso al fenomeno della morte della “cristianità” e della secolarizzazione. Il suo rappresentante più dinamico e più incisivo è il missionario e teologo olandese J. Ch. Hoekendijk, il quale aveva già polemizzato con la scuola di Münster a proposito del fine individuale e sociale della missione. A suo modo di vedere il processo di cristianizzazione dei pagani non può ridursi alla formazione di una “chiesa-popolo” (Volkskirche) troppo identificata nel senso etnico- culturale-religioso, perché ciò impedirebbe al vangelo di farsi presente alla nuova realtà evangelizzata con tutte le sue virtualità dialettiche e critiche, che trascendono qualsivoglia etnia, cultura e religione.[12]  Hoekendijk introduce nel concetto di missione la nozione escatologico-soteriologica di «Shalom», a suo parere più ampia di quella tradizionale di salvezza, poiché include tutti i beni del regno di Dio (pace, gioia, libertà, integrità, riconciliazione, armonia, giustizia, verità, comunicazione), ma anche la nozione socio-politica di sviluppo.[13] Un concetto escatologico-soteriologico, dunque, che opera un’inversione radicale nell’autocoscienza missionaria della chiesa: non si tratta di consegnare la storia e il mondo non ancora cristianizzati nelle mani della chiesa, ma di inserire la chiesa nell’orizzonte del mondo, perché possa rendere ragione di se stessa dall’interno della storia. Egli individua nella plantatio ecclesiæ (Lovanio) un insopportabile incapsulamento ecclesiastico della missione, che le farebbe perdere il confronto critico con le esigenze del regno di Dio, da una parte, e con le urgenze del mondo, dall’altra. Perciò auspica una missione «senza chiesa», o meglio un assorbimento della chiesa nell’azione missionaria. Credo ecclesiam apostolicam significa per Hoekendijk credere che la chiesa è innanzi tutto azione missionaria,[14] una chiesa missionaria (dell’esodo), non sedentaria («casa in Egitto»). Il teologo olandese emancipa la missione dalla chiesa e la vincola strettamente al mondo.[15] In altre parole, la missione viene compresa a partire da Dio, come actio Dei, in funzione del mondo: non più «missione dalla chiesa», ma «chiesa dalla e nella missione». La tesi di Hoekendijk ebbe grande influenza nella IV assemblea ecumenica del CEC ad Uppsala (Svezia) nel 1968, finora l’assemblea più interventista e politicamente orientata del movimento ecumenico, grazie anche alla consistente presenza e partecipazione dei giovani.

In campo cattolico sarà soprattutto L. Rütti a sviluppare questa dimensione politica della missione, nella sua tesi di dottorato –  preparata sotto la guida dell’iniziatore della teologia politica europea, Johann Baptist Mertz – Zur Teologie der Mission. Kritische Analysen und neue Orientierungen.[16]salus animarum) e più effettivamente immersa nei problemi umani, quasi si trattasse di un semplice allargamento delle competenze della chiesa verso lo spazio politico, ma nella costruzione di comunità cristiane che cerchino la loro identità cristiana nell’accettazione incondizionata, sia teorica sia pratica, della sfida politica del mondo di oggi.[17] Secondo il Rütti, la vera questione della missione non sta nella costituzione di una comunità cristiana meno preoccupata della salvezza religiosa dei singoli (

Sia Hoekendijk sia Rütti hanno il merito di aver ricuperato la missione quale nuovo orizzonte ermeneutico della chiesa, in permanente tensione tra storia ed escatologia. Resta, comunque, irrisolto nella proposta dei due autori il nodo della mediazione ecclesiale: la chiesa deve dissolversi nel mondo, in nome della presunta unità del fine della storia umana, oppure deve mantenere la sua valenza “sacramentale”? La facile accusa di fuga dal mondo rivolta alla chiesa del passato, per quanto reale, non coglie però il vero problema della missione. A questo proposito, potrebbe essere utile osservare che la dottrina del duplice fine (naturale e soprannaturale) non corrisponde, necessariamente, a una situazione di distacco della chiesa dal mondo. Infatti, in nome del dualismo dei fini la chiesa si è estraniata dal mondo, ma lo ha anche dominato, trasformandolo in societas christiana. In nome dello stesso dualismo dei fini, ha difeso la sua libertà nei confronti di chi la voleva ridurre al mondo; ma per il principio della subordinazione dei fini, essa ha pure legittimato la sua egemonia sul mondo e la piena integrazione in esso. Nessuna alternativa, afferma S. Dianich, dovrebbe mai essere esasperata: «ci sono spazi e momenti nei quali la chiesa è chiamata ad esaltare l’originalità e l’incommensurabilità della grazia e ci sono spazi e momenti nei quali bisogna scoprirne le espansioni nascoste che permeano di essa tutti i cammini della storia».[18] E’ la realtà che impone alla chiesa la direzione di marcia. Perciò, osserva Dianich, non bisogna mai dimenticare la “grammatica calcedonese” del principio divino e del principio umano, che vanno sì distinti, senza confusione, ma non divisi: non bisogna «confondere la grazia che sospinge la storia verso la soglia dell’invalicabile e la storia che contiene e svela nella sua stessa logica la grazia che la muove».[19] Il mondo è, dunque, un partner ineliminabile della chiesa e la chiesa non è la fine della storia, ma semmai la memoria di una nuova direzione di marcia della stessa. Nella dissoluzione nell’orizzonte del mondo e della storia la chiesa perderebbe in oggettività non solo come sacramento del mondo, ma anche come memoria dell’incarnazione di Dio.

Mentre nell’Europa secolarizzata e scristianizzata la missione catalizza la realtà ecclesiale verso il mondo, in America Latina ci si preoccupa di ricomprendere il linguaggio della salvezza come «liberazione».[20] Il linguaggio, si sa, non è innocente. Espressioni come «salvarsi», «salvare le anime», «salvezza eterna», lasciavano trasparire una maniera di intendere la salvezza come avventura individuale, staccata dalla storia, per concentrarsi in Dio e nella ricerca di una felicità extra-mondana. Da qui il tentativo di usare un concetto socio-politico, come «liberazione» – a prima vista considerato profano –, anche se fondamentale per intendere la salvezza cristiana. Nasceva la teologia della liberazione, «nella quale si riscontra il luogo di maggiore sviluppo della comprensione politica della missione».[21] Essa identifica la missione con la prassi di liberazione degli oppressi. Da qui il dilemma: la missione è annuncio o liberazione? Il Sinodo del 1971 parla della liberazione come dimensione costitutiva dell’evangelizzazione. L’EN si pronuncia contro ogni riduzionismo (della missione ad un progetto storico, sociale, politico, ecc.) dell’ultimo (trascendente) al penultimo (politico): l’impegno per la giustizia è «parte integrante» della missione. Non si dice più «parte costitutiva». La paura dei riduzionismi aveva quasi cancellato il termine «liberazione» dal vocabolario cristiano, ma la teologia della liberazione ne riscatta l’uso biblico, vetero e neotestamentario, quale parola-concetto centrale nella proclamazione del regno di Dio.[22] Alla luce della vita e della missione di Gesù, la chiesa latinoamericana comprende in maniera diversa il contenuto e le caratteristiche della salvezza. Il regno di Dio è inteso come una realtà totalizzante, comprensiva di tutte le dimensioni della persona. La dimensione materiale non si oppone a quella spirituale; la dimensione personale non esclude quella sociale; quella storica non nega la trascendente. Ogni ulteriore distinzione di piani deve portare all’unità fondamentale del disegno di salvezza. Le distinzioni sono necessarie, ma – come ci insegna la succitata “grammatica calcedonese” – distinguere non significa dividere e meno ancora opporre. La differenza cristiana non consiste nel contrapporre (l’umano al divino), e nemmeno nel giustapporre (l’umano e il divino), ma nell’affermare l’unità mantenendo e rispettando la diversità (l’umano nel divino, il divino nell’umano). Il luogo dell’esistenza cristiana e della missione è perciò il mondo, la sua materia concreta è la realtà umana. La differenza cristiana consiste nel configurare questa realtà secondo la norma di Gesù Cristo: non è necessario fuggire dal mondo per «salvarsi», né c’è bisogno di abbandonare il mondo per incontrare Dio. Ricuperare la differenza cristiana della trascendenza significa cristianizzarla, ossia confrontarla con Cristo.

In conclusione, se vengono criticate le formule della plantatio ecclesiæ o della prædicatio evangelii, non è perché non si accetti l’edificazione della chiesa come fine della missione, o non si senta l’urgenza dell’annuncio del vangelo, ma per ciò che queste formule contenevano in se stesse, spesso una plantatio di una realtà esclusivamente storica dentro la storia o una prædicatio di una parola troppo occidentalizzata in un universo profondamente segnato da altre parole. La domanda cruciale è un’altra: che cosa significa la chiesa e il vangelo nella storia e per la storia? Se si sottolinea lo spazio ecclesiale e kerygmatico della missione, sembra che si voglia rinchiudere la missione in un limbo irrilevante oppure integrista; se si sottolinea lo spazio mondano, anonimamente cristiano direbbe K. Rahner, allora la missione rischia di confondersi con la storia e di dissolversi nel mondo, senza alcuna riserva escatologica e dialettica nei loro confronti.                  &nbs p;                                       

 

2.2 Nell’orizzonte delle religioni: la missione “senza Cristo”? [23][24]

            Di fronte all’emergere di posizioni decisamente pluraliste, come quelle di Panikkar, P. Knitter, ecc., prenderanno posizione altri teologi e soprattutto alcuni dicasteri romani e lo stesso papa, con l’ultima enciclica missionaria del secolo scorso, Redemptoris missio (1990). Tra gli altri documenti dei dicasteri romani ricordiamo: Dialogo e missione (1984), Dialogo e annuncio (1991) e la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Jesus, (2000), che tante controversie ha suscitato in campo ecumenico e teologico in generale. 

 

2.3 Nell’orizzonte delle culture: la missione “oltre l’inculturazione”?[25]

            Se l’Europa e l’America Latina sottolineano soprattutto la dimensione politica della missione, i continenti africano ed asiatico danno rilievo a quella culturale, per cui la missione va vissuta nella forma dell’inculturazione. Si tratta, comunque, di un problema che tocca tutti i continenti, Europa compresa. Infatti, anche il Vecchio Mondo, con la morte delle cosiddette “cristianità” – politico-confessionali –, era stato clamorosamente costretto a fare i conti con quello che Paolo VI ebbe a definire, nel 1975, «il dramma della nostra epoca», cioè «la rottura tra vangelo e cultura».[26] In campo missionario, l’istanza è stata avanzata un po’ ovunque nel secolo scorso, attraverso l’esigenza dell’adattamento, ma è l’Africa che fa sentire in maniera più articolata la sua voce, dopo il Vaticano II, come reazione al modello di civilizzazione che aveva affiancato la missione, soprattutto durante il periodo della colonizzazione.

            Il Vaticano II aveva accolto questa istanza nel decreto sull’attività missionaria AG 22: «…è necessario che, in ogni vasto territorio socio-culturale, come si dice, venga promossa la ricerca teologica, per cui, alla luce della tradizione della chiesa universale, siano riesaminati fatti e parole rivelati da Dio, consegnati nella sacra Scrittura e spiegati dai padri e dal magistero… Ne risulteranno quindi chiare le vie per un più profondo adattamento in tutto l’ambito della vita cristiana. Così facendo sarà esclusa ogni forma di sincretismo e di falso particolarismo, la vita cristiana sarà commisurata al genio e all’indole di ciascuna cultura». Sicché, per il concilio, è chiaro che la chiesa non potrà mai: a) contrabbandare una cultura, compresa quella occidentale classica, come se fosse il vangelo, perché quest’ultimo trascende tutte le culture (acquisizione teologica); b) fare missione a scapito di una cultura, perché si impegna ad evangelizzarle tutte, in quanto tutte sono antropologicamente riconosciute degne del vangelo, alla stregua di quelle già evangelizzate nei paesi europei (acquisizione antropologico-culturale). L’accusa mossa alla vecchia teoria missionaria dell’adattamento partiva da un nuovo concetto di cultura, quello antropologico – fatto proprio anche dal concilio –, che metteva a nudo l’atteggiamento di quei missionari che, a partire da un concetto classicista di cultura – consideravano impossibile rinunciare alla filosofia classica (scolastica e neoscolastica) per incarnare il vangelo nelle culture africane ed asiatiche. Tutt’al più se ne potevano estrapolare degli elementi, quelli più in sintonia col vangelo, quasi che la cultura fosse un corpo disorganico, smontabile a piacere dal missionario, e non invece un coerente sistema simbolico organicamente strutturato.

Le prime avvisaglie della critica alla teoria dell’adattamento risalgano alla seconda metà degli anni Quaranta del Novecento, quando il missionario francescano fiammingo Placide Tempels pubblica La philosophie bantoue La critica prosegue con l’opera di un gruppo di sacerdoti africani e viene ripresa all’apertura del concilio, con una specie di memorandum, il cui senso appare chiaramente nelle parole del teologo camerunese M. Hebga: «La Chiesa cristiana deve non soltanto esortarci a creare ma pure aiutare l’Africa a riabilitarsi davanti al mondo, ad affermare la sua dignità umana. Come aiutarci? Lasciandoci esprimere liberamente senza imbavagliarci con censure ingiuste. La Chiesa deve contribuire ai nostri sforzi per riabilitare e aggiornare i nostri valori tradizionali (nel contesto moderno). L’universalità della Chiesa stessa diventerà effettiva (e credibile) quando accetterà l’apporto nostro alla civiltà e alla cultura. L’Africa cristiana non si sentirà mai a casa finché la Chiesa di Dio la manterrà sempre allo stato minorenne, oppure d’assistita, anzi di mendicante».[27][28] Veniva criticato anche il concetto di missione come plantatio ecclesiæ, troppo legato ad una concezione universalistica della chiesa, in base alla quale l’attività missionaria consisterebbe nel trapiantare negli altri continenti la chiesa come si è già storicamente (teologicamente, liturgicamente, canonicamente) configurata in Europa. Viene indicato un nuovo paradigma di cattolicità, quello conciliare, della LG 13 (universalità e unità del popolo di Dio), che lascia spazio alle diversità anzi le favorisce in ordine all’unità del popolo di Dio. Il passaggio dall’adattamento all’incarnazione, auspicato dai vescovi africani, poneva una serie di problemi di carattere teologico, che non sempre ricevevano risposte adeguate, poiché esse si incrociavano spesso con rivendicazioni di carattere sociologico-culturale e, in qualche caso, anche politico.[29] Da una parte si invocava la de-occidentalizzazione del cristianesimo, per renderlo più disponibile alle altre culture, senza la pesante mediazione della cultura occidentale; dall’altra si sentiva tutta la difficoltà dell’operazione di distillazione dello stesso, poiché non si sarebbe mai giunti al suo stato puro, considerando che anche il vangelo ci è stato consegnato avvolto in panni culturali.

Del resto abbiamo a che fare con un evento storico e, se non si vuole ridurre il cristianesimo ad un club gnostico, non si può togliere Gesù dalla sua cultura ebraica.

            Si giunge così al cuore del problema dell’inculturazione: come può un evento storico particolare, seppure con valore universale, essere emancipato da ciò che lo ha reso possibile e dalle sue molteplici ricezioni storiche, che alla fine sono le uniche vie d’accesso per poterlo conoscere? Paolo VI fa propria questa istanza dell’inculturazione nell’esortazione apostolica postsinodale Evangelii nuntiandi, del 1975, ponendo l’accento sull’evangelizzazione delle culture. Riprendendo il Vaticano II, afferma che il vangelo non si identifica con alcuna cultura, ed offre dei criteri per elaborare nuove sintesi tra vangelo e culture non ancora evangelizzate. Il criterio fondamentale è quello della priorità veritativa del vangelo rispetto alle culture, visto che nessuna cultura è perfetta, anzi tutte portano anche i segni della morte e del peccato. [30] Sullo sfondo sta l’idea che Gesù Cristo porta a compimento la creazione, liberandola dal male che anche storicamente (culturalmente) si è depositato in essa.

Tale processo avviene mediante la chiesa: «Ma poiché il regno di Cristo non è di questo mondo (cf. Gv 18,36), la chiesa o popolo di Dio, che introduce questo regno, non sottrae nulla al bene temporale dei popoli, ma al contrario favorisce e assume tutte le capacità, le risorse e le consuetudini di vita dei popoli, nella misura in cui sono buone; e assumendole le purifica, le consolida e le eleva» (LG 13). Se così non fosse, non si potrebbe parlare di conversione, la quale riguarda non solo le persone, ma anche le culture.[31] A questo proposito, il teologo indiano Michael Amaladoss parla ormai dell’esigenza di andare «oltre l’inculturazione», sia nel senso che il vangelo è provvisto sempre anche di una carica di esplosivo «controculturale», che non ha come fine la distruzione della cultura, bensì la sua trasformazione, sia nel senso che nessuna religione può avere un rapporto esclusivo con la cultura, soprattutto in un paese come l’India, con le sue molteplici religioni, «tutte chiamate ad animare la cultura congiuntamente, in dialogo». Nel contesto indiano è evidente che «la cristianizzazione della cultura, o l’incarnazione del Vangelo nella cultura, non è il solo modo in cui il Vangelo può porsi in relazione alla cultura. Al contrario, i cristiani, mediante la loro testimonianza, possono spingere la cultura al cambiamento, senza dominarla e senza pretendere di avere una relazione esclusiva con essa».[32][33] Invita dunque ad andare “oltre l’inculturazione”. Ma che cosa questo significhi non è così immediatamente chiaro, soprattutto ai missionari occidentali presenti in Asia.

Oggi l’inculturazione è chiamata anche al confronto con il processo di globalizzazione, che relativizza il rapporto del vangelo con le singole culture ed enfatizza il confronto con la mondializzazione delle culture attraverso l’imposizione di modelli transculturali, che ignorano le culture locali come tali e il rapporto interculturale, per cui suscitano la critica della corrente liberazionista della teologia contestuale.[34]

 

2.4. Nell’orizzonte della globalizzazione: rimotivare la missione ad gentes quale paradigma dell’impegno pastorale anche in Italia[35]

            Come muoversi oggi tra la fedeltà alla verità di Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini, la sola via di salvezza per l’umanità, che sta al principio della missione della chiesa (cf. At 4,12), e il rispetto per le altre culture, religioni e tradizioni religiose?

            L’approccio radicalmente pluralista e teocentrico – in alternativa a quello cristocentrico – si sta rivelando inconsistente. Lo afferma il teologo americano S. Mark Heim, che in una sua opera di qualche anno fa sottolineava il fatto che gli approcci teocentrici non rispettano il pluralismo perché postulano una ricerca comune che va oltre le singole tradizioni.[36] Più recentemente, l’autore ha elaborato quella che lui definisce “teologia dei fini religiosi”.[37] In altre parole, egli afferma che le religioni non hanno tutte gli stessi fini (sviluppa uno schema quadruplice). Heim cerca di elaborare un metodo per mostrare la natura diversa di questi fini, dei quali il più ricco è la comunione trinitaria con Dio espressa nella fede cristiana. Il suo scopo è di rispettare l’integrità delle diverse tradizioni religiose, ma anche di mostrare dal suo punto di vista la maggior ricchezza della fede cristiana, più capace in termini di dialogo e di annuncio. E’ ancora presto, afferma il missiologo R. J. Schreiter, per dire se queste tesi di Heim avranno successo, ma «forse è lo sviluppo più importante a questo riguardo da qualche tempo».[38]

            Una seconda questione, già formulata dalla RMi, ha a che fare con la caduta delle tradizionali motivazioni della missione, che si accompagna ad alcuni fattori e fenomeni, che preoccupano soprattutto gli Istituti esclusivamente missionari. Tra gli altri fattori segnaliamo: a) le nuove emergenze globali, soprattutto in Africa e in Asia, che rendono permanente lo stato di guerra o di conflitto in alcuni paesi, rendendo più difficile l’attività missionaria; b) il drastico calo delle vocazioni missionarie, specie in Occidente, Italia inclusa; c) il diffondersi di una mentalità agnostica e relativista. La combinazione di questi fattori ha portato ad apprezzare il missionario più come operatore a favore dei poveri che come annunciatore del vangelo. Un segno di questo è il fenomeno delle offerte (quasi esclusivamente legate a progetti di sviluppo) che paradossalmente aumentano, mentre le vocazioni diminuiscono.

Questi fattori, rafforzati dal processo di globalizzazione in atto nel mondo, hanno generato nei missionari molta perplessità riguardo alle modalità di attuazione della missione e incertezza sulle motivazioni stesse della missione, a tal punto che queste ultime sono state registrate da papa Giovanni Paolo II nell’ultima enciclica missionaria del secolo scorso: «E’ ancora attuale la missione tra i non cristiani? Non è forse sostituita dal dialogo interreligioso? Non è un suo obiettivo sufficiente la promozione umana? Il rispetto della coscienza e della libertà non elude ogni proposta di conversione? Non ci si può salvare in qualsiasi religione? Perché quindi la missione?» (RMi 4).

Rispondo sinteticamente a queste domande e ad altre sollevate dalle diverse teologie della missione, con le parole di un ex-superiore generale di istituto missionario, P. Francesco Marini, attualmente missionario in Indonesia.[39] Si tratta di sette questioni cruciali, che si presentano ai missionari – soprattutto occidentali – nello svolgimento della loro attività ad gentes, ma che ormai sono proprie anche dei pastori delle nostre parrocchie in Italia.

 
2.4.1 Missione e promozione umana

Il missionario deve avere l’umile ma decisa consapevolezza che la fede offre all’uomo la migliore prospettiva per affrontare umanamente la fame, la malattia, l’ingiustizia, la morte… Quindi non è giusto che aspetti che siano risolti questi problemi per presentare la fede. Altrimenti darà l’impressione di ridurre la fede ad un mero soprammobile. D’altra parte noi sappiamo che il messianismo di Gesù non è stato innanzi tutto una risposta ai molti bisogni che l’uomo ha, ma al bisogno che l’uomo è.[40][41] Il missionario che si impegna nel dialogo deve aver chiari i due livelli in cui esso si articola: quello metodologico (che esige uguaglianza di dignità delle persone in dialogo e regole per far progredire la prassi dialogica) e quello contenutistico (dove il relazionarsi non significa svendere il proprio contenuto). Il dialogo è necessario al cristiano e alla chiesa, per dare e per avere: a) il dare è la sostanza della rivelazione di Gesù; b) il ricevere è la grande ricchezza umana di una ricerca di Dio amplissima e profonda. Il dialogo è il modo per lasciar esplicitare tutto il potenziale dello Spirito Santo nella storia. Nel dialogo, dunque, ci si arricchisce mutuamente.

 
2.4.3 Missione e annuncio

Se ognuno si salva, seguendo la propria coscienza, a che scopo annunciare il vangelo e gravare la vita dell’uomo con nuovi pesi, rendendo addirittura più difficile la sua salvezza (con comandamenti cui prima non era tenuto perché non li conosceva)? Il missionario che riduce la fede a “peso inutile”, non ha capito niente della fede biblica, della fede di cui ci parla Gesù nel vangelo.[42]

 
2.4.4 Missione e unicità di Gesù Cristo

In certi ambienti, anche teologici, si sente spesso dire che Cristo è uno tra gli altri mediatori della salvezza. E’ l’interpretazione cosiddetta pluralista della salvezza, considerata in maniera relativista. Ma, ci chiediamo noi, si può ridurre la mediazione di Cristo a una mera teologia strumentale? Cristo non è innanzi tutto lo strumento della nostra salvezza, ma la sorgente, il fine e soprattutto il contenuto della salvezza.[43]

 
2.4.5 Missione e regno di Dio

Il regno di Dio è stato identificato con tutto e il contrario di tutto. Di fronte alle facili riduzioni del regno di Dio ai cosiddetti beni, socialmente necessari, per raggiungere una vita più umana, argomentiamo che le motivazioni sociali sono senz’altro giuste, ma inadeguate a dire l’obiettivo pieno della missione e l’identità più profonda del regno di Dio. La chiesa, infatti, non può essere ridotta a distributrice di servizi, a “centro di servizi”, perché ciò vorrebbe dire che la salvezza è attesa da altrove o quantomeno identificata con la risposta ai bisogni di tipo socio-economico.

 
2.4.6 Missione e salvezza

Per la salvezza dell’anima bastano le religioni, anzi, la coscienza; ma per “salvare la propria vita”, occorre il vangelo. La qualità del vivere umano non è la stessa, se uno conosce, accoglie e vive il Vangelo o se uno ne resta fuori, sia pure senza sua colpa. Si tratta di una differenza fondamentale: c’è qualcosa che il cristiano ha, che gli altri non hanno.[44] E questo non deve essere motivo di orgoglio per il cristiano e nemmeno di disprezzo per i non cristiani e le loro religioni.

 
2.4.7 Necessità e urgenza della missione

Comunemente si fonda la ragione della missione sul grande mandato di Cristo; sul bisogno di condividere una bella esperienza fatta; sull’anelito alla salvezza dell’umanità intera; ma la ragione fondamentale è che la missione, nella sua essenza, presenta all’uomo una proposta inedita di vita umana. Si tratta di un “gioioso annuncio” che rende possibile una novità di vita, indeducibile dalle nostre possibilità.[45]

 
P. Mario Menin SX
Viale S. Martino, 8
43100 PARMA
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[1] Cf. J. B. Anderson, A Vatican II Pneumatology of the Paschal Mistery. The historical-doctrinal Genesis of Ad Gentes I,2-5, Roma 1988. L’autore riporta una lettera di A. Seumois al card. Agagianian, del 19 dicembre 1962, in cui il celebre missiologo e perito conciliare, commentando gli sforzi di revisione dello schema alla fine del primo periodo del concilio, attribuisce la debolezza del testo al triunvirato di canonisti (Paventi, Buijs e Kowalski), che non sono «capables de mener à bien cette tâche, attardés qu’ils sont à l’ancien schéma canonique inacceptable pou le Concile, et incapables de concevoir un nouveau schéma authentiquement missiologique, entrant réellement et avec franchise dans les grands problèmes missionnaires qui confrontent l’Église à l’heure présent, et conforme aux orientations de base, maintenant bien connues, de la majorité des Pères du Concile» (p. 297).

[2] Cf. Acta et Documenta concilio ecumenico Vaticano II apparando. Series II Præparatoria: 2,3, p. 164, cit. da J. Komonchak, «La lotta per il concilio durante la preparazione», in G. Alberigo (dir.), Storia del concilio Vaticano II, vol. 1, Peeters/Il Mulino, Bologna 1995, p. 205.

Cf. J. Komonchak, art. cit., p. 208.

[4] Il perno teologico del problema è il chiarimento del rapporto tra regno e chiesa, che però il concilio non affronta espressamente, perlomeno secondo la Commissione Teologica Internazionale, la quale ritiene che la soluzione possa venire soltanto dall’accostamento di diversi testi: cf. Temi scelti di ecclesiologia, n. 10 [1985], in EV 9, 1753-1765.

[5][6] Cf. M. Giani, Un ponte tra cultura europea e cultura indiana. L’itinerario di Jules Monchanin (1895-1957), Jaca Book, Milano 2000; J. Monchanin, Mistica dell’India, mistero cristiano, Marietti, Genova 1992.

[7] Cf. P. Tempels, La philosophie bantoue, Présence Africaine, Paris 1948.

[8] Cf. J. C. Hoekendijk, The Church inside out, London 1964.

[9] Cf. S. Dianich, Chiesa estroversa. Una ricerca sulla svolta dell’ecclesiologia contemporanea, Paoline, Cinisello Balsamo 1987.

[10] Cf. J. B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969; L. Boff, Die Kirche als Sakrament im Horizont der Welterfharung, Bonifacius, Paderbon 1972.

[11] Cf. G. Collet, op. cit., pp. 131-173.

[12] Cf. J. C. Hoekendijk, Kirche und Volk in der deutschen Missionswissenschaft, München  1967 (l’edizione olandese è del 1948). La parola Volk in tedesco, soprattutto nell’epoca romantica, rimanda ad una serie d’attribuzioni mistiche e di funzioni comunitarie non immediatamente captabili nell’equivalente italiano “popolo”.

[13] Il nostro autore è molto vicino all’analisi della realtà fatta dalla scuola sociologica di Francoforte e da E. Fromm.

[14] J. C. Hoekendijk, Die Zukunft der Kirche und die Kirche der Zukunft, Stuttgart-Berlin 1964, p. 99.

[15] Cf. G. Coffele, Johannes Christian Hoekendijk, Università Gregoriana Editrice, Roma 1976, pp. 66-67.

[16] Kaiser-Grünewald, München-Mainz 1972. 

[17] Cf. L. Rütti, «Spiegazione della funzione politica della comunità cristiana alla luce della teologia politica», “Concilium” 4 (1973) 669-683.

[18] S. Dianich, op. cit., p. 115.
[19] Ibid., p. 116.

[20] Cf. G. Gutierrez, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1973.

[21] G. Canobbio, «La teologia della missione dal Vaticano II ad oggi», “Ad Gentes” 1 (2/1997) 143.

[22] Cf. Lc 4,18-19.

[23] Cf. G. Collet, op. cit. , pp. 174-192.

[24] Cf. R. Panikkar, Il Cristo sconosciuto dell’induismo, Vita e Pensiero, Milano 1976. Inoltre: cf. R. Panikkar, Cristofania. Nove tesi, Edb, Bologna 1994.

[25] Cf. G. Collet, op. cit., pp. 193-245.

[26] En 20c.

[27] Aa. Vv., Personnalité africaine et Catholicisme, Présence Africaine, Paris 1963, p. 14.

[28] Cf. G. Butturini (a cura di), Le nuove vie del Vangelo. I vescovi africani a tutta la Chiesa, Emi, Bologna 1975, pp. 287-291.

[29] Basti ricordare qui la vicenda della “rivoluzione dell’autenticità” nel Congo (Zaïre), all’inizio degli anni Settanta. 

[30] Anche l’enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, del 1990, riprende la questione, stigmatizzando il rischio di «passare acriticamente da una specie di alienazione dalla cultura a una supervalutazione di essa, che è un prodotto dell’uomo, quindi è segnata dal peccato» (n. 54).

[31] Cf. J. A. Scherer – S. B. Bevans (edd.), New Directions in Mission and Evangelization. 3: Faith and Culture, Orbis Books, Maryknoll – New York 1999, pp. 17-28; 54-75; 159-174.

[32] M. Amaladoss, op. cit., pp. 31-32.

[33] C f.  A. Pieris, Per una teologia asiatica di liberazione, Cittadella, Assisi 1990.

[34] Cf. J. M. Ela, «Identità propre d’une théologie africaine», in Cl. Geffré (a cura di), Théologie et choc des cultures, Cerf, Paris 1984, pp. 23-54.

[35] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000 (29 giugno 2001), n. 32.

[36] Cf. S. M. Heim, Salvations. Truth and Difference in Religion, Orbis Books, Maryknoll-New York 1995.

[37] Cf. S. M. Heim, The Depth of the Riches. A Trinitarian Theology of Religious Ends, Eerdmans/Grand Rapids, Michigan- Cambridge 2001.

[38] R. J. Schreiter, «Redemptoris Missio nello sviluppo del pensiero missiologico», in Aa. Vv., A dieci anni dall’Enciclica “Redemptoris Missio”, Urbaniana University Press, Città del vaticano 2001, p. 45.

[39]Cf. F. Marini, «La missione: quale motivazione?», in “iSaveriani” 3 (2002) 5-9; 4 (2002) 3-7.

[40] Cf. CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale (30 maggio 2004), n. 13.

[41] Cf. Ibid., n. 6.
[42] Cf. Ibid., n. 1.
[43] Cf. Ibid., n.  6.
[44] Cf. Ibid., n.  6.
[45] Cf. Ibid., n.  1.

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