Quattro vangeli per quattro lettori

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Il lettore d’un romanzo giallo è lo stesso d’un lettore de La Divina Commedia di Dante? Forse risponderete di sì, in quanto una stessa persona può aver interesse a leggersi Dante all’università, e un giallo in vacanza. Ma potreste anche rispondermi di no, impegnandovi in una analisi socioculturale della tipologia del lettore di Dante e di un thriller. Il che significherebbe impegnarsi in una costruzione sociologica della potenziale udienza che legge queste opere: chi legge Dante, e chi Michael Connally?

Di fatto il problema posto dal titolo «Quattro vangeli per quattro lettori» è diverso. Non mi chiedo: chi legge il vangelo di Matteo, e chi quello di Giovanni?, bensì: che tipo di lettore vien costruito da ognuno di questi due vangeli? Quale modello di lettore vogliono plasmare? Posto così, il problema è tipico dell’analisi narrativa.

Quel geniale semeiotico che corrisponde al nome di Umberto Eco già nel 1990 diceva che, sotto la spinta delle scienze del linguaggio nell’interpretazione dei testi era in corso uno spostamento di accento: non l’enunciazione storica del testo (cioè l’opera dell’autore) mobilita l’attenzione, bensì la sua ricezione da parte del lettore1. Primaria diventa ormai la cooperazione, ovvero la collaborazione del lettore nell’atto della lettura. L’analisi narrativa partecipa di questo nuovo paradigma. Il suo interrogativo canonico non è relativo a ciò che l’autore ha inteso, ma suona: quale effetto il testo esercita sui propri lettore e lettrice? Altrimenti detto, con Paul Ricoeur, un testo rimane in qualche modo incompiuto finché attende d’essere letto, dal momento che esso è «una strategia di persuasione avente come proprio target il lettore», e che solo «nella lettura» questa strategia attua il proprio percorso. 2Sempre Ricoeur aggiunge che non solo un testo è totalmente rivolto al proprio lettore, ma addirittura lo prevede, predisponendogli «l’esperienza viva» della lettura. 3 A questo punto ripropongo la questione: quale lettore ha di mira ogni vangelo, quale «esperienza viva» di lettura prevede per lui?

Ma i termini del problema han bisogno di ulteriore precisazione, e bisognerà introdurre una distinzione supplementare per individuare con precisione quanto andiamo cercando. Mi servo di una distinzione proposta da Peter Rabinowitz 4 tra udienza autoriale e udienza narrativa. L’udienza autoriale è quella presupposta dall’evangelista Marco, quando scrive: «Golgotha – che significa: luogo del cranio» (Mc 15,22), postulando che la propria udienza, o, se preferite, i suoi lettori, non conoscono l’aramaico, traducendo quindi per loro in greco il termine Golgotha. D’altra parte quando parla dei farisei non sente il bisogno di spiegarne la funzione in Israele, presupponendola loro nota. L’udienza autoriale corrisponde all’immagine che l’autore si fa dei propri lettori, della loro cultura, delle loro competenze e della loro ignoranza, aiutandoli al passaggio quando teme che non dispongano delle necessarie informazioni. L’udienza narrativa rappresenta l’effetto che il narratore vuole avere sul lettore. Altrimenti detto: il lettore che il narratore ambisce a costruire. Ecco l’oggetto della mia ricerca. Quali lettori ambisce a costruire ognuno dei quattro vangeli? Come avrete capito, il mio postulato è che un narratore non voglia solo raccontarci una storia, trasmetterci un’informazione, ma che la costruzione stessa del suo racconto agisca sul lettore. E pretendo, come vedremo, che l’immagine del lettore costruita da ogni vangelo trovi ampia conferma nella storia della sua lettura.

1. Il lettore di Marco – un lettore spiazzato

Cominciamo con il vangelo di Marco, che – al caso – per meglio delinearlo, distin-guerò da quello di Matteo. Com’è noto, il racconto Marco si presenta quale una successione rapida e molto segmentata di brevi unità narrative. Il narratore infila di seguito una serie di micro-unità (parabole, incontri, guarigioni, dialoghi), in questa successione che tiene il lettore con il fiato sospeso. Nel rapido ritmo del racconto, colpisce la successione di parole, di movimenti abbozzati e avviati, ma lasciati incompiuti. Certo, la storia delle forme (Formgeschichte) ci ha insegnato a identificare in questa successione di frammenti, le unità formali concepite originariamente in seno alla tradizione orale, successivamente collegate tra di loro dall’evangelista. Qual è l’effetto di questo dispositivo narrativo? Questa progressione spezzata è nettamente percepibile nella gestione dello spazio: in questo racconto Gesù si sposta, si disloca continuamente, passando da luoghi deserti alla casa, dalla via alla sinagoga, dalla riva del lago alla montagna. Il lettore viene coinvolto e trascinato da un micro-episodio all’altro, ciascuno dei quali si svolge in un luogo diverso. Il tono è già dato dai primi versetti del vangelo, dove si passa dal deserto (1,4) al fiume Giordano (1,5), dal Giordano al deserto (1,12), dal deserto alla Galilea (1,14), dalla Galilea alla riva del lago (1,16), dalla riva a Cafarnao (1,21), e così via. Lungo i primi dieci capitoli di Marco, ho potuto contare non meno di cinquantaquattro cambiamenti di luogo da parte di Ge-sù, mentre il periodo equivalente di Matteo, che conta venti capitoli, porta soltanto quarantasette cambiamenti di luogo. Si può quindi dire che, prima del racconto della passione, la mobilità di Gesù in Marco è un tratto del personaggio più importante ancora rispetto alla prospettiva della sofferenza. Che tipo di lettore costruiscono queste due gestioni dello spazio, tanto diverse tra loro come quelle di Marco e Matteo?

Per cominciare, diamo uno sguardo alla prima manifestazione pubblica del Gesù di Marco, la giornata di Cafarnao (Mc 1,21-34.35-39), che internamente al vangelo gioca un ruolo programmatico, aprendosi con un esorcismo in sinagoga (1,21-28), proseguendo con una guarigione in casa di Simone e di Andrea (1,29-32), per concludersi dopo il tramonto del sole davanti alla porta della casa (1,32-34). Per Marco questi tre luoghi sono simbolici: la sinagoga è il luogo dell’autorità liberante di Gesù, la casa simbolizza la prossimità coi discepoli, lo spazio aperto simbolizza l’affluenza della folla. Ora, proprio nel momento in cui l’evangelista nota l’affluenza dei malati intorno a Gesù – che «non lasciava parlare i demoni, perché lo conoscevano» (1,34) – ecco prodursi un episodio curioso, che Matteo non ha recepito. E’ la scena della fuga di Gesù in un luogo deserto, dove Simone e i suoi compagni finalmente lo ritrovano (1,35-38). «Trovatolo, gli dicono: “Tutti ti cercano!”. E dice loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, affinché annunci anche là. Per questo infatti io sono uscito!» (1,37ss.). Questa assenza di Gesù è drammatizzata dalla partenza di Gesù («si alzò, uscì, e se ne andò»: 1,35), e dall’intensità dell’inseguimento e della ricerca («Tutti ti cercano!»: 1,37). Evidentemente una scena che messo a disagio Matteo, cui non piace che ci si permetta di inseguire Gesù, e anche per-ché l’immagine di un Gesù che fugge di nascosto contravviene alla sua visione del Messia a disposizione delle folle: un episodio troppo urtante per la sua cristologia. Di solito i commentatori staccano questa scena dalla giornata a Cafarnao. E’ un errore, dal momento che aggiunge ai tre precedenti (sinagoga, casa, luogo aperto), un quarto luogo simbolico, il luogo deserto, un ambiente assai importante nella topologia del secondo vangelo. La scena organizza la fuga di Gesù e la caccia dei discepoli per ritrovarlo, e, a partire da quel momento, la questione centrale posta dalla giornata di Cafarnao non è «chi è Gesù?». Chi egli sia, lo ha dichiarato subito lo spirito impuro («Io so chi tu sei: il santo di Dio! »: 1,24), e i demoni pure lo sanno (1,34). La questione non è «chi è Gesù?», ma «dove è Gesù?». In altri termini, appena l’identità di Gesù viene proclamata, ecco che l’interessato si defila. Abbiamo qui una struttura propria di Marco, destinata a ripercuotersi regolarmente lungo il corso del racconto.

La moltiplicazione delle partenze di Gesù, coltivata dal narratore fin all’eccesso tra il capp. 1 e 10, situa il lettore alla presenza di un Cristo che se ne va, che precede, un Cristo costantemente fuori dell’umana portata. Ogni risposta sull’identità di Gesù è rimessa in gio-co dalla sua partenza. La mia ipotesi di lettura è che Gesù sfugga non soltanto ai discepoli, ma continuamente allo stesso lettore, trascorrendo rapidamente da un luogo all’altro, così che la questione della sua identità va riapren-dosi nel momento stesso in cui la si ritiene ormai chiusa.

In appoggio a questa tesi, interviene un’osservazione classica sulla geografia di Marco, secondo cui in questo vangelo la topografia palestinese si rivela perfettamente deficitaria. L’evangelista conosce poco la geografia di Palestina, in merito a cui commette qualche errore. Il suo interesse per i viaggi di Gesù non è documentario. La logica narrativa di Marco non è comandata da una geografia palestinese, o da un luogo preciso, foss’anche la casa, ma sta tutta nello spostamento (dépla-cement). La logica è lo stesso spostamento 5. Più precisamente, è lo spostamento di Gesù, dal momento che dopo 1,38 dobbiamo aspettare 4,35 per vedere il maestro accompagnare i discepoli – ma quale accompagnamento, visto che nella barca scossa dalla tempesta Gesù subito si assenta, addormentandosi! Pietro ha appena identificato una coerenza nella sua scoperta di Gesù confessandolo come Messia («Tu sei il Cristo!»: 8,29), ed ecco che questa confessione esplode sotto la pressione dell’annuncio della sofferenza (8,32-33). Ancora una volta si vede che la sintassi narrativa non scorre mai liscia, ma costantemente fratturata. Come vedremo, Matteo ha assunto la posizione diametralmente opposta, dal momento che nella sua narrazione la mobilità di Gesù è costantemente frenata da lunghe stazioni in cui la parola del maestro è offerta ai discepoli come alle folle: sono i grandi discorsi del primo vangelo. Inoltre, per descrivere la condizione del credente, Matteo ha scelto il termine della sequela – akolouthein –: credere è seguirlo (Mt 4,20.22.25 ecc.). Il lettore matteano è invitato a ritrovarsi nella figura del discepolo chiamato dal maestro alla sua sequela, una condizione che si concretizza nell’ascolto dell’insegnamento in una comunione di destino con Gesù e nella rottura col mondo. Netta la differenza: là dove Matteo insiste sulla sequela del Signore che accompagna il Maestro che precede, Marco punta su un Gesù in atto di andarsene. Il lettore di Matteo è orientato sulla difficoltà di seguirlo, il lettore di Marco è disorientato da un Signore inafferrabile. Il primo individua il proprio po-sto tracciato ai piedi del maestro; il secondo vede il maestro andarsene non appena egli vi si è installato.

L’itineranza di Gesù nel secondo vangelo trova il proprio correlato nella sistematica ricorrenza delle famose consegne di silenzio, appunto corrispondenti alla teoria del cosiddetto segreto messianico. Dopo le guarigioni (1,44; 5,43; 7,36; 8,26), piuttosto che dopo gli esorcismi (1,25.34; 3,12), o dopo le confessioni di fede (8,30; cf 9,9), Gesù comanda di tacere quanto egli ha appena compiuto, o quanto della sua identità è stato rivelato. La folla si vede quindi rifiutare un accesso immediato all’identità di Gesù. Accostando queste consegne a quanto appena detto, constatiamo che le consegne al silenzio esercitano lo stesso effetto del motivo della inafferrabilità di Gesù, solo spostandolo sul registro del di-scorso. In altri termini, l’itineranza di Gesù nel vangelo di Marco offre alla cristologia del segreto messianico la sua configurazione narrativa. Nella strategia narrativa marciana c’è una totale coerenza: quello che le consegne al silenzio dicono sul piano discorsivo è ritrascritto sul piano narrativo dalla costante mobilità di Gesù, in quanto sottrae Gesù alla capta-zione dei personaggi del racconto.

Un testo permette d’illustrarlo: il primo esorcismo di Gesù alla sinagoga di Cafarnao (1,23-27), dove scatta la prima consegna al silenzio significata da Gesù nel vangelo («Taci, esci da quest’uomo!»: 1,25). Ma, a ben vedere, la consegna scatta proprio in occasione del primo atto pubblico di Gesù nel vangelo, di un esorcismo inaugurante il suo ministero. Di colpo Marco sottopone all’intenzione del lettore il potere liberante del Figlio sul mondo degli spiriti. Ma si potrà notare al tempo stesso che in questo gesto inaugurale dal valore programmatico, Marco – ecco l’aspetto davvero straordinario – denuncia al lettore come demoniaca l’appropriazione del sapere relativo al Cristo. «“Io so chi tu sei: il Santo di Dio!”. Allora Gesù lo minacciò dicendo: “Taci, ed esci da quest’uomo!”» (1,24b-25a). Perché farlo tacere? Forse perché si tratterebbe di uno spirito impuro? E tuttavia lo spirito impuro dice il vero! Allora perché zittirlo? A mio avviso, è qui denunciato come fatto demoniaco il credersi detentore del mistero cristologico. Captare Gesù in una formula, foss’anche vera, è l’errore cristologico da cui bisogna guardarsi. Per capire chi è Gesù bisogna attendere la sua azione e la sua sofferenza. Il motivo della pronta fuga di Gesù il giorno dopo porta lo stesso timbro teologico: sfugge a quanti vogliono rinchiuderlo nel ruolo del taumaturgo. Pareva detto tutto all’inizio: «inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (1,1). Questo inizio, questa archè, altro non sarebbe che una metonimìa del vangelo stesso, come suggerisce Jean Delor-me? 6 In ogni caso, tutto avviene come se – dopo aver detto tutto quanto c’era da dire sull’identità di Gesù con il titolo Figlio di Dio –, il narratore s’ingegnasse a problematizzare l’accesso a questa identità, a narrativizzarne la difficoltà, a mettere in racconto la non-immediatezza di questa confessione di fede.

Vediamo ancora un ultimo testo, quello della trasfigurazione (Mc 9,1-13). Sovente ne è stata notata la collocazione strategica, subito dopo la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo e il primo annuncio della passione, come pure la funzione nello scenario evangelico: con la trasfigurazione l’attestazione messianica tocca il suo apogeo e al tempo stesso irrimediabilmente si annuncia la sofferenza del Figlio dell’uomo 7. Il racconto marciano raggiunge qui un vertice, e Matteo nulla sottrae a questa intensità cristologica. Ben diverso, tuttavia, è il trattamento di questo colloquio in Marco e in Matteo dal punto di vista che ci interessa, e cioè l’effetto sui discepoli. Alla voce celeste proclamante: «Questo è il mio figlio prediletto, in cui mi compiaccio. Ascoltatelo!» (Mt 17,5), i discepoli in Matteo reagiscono con una prosternazione piena di tremore, da cui Gesù li risolleva; poi, in dialogo privato con il Maestro, l’obiezione degli scribi relativa alla venuta di Elia è superata affermando che Elia è già venuto, «allora i discepoli capirono che egli parlava loro di Giovanni il Battista» (Mt 17,13). Matteo elabora la tradizione della trasfigurazione con una cristologia dello svelamento. I discepoli di Marco, invece, non hanno proprio niente di quella reazione: né prosternazione con successivo risollevamento, né comprensione. Il potenziale di senso rappresentato dalla visione del Cristo in gloria, conversante con Elia e Mosè, è immediatamente represso da una consegna al silenzio la cui validità è tuttavia limitata (fatto unico in Marco) alla risurrezione del Figlio dell’uomo (Mc 9,9); ma i discepoli non comprendono «che significhi: risuscitare dai morti» (Mc 9,10). Questo commento narrativo riguarda anche il lettore, a propria volta interpellato sulla sua capacità o meno capire meglio di loro: non tanto l’idea generale di risurrezione, che va da sé, ma quella di Gesù, che getterà le donne al sepolcro nella stessa costernazione. Qui tocchiamo con mano a qual punto il motivo dell’incomprensione dei discepoli in Marco risponda non tanto ad un interesse storico, ma piuttosto abbia di mira il lettore e lo interpelli circa il proprio intendimento.

In conclusione, la domanda suona: che cosa ci fa un tale racconto? Che tipo di lettore costruisce? Mi par chiaro che, fin dal suo ini-zio, il racconto di Marco resista ad ogni chiu-sura sistematica, ad ogni parola conclusiva, bloccando ogni tentativo di sapere teologico. Il primo nel vangelo a dichiarare «io so chi tu sei: il Santo di Dio!» (1,24) è un posseduto demoniaco, che si fa esorcizzare proprio nella sinagoga di Cafarnao. Ecco così avvisati i candidati ad una precipitosa confessione cri-stologica…Anche una dichiarazione teologi-camente corretta si vede ricusata in quanto in-tempestiva. Possiamo parlare di una specie di sfaldamento della conoscenza istillato da que-sto racconto, in cui quanto si credeva sapere è sotto posto a scosse continue, e l’intelligenza dei discepoli regolarmente si arresta. Al cap. 4 elevati allo statuto di iniziati al mistero del re-gno di Dio («a voi è stato dato il mistero del regno di Dio, ma per quelli di fuori tutto di- venta enigma»: 4,11), al cap. 8, dopo il dupli-ce miracolo dei pani i discepoli, eccoli stra-pazzati da Gesù: «Non capite ancora?» (8,21).

Da un capo all’altro del vangelo, il Gesù di Marco s’ingegna a trovarsi altrove rispetto al luogo in cui lo si cerca. La confessione del centurione sotto la croce («davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» 15,39) 8 è una confessione a scoppio ritardato: Gesù è morto quando il centurione lo riconosce. E a Pasqua, davanti alla tomba scoperchiata, le donne ap-prenderanno con sorpresa che Gesù non è lì, e che precede i discepoli in Galilea (16,6-7). Il Gesù di Marco si sottrae ai personaggi del vangelo perfino al di là della tomba. Ma questo suo sottrarsi è metafora di un’alterità, di un altrove, di un’altra terra dove il lettore è convocato per vedere il Vivente. Una Galilea è promessa al lettore di Marco…


2. Il lettore di Matteo – un lettore edificato

Tutt’altro effetto in Matteo. Nella sua monografia Matthew’s Narrative Web 9, Janice Capel Anderson è stata sensibile alla rete narrativa tessuta dal narratore con quell’espediente di ridondanza che gli è tanto tipico. Ogni lettore del primo vangelo conosce le ridondanze verbali che spuntano come ri-tornelli lungo il vangelo: formule di introduzioni alle citazioni di compimento («questo avvenne perché si adempisse quello che il Signore aveva detto per mezzo del profeta…»)10, oppure formule d’introduzione alle parabole (« il regno dei cieli è simile a… »11 ), o ancora formule minaccianti la condanna escatologica (« Là sarà pianto e stridore di denti » 12). In Matteo abbiamo a che fare con uno sforzo insistente del narrato-re che tende a saturare l’informazione con questo fenomeno di ridondanza.

Assistiamo – oserei dire – ad una peda-gogia di sazietà cognitiva (rassasiement cognitif), una pedagogia situata all’inverso di Marco, perché lavora con la completezza, con la conferma del detto attraverso il dire, che conduce il lettore di Matteo ad un rapporto con la conoscenza che mette in causa preci-samente il vangelo di Marco. Il lettore del primo vangelo è saturato (comblé) là dove quello del secondo vangelo è frustrato. Non ci si stupirà di non rintracciarvi eco alcuna dello scenario marciano di decostruzione di statuto iniziatico applicato alla figura dei discepoli. I discepoli di Matteo, al contrario, sono associati positivamente all’intimità del maestro, e beneficiari costanti del suo insegnamento. Questo non significa che il lettore – a immagine dei discepoli nella storia raccontata – non sia gnoseologicamente modificato o anche spiazzato. Ma, invece di essere problematizzato come in Marco, il rapporto al proprio sapere è dato positivamente. 13 Parlo del lettore di Matteo come di un lettore edificato, pensando appunto a questo sforzo di offrire sazietà attraverso la ridondanza.

La narrazione matteana – come già detto – è costantemente interrotta dal discorso. Matteo non è certo il solo a procedere così, ma lo fa in modo tanto sistematico che, forzando un pochino la formula, si potrà parlare del suo vangelo come di un racconto messo in discorso, mentre invece per Luca-Atti si parlerà piuttosto di discorsi messi in racconto. L’arte di Luca consiste in effetti nel combinare discorsi e racconto in una maglia strettissima, mentre Matteo procede attraverso larghi rag-gruppamenti tematici. Merita sostare su questo fenomeno di sequenzializzazione, che per-viene ad una architettura propria al primo vangelo, che è l’alternanza racconto/discorso. Matteo è il solo a averne fatto un principio strutturante la narrazione. Contiamo cinque grandi discorsi che scandiscono la narrazione, con il Sermone della montagna come primo (Mt 5-7), e l’ultimo che raggruppa le invettive contro scribi e farisei (Mt 23) e il discorso escatologico (Mt 24-25). Si tratta di cinque battute d’arresto della narrazione, o piuttosto cinque forti rallentamenti imposti al tempo narrativo. La parola riportata in affetti abbassa in modo spettacolare l’andatura della narrazione. Il racconto prende la velocità del discorso. 14 Riportare la parola d’un locutore è in effetti il mezzo di cui il narratore dispone per rallentare il ritmo narrativo, al punto che la sua velocità finisce per coincidere con quella della storia narrata. Il lettore decifra il Sermone della montagna alla stessa andatura di quella di Gesù che lo sta proclamando. C’è sincronia tra la messa in racconto e la storia raccontata. Al tempo stesso, il soggetto locutore riceve un duplice uditorio: dietro la finzione dell’uditorio della storia raccontata (Gesù parla ai suoi discepoli, alle folle), il locutore si rivolge al narratario. Altrimenti detto, soprattutto se prolungato, il discorso in qualche modo diserta il livello della storia raccontata per investire un registro cognitivo in cui il narratore si rivolge più direttamente al lettore.

Che effetto attribuire a tanto ampie spiagge discorsive? Il discorso è riconosciuto per essere un luogo di intelligibilità del racconto: il lettore ne riceve chiavi facilitanti per seguire il filo della narrazione. Reciprocamente, il racconto dovrebbe confermare e convalidare la parola riferita. C’è azione del racconto sul discorso e del discorso sul racconto. Sarà forse casuale l’intreccio discorso/racconto in questo vangelo che insiste con la forza più intensa possibile sulla convalidazione della parola mediante l’atto: «Mon chiunque mi dice : “Signore, Signore!”, entrerà nel regno dei cieli, ma bisogna fare la volontà del Padre mio celeste» (7,21). Il Discorso della montagna si conclude con la parabola delle due case, che ingiunge di ascoltare e di mettere in pratica le parole appena intese, proprio come farebbe un uomo che costruisce la propria ca-sa non sulla sabbia, ma sulla roccia. Illuminante sarà un piccolo esempio di questa reci-proca connessione – non una semplice giustapposizione – di racconto e discorso in questo vangelo. Si tratta del famoso enunciato di Mt 5,17: «non crediate che io sia venuto ad abolire la legge e i profeti. Non sono venuto ad abolire, bensì a compiere». Dal punto di vista della retorica del discorso questo enunciato è considerato – a ragione – come la tesi portante del Discorso della montagna, e concretizzato con la rilettura della Torà cui si è dedicato Gesù. (5,21–7,12). Domando: la portata della «tesi» sarà davvero confinabile a questo discorso? Osserviamo che già in precedenza, al cap. 4, il racconto delle tentazioni nel deserto mette in gioco il rapporto di Gesù alla Scrittura: Gesù in effetti respinge le proposte di Satana trovando appoggio su tre cita-zioni di Deuteronomio (Dt 4,4.7.10). La dichiarazione di 5,17 fornisce dunque una motivazione discorsiva a quanto Gesù ha prece-dentemente già vissuto e sperimentato. Il suo fare ha preceduto il suo dire, la fedeltà vissuta ha preceduto la dottrina. D’altra parte il sermone della montagna sviluppa solo il versante della «Legge». Cosa diventa allora il compi-mento della Legge e dei profeti? La sequenza immediatamente successiva, ai capp. 8-9, presenta una serie di racconti di miracoli di cui i primi tre sono conclusi dalla formula già cita-ta «perché si adempisse quello che era stato detta da parte del profeta: …» (8,17); la citazione successiva è di Is 53,4: ecco dunque la dimensione profetica. La portata della tesi di Matteo 5,17 non va dunque ristretta al discor-so che ne viene introdotto, avverandosi d’una ampiezza nettamente più larga, capace di irradiare il racconto a monte come a valle, sovrastandolo con la sua incisiva formulazione.

Conclusione sul primo vangelo. La sua funzione strutturante, edificante, sistematica non poteva non convenire a una chiesa in cerca di riassunti catechetici e di energiche formule dottrinali. Il lettore di Matteo è un lettore edificato nella comunità, un lettore costrui-to en Eglise, cioè nella chiesa e come chiesa.


3. Giovanni – un lettore iniziato

Il quarto vangelo si caratterizza per un uso intensivo del linguaggio simbolico. La simbolica non è esclusiva di questo vangelo, ma raggiunge qui una frequenza e un’intensità senza pari nel Nuovo Testamento. L’acqua viva, la luce del mondo, il pane del cielo, l’agnello di Dio, il buon pastore, la vite. La simbolica giovannea, bisogna dirlo, ha trovato fortuna nel linguaggio cristiano.

Bisogna però riconoscere che quello simbolico è un linguaggio iniziatico. La Samaritana (Gv 4) non comprende nulla del discorso di Gesù che le chiede l’acqua, finché non ac-cede al senso simbolico dell’acqua che pro-prio lui le offre. Attaccata al senso ovvio, ne resta all’esterno. Tanto che i discepoli alla fine del capitolo, insistono a pensare che Gesù parli di ordinario mangiare mentre invece sta parlando della volontà di Dio come di un cibo che egli riceve (Gv 4,32-34), incapaci di accedere al più fondamentale livello del credere, proposto loro da Gesù. Come il malinteso di cui parleremo adesso – e che è pure una spe-cialità tutta giovannea – l’uso del linguaggio simbolico sta a servizio di una intenzione didattica, apparendo al cuore dei grandi discorsi cristologici con cui l’evangelista espone al lettore la concezione giovannea della rivelazione.

Soprattutto, però, il linguaggio simbolico insegna al lettore come leggere il vangelo. Quando il lettore sente Gesù proclamarsi «la luce del mondo», allora potrà comprendere la dimensione simbolica della guarigione del cieco nato, che subito seguirà nel cap. 9: il vero «vedere» è credere al Cristo, ecco perché ogni lettore è cieco dalla nascita. Ecco perché l’ultima parola del cieco risanato non suona: «io vedo», ma «io credo, Signore» (9,38). Il lettore, la lettrice capiranno perché mai Giuda lasci Gesù proprio di notte per andare a tradirlo (13,30) o perché Maria di Magdala vada al sepolcro proprio quando ancora fa buio (20,1). O ancora perché i discepoli di Gv 21 abbiano pescato tutta la notte senza prender nulla, finché al mattino non abbiano incontrato il Risorto. La metafora «luce del mondo» funziona come un segnale apposto in capo al libro per sensibilizzare il lettore alla simbolica luce/tenebre ogni volta che questa apparirà in seguito. Si potrebbe dimostrare la stessa cosa riguardo all’acqua, il cui simbolo compare in Gv 2 (Cana), poi in Gv 3 (Nicodemo), in Gv 4 (la Samaritana), in Gv 5 (l’infermo di Bethesda), ecc. fino alla crocifissione, dove sgorga dal fianco di Cristo (19,34), liberata – o somma ironia! – dal colpo di lancia di un soldato. Assistiamo ad una strategia di apprendistato, di progressiva iniziazione con cui il narratore fa entrare il lettore nel mondo di valori che intende presentargli. Senza accorgersene immediatamente, il lettore è fatto oggetto di un asistematico processo d’apprendistato, diventando un iniziato. E più riprenderà la lettura del vangelo di Giovanni, più scoprirà le molteplici risonanze che il testo fa echeggiare in profondità.

Quando i Padri della chiesa hanno parlato del vangelo di Giovanni come del vangelo «spirituale» non dicevano altro. Il che non significa che questo vangelo sarebbe meno carnale o meno incarnato di un altro, ma che il suo linguaggio è costantemente a doppio fondo, e si apre ad una dimensione simbolica nascosta, a un senso spirituale di cui solo l’iniziato a poco a poco scopre il cammino. Nella teoria dei quattro sensi della Scrittura, il senso ultimo è in effetti quello spirituale.

Si deve notare che dopo secoli di esegesi focalizzata sul discorso, la dimensione narrativa del quarto vangelo è stata rimessa in valore dall’analisi narrativa. Ne fu pioniere Robert Alan Culpepper, con il suo studio del 1983: Anatomy of the Fourth Gospel 15. In seguito, l’attenzione è andata concentrandosi sulle tre procedure maggiori della retorica giovannea: il malinteso, l’ironia, la simbolica.

Parliamo dell’ironia, una procedura molto sottile, consistente nel far intendere di voler dire il contrario di quanto vien detto. L’ironia sovverte il senso ovvio per lasciar indovinare – per l’iniziato, naturalmente, e solo per lui – che il vero significato è tutto all’inverso. Quando nel corso della Passione, Pilato dichiara alla folla di Gerusalemme «ecco il vostro re!» (Gv 19,14), la folla risponde urlando: «a morte!». Ma il lettore iniziato – diciamo, il lettore cristiano – sa che , senza saperlo, Pilato dice il vero: Gesù è il Messia, il re dei giudei. Quando il sommo sacerdote Caifa giustifica la condanna a morte di Gesù sostenendo: «meglio per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e che la nazione intera non perisca» (Gv 11,50), la sua dichiarazione si ispira al cinismo politico; ma il lettore iniziato sa bene che sta dicendo il vero, pur senza saperlo: Gesù morirà offrendosi in sacrificio per i peccati di tutti. Giovanni è maestro riconosciuto d’ironia, in tutto il Nuovo Testamento il gran virtuoso dell’ironia. Ma ripeto: l’ironia presuppone un «doppio intendimento», che è un linguaggio in codice.

Meno nota è la procedura ironica ottenuta per ambivalenza semantica. Un esempio tratto sempre dal contesto della Passione, in Gv 19,13. Al termine del suo lungo confronto con Pilato, Gesù lascia il pretorio con il procuratore, dirigendosi entrambi in direzione del béma, dove Pilato lo presenterà ai giudei come il loro re (béma è un termine che possiamo tradurre sia con «tribuna», sia con «tribunale»). Ma ecco qui un altro serio problema di tradu-zione, su cui le nostre bibbie esitano. Si deve tradurre: «Pilato fece uscire Gesù e lo fece sedere sulla tribuna», oppure: «Pilato fece uscire Gesù e si sedette sulla tribuna»? Il senso non è affatto lo stesso: è Pilato a installare Gesù derisoriamente sulla tribuna (senso tran-sitivo del verbo kathizein), oppure Pilato va lui stesso a sedersi come un giudice sul palco riservato a tale funzione (senso riflessivo di kathizein) 16 ? Contrariamente a molti esegeti, penso che qui il testo sia intenzionalmente ambiguo. L’ironia si manifesta qui come una rottura in seno all’atto di enunciazione, una procedura retorica consistente nel congiungere sotto una stessa immagine o espressione due significati opposti o conflittuali, di modo che il lettore non viene invitato a respingerne una, ma piuttosto a mantenere aperta la tensione reciproca. Il narratore ha quindi di mira il doppio intendimento in ordine a far sapere al lettore che la verità teologica dell’evento va letta all’inverso rispetto a quanto si svolge in superficie: sotto l’apparenza dell’accusato portato in tribunale, in realtà è Gesù a giudi-care i propri giudici; è la vittima a svelare la verità del processo che Dio intenta contro gli uomini. Notare come questo doppio intendimento dipenda da un non-detto non esplicitato dall’evangelista, proprio come quando non ci dà la chiave del malinteso di Nicodemo sulla rinascita (3,4-10), o della Samaritana sull’acqua viva (4,11-14). Tocca al lettore capire l’ironia del racconto…oppure smarrirsi. Giovanni fa uso abituale dell’ironia, ma molto diversamente da Marco, dal momento che l’ironia in genere non è portata contro i discepoli.

Il lettore costruito da questo testo è attratto dal lato del non-detto, invitato a bucare le apparenze, per guadagnare il senso degli eventi narrati. Nel linguaggio del racconto è invitato a percepire la connotazione simbolica dell’acqua e della luce come metafore della salvezza. Il racconto lavora così a costruire una competenza d’interpretazione, attirando il lettore nell’orbita di una lettura iniziatica. Jean Zumstein ha esplorato il dinamismo di questa pedagogia del narratore parlando di una «strategia del credere» con cui il lettore credente viene coinvolto a passare da una convinzione elementare ad una fede propriamente giovannea. Il processo di iniziazione conduce quindi il lettore/la lettrice ad adottare le categorie specifiche della teologia giovannea 17. Il lettore inteso dall’udienza narrativa è un lettore iniziato.

Oltre l’uso della simbolica – che il lettore a poco a poco viene invitato a decifrare, a condizione di cogliere i segnali che gli vengono destinati – e oltre alla decifrazione dell’ironia (di tutti gli espedienti giovannei il più difficile da cogliere), una terza procedura ben nota è il malinteso. Il più noto è quello di Nicodemo (Gv 3), cui Gesù parla di nuova nascita, e che a propria volta replica: «Come un uomo può nascere, se è vecchio? Potrà forse rientrare una seconda volta nel seno di sua madre e nascere?» (3,5). In questa procedura è il processo di identificazione nel personaggio a suscitare la riflessione. Viene sovente inteso come una specie di proiezione, per cui il lettore è invitato a calarsi lui stesso nei panni del personaggio, a vibrare delle sue stesse emozioni, della sua attesa o sorpresa. Ma quale offerta d’identificazione viene fatta al lettore iniziato del quarto vangelo? Deve forse mettersi nei panni di Nicodemo che si smarrisce, non riuscendo a capire che la nuova nascita è tutta dall’alto, una nascita generata dallo Spirito, e non da una seconda gravidanza? Oppure deve piuttosto ridere di Nicodemo che sbaglia strada che inciampa sulle parole, non cogliendo la dimensione metaforica del linguaggio di Gesù? Né l’uno né l’altro, a mio avviso, dal momento che il processo di identificazione non è un’equazione semplice. Il mondo del racconto non è un calco di quello del lettore. Per passare dall’uno all’altro, dal mondo del racconto al mondo del lettore deve intervenire – per riprendere ancora una parola di Ricœur – una rifigurazione 18, cioè l’appropriazione di un intrigo – quello del racconto – e il suo innesto su di un altro intrigo –quello della vita del lettore. Tra questi due tracciati di vita non c’è riproduzione meccanica, ma piuttosto attrazione, influenza, sollecitazione. La lettura è l’incrocio di due intrighi, quello del racconto e quello della mia vita.

Riprendo la domanda: a chi può identificarsi il lettore iniziato del quarto vangelo? Il testo che sfila nell’atto di lettura invita a identificarsi ad un processo più che non ad un personaggio, ad una dinamica piuttosto che ad una figura narrativa. Si tratta – in altri termini – d’essere molto più attenti all’intrigo in cui il personaggio si trova implicato. Il che è pure conforme alla biografia antica, che fissa il personaggio più sul suo agire che non sulla sua interiorità.

Riprendendo Gv 3, la ricerca di Nicodemo è dispiegata sotto gli occhi del lettore, una ricerca che passa per la destabilizzazione, per lo spostamento/spiazzamento (déplacement) del punto di vista, per un abbandono del sapere e la confessione di un’ignoranza. E’ il maestro in Israele a domandare a Gesù: «Come può avvenire questo?» (3,9), e che con la sua domanda scatena il discorso di Gesù sulla vita eterna (3,10-21). Penso si debba abbandonare l’idea di una identificazione per adesione statica ai personaggi, e pensare piuttosto al processo in cui è impegnata la figura narrativa. L’autore del quarto vangelo non ci invita ad inciampare come fa Nicodemo, così come neanche a ridere a sue spese. Ci dipinge un Nicodemo che inciampa per illustrarci la necessaria destabilizzazione d’un processo di scoperta teologica, mostrando che il percorso di iniziazione cui il lettore è invitato s’iscrive su di una linea non continua, ma spezzata. E questa stessa rottura configura quella instaurata dalla nascita dall’alto (3,7-8). Altrimenti detto: il racconto fa ciò di cui parla, provoca rottura là dove parla di rottura, o se si preferisce, fa rinascere il proprio lettore ad un’altra visione proprio là dove parla di nuova nascita.

Subito dopo il colloquio con la Samaritana (Gv 4) riprende lo stesso tema approfondendolo in forza di un medesimo processo di malinteso, Dall’acqua attingibile al pozzo, e attraverso il dialogo passando all’adorazione in verità, ecco la donna samaritana rivelata nella sua tormentosa vicenda.

Il lettore costruito dal racconto giovanneo è un lettore risucchiato in un processo d’iniziazione, addestrato a decodificare il doppio senso delle parole o delle situazioni, formato a gustare lo spessore simbolico del linguaggio. E lo stesso percorso di certi personaggi nel vangelo dispiega sotto i suoi occhi questo percorso iniziatico con tutti i suoi scossoni, con le sue necessarie ricomposizioni di convincimenti e – come evidenzia il cieco nato di Gv 9 – con le difficoltà in agguato.


4. Il lettore di Luca-Atti – un lettore radicato nella storia

Come si è visto, il lettore di Marco è in-cessantemente destabilizzato, depistato, addestrato a scoprire un Gesù che egli crede di conoscere, ma non conosce veramente. Al contrario, il lettore di Matteo, è invitato all’ascolto di discorsi con cui sarà edificato, istruito, installato in un rapporto di discepolo a maestro. Per parte sua quello di Giovanni è attirato in un processo iniziatico di lettura, che gli farà progressivamente scoprire il senso nascosto delle parole, lo spessore del simbolismo e il sottile gioco dell’ironia.

Ma che ne è del lettore di Luca-Atti degli apostoli (precisando che il vangelo di Luca non è che il primo volume di un’opera in due parti, Luca e gli Atti)? Quest’opera di un medesimo autore è stata scissa in due volumi per ragioni pratiche. Quando il canone del Nuovo Testamento è andato a costituirsi progressivamente nel corso della prima metà del secondo secolo, i quattro vangeli sono stati raggruppati, sicché il libro degli Atti veniva a trovarsi separato dal suo primo tomo e isolato. Queste due opere che nel Nuovo Testamento leggiamo separate dal vangelo di Giovanni, erano in realtà previste per esser lette di seguito l’una all’altra. Il canone ha separato ciò che l’autore aveva unito! Lungo la formazione del canone la posizione degli Atti ha variato. Qualche manoscritto li colloca con le epistole pastorali, per accostarli ad un Paolo ormai alla fine della vita. In effetti, il discorso di Paolo agli anziani di Efeso (At 20) è molto vicino a quanto si legge nelle Pastorali: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue» (20,28). Manca in At la nozione di «deposito apostolico» – capitale nelle Lettere Pastorali –; ma si indovina nel discorso la medesima coscienza di una chiesa che Paolo sta per abbandonare, sentendola minacciata da «lupi rapaci» (At 20,29) che si introdurranno nella comunità. Ma non questa adiacenza alle Pastorali s’imporrà nella fissazione del canone, bensì piuttosto la sua collocazione attuale tra il vangelo di Giovanni e le epistole paoline. In effetti, da un lato questa corrisponde cronologicamente alla sequenza dei vangeli, dal momento che è il tempo postpasquale ad essere oggetto degli Atti. E dall’altro, gli Atti descrivono il teatro dell’attività di Paolo, le cui epistole vengono di seguito. Paolo è a Roma proprio in At 28, e subito dopo comincia la lettera ai Romani, con un accostamento non fortuito, per cui si può parlare in merito di una narratività del canone. Secondo la sua successione, il canone neotestamentario racconta una grande storia.

Il lettore costruito dalla duplice opera di Luca-Atti ci insegna dunque che la storia della salvezza non si ferma agli eventi di Pasqua. L’Ascensione è riportata per ben due volte dal narratore: una a conclusione del vangelo (Lc 24,50-53), l’altra agli inizi degli Atti (At 1,6-11). Interessante notare che queste due versioni non sono identiche: Lc 24 chiude la vita di Gesù con un atto di separazione, l’Ascensione con cui il Risorto di separa dai suoi benedicendoli. Questa separazione non è un dramma, ma una partenza interamente sovrastata dal gesto di benedizione. In At 1, al contrario, l’Ascensione è il punto di partenza per la missione degli apostoli, che proprio in questo momento diventano i mandati del Risorto, per essere «miei testimoni a Gerusa-lemme, i tutta la Giudea e la Samaria, e fino alle estremità della terra» (At 1,8). Qui l’Ascensione significa d’ora in poi l’assenza di Gesù che sparisce, ma che, sparendo, istituisce un gruppo di testimoni nei suoi discepoli. L’Ascensione non è più una conclusione come in Lc 24, ma piuttosto un invio. E d’altronde due uomini biancovestiti verranno a scuotere i discepoli che se ne stanno con gli occhi al cielo dove il Risorto è appena sparito: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stes-so modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11). I personaggi celesti riorientano l’attenzione e l’attività dei discepoli di nuovo in direzione della terra, verso la storia presente.

Come si vede, solo a qualche versetto di distanza – i pochi che separano i due racconti dell’ascensione, situati l’una alla fine del vangelo, e l’altra agli inizi degli Atti – l’evangelista si è permesso di fornire due versioni diverse del medesimo avvenimento. Non si contraddicono ma nemmeno concordano. Una chiude, l’altra fa ricominciare. Il che significa che il medesimo avvenimento può esser fatto oggetto di due diversi sguardi interpretativi. E’ un addestramento alla lettura della storia, a decifrarne i molteplici significati, esplorarne le diverse sfaccettature, coglierne diversi effetti di senso. Ecco la caratteristica dell’opera lucana: non solo ci racconta una storia – quella di Gesù e degli inizi della chiesa –, ma, offrendo diverse versioni dello stesso evento, insegna a interpretarla, facendo del proprio lettore un interprete, un ermeneuta della storia, e insegnandogli a leggere i molteplici sensi di una storia che si presta a signi-ficazioni plurime.

In effetti, la doppia versione del racconto dell’Ascensione di Gesù non è l’unico esempio di questo genere. Un racconto che occupa un posto centrale negli Atti, la conversione di Paolo sulla via di Damasco è riportato ben a tre riprese: dal narratore (At 9), in un discorso autobiografico di Paolo stesso davanti al popolo di Gerusalemme (At 22), e infine in un’apologia di Paolo davanti al re Agrippa e alla regina Berenice (At 26). Tre racconti, tre varianti del medesimo evento. Questa ripetizione mostra l’importanza accordata da Luca a questo evento, dal momento che la conversione di Paolo gli permette al tempo stesso di dimostrare la fondamentale continuità che lega giudaismo e cristianesimo, la fede farisaica di Saulo e la sua nuova fede nel Risorto; ma anche di mostrare che quest’ultima proviene da un’iniziativa con cui Dio interpella il proprio popolo. Questo racconto gli permette di saldare continuità e discontinuità tra giudai-smo e cristianesimo.

Ognuna di queste varianti possiede accenti propri 19. In At 9 il narratore evidenzia lo spettacolare capovolgimento imposto al nemico di Gesù: colui che stava recandosi a Damasco per ricondurre in catene a Gerusalemme i discepoli di Gesù, si ritrova gettato a terra (non da cavallo, un’invenzione questa dei pittori, incapaci di immaginarsi che un uomo della dignità di Paolo potesse viaggiare a piedi – ma era costume abituale nell’Antichità). Accecato, non vede più nulla. Lui che voleva arrivare trionfante a Damasco, cacciare i cristiani dalle sinagoghe, vi entra tenuto per mano dai suoi compagni di viaggio. Nel suo processo di guarigione, un ruolo decisivo gioca Anania, l’umile discepolo damasceno mandato da Cristo a guarirlo. Naturalmente Anania recalcitra, facendo presente la sulfurea reputazione di Paolo persecutore. Ma Cristo ne vince la resistenza, illustrando così fino a che punto la conversione di Paolo e la sua vocazione di evangelizzatore dei pagani siano state di difficile riconoscimento per i primi cristiani. Appena guarito dalla cecità per mano di Anania (si misura bene fino a che punto la guarigione di questo accecamento assuma valore simbolico), Paolo va a predicare il Cristo ai propri correligionari giudei di Damasco, che ben presto fomentano un complotto per farlo perire. Paolo passa così dal ruolo di persecutore del Cristo a quello di testimone perseguitato del Cristo.

In At 22 la situazione è assai differente. Paolo è appena stato arrestato su denuncia dei giudei d’Asia, ed espulso dal tempio, e avendo domandato al centurione romano di poter difendere la propria causa presso il popolo di Gerusalemme, si accinge a render conto degli avvenimenti di Damasco, ma in tutt’altra prospettiva. Qui si tratta di mostrare come l’apparizione del Risorto s’iscriva in diretta continuità con il proprio attaccamento al Dio dei padri. Eccolo allora richiamare la propria formazione farisaica ai piedi di Gamaliele, e il suo stretto attaccamento alla Legge dei padri. «Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca» (At 22,14). Di passaggio, si noti come Gesù nemmeno sia designato per nome, ma con l’epiteto «il giusto», di risonanza ben forte nella pietà giudaica, e da Luca già adottato altrove come titolo cristologico (Lc 23,47; At 3,14). Anania, il cui ruolo è fortemente ridimensionato (At 22,12), nemmeno viene designato come discepolo, bensì come «un uomo pio, fedele alla legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti» (At 22,12). In breve, la presentazione viene – se così si può dire — il più possibile rispettivamente giudaizzata e scristianizzata, per legittimare non più tanto il trauma che ha rappre-sentato per i cristiani di Damasco, quanto piuttosto l’inserimento nell’azione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e quindi la sua perfetta giudaicità.

In At 26 l’uditorio cambia ancora una volta: Paolo prende come testimone la corte di Agrippa per far la propria apologia, e dimostrare l’inconsistenza delle accuse portate contro di lui. Si comincia con un’accurata captatio benevolentiae. Agrippa è presentato come un esperto di costumi e controversie del mondo giudaico (At 26,3), ma, in quanto sovrano ellenistico, cliente di Roma, uomo di garantita imparzialità. Il racconto della caduta e della conversione di Damasco è tuttavia introdotto da un cappello che ne colora l’intero racconto: Paolo protesta con il re d’essere accusato dai giudei a motivo de «la speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. …Perché si considera inconcepibile fra di voi che Dio risusciti i morti?» (At 26,6-8). Davvero terribile l’abilità di quest’operazione retorica: l’apparizione del Risorto da Paolo sperimentata in quel di Damasco corrisponde nientemeno che alla speranza millenaria del popolo, la speranza cioè della risurrezione. Di certo Luca forza il tratto presentando come speranza millenaria del po-polo quello che è il cuore della fede farisaica del primo secolo. Ma poco importa, Agrippa è preso come testimone del fatto che gli avversari di Paolo si pongono in contraddizione con la loro stessa propria speranza, rinnegando ciò per cui il popolo prega incessantemente. Terza lettura dell’evento di Damasco, ancora differente, dove Paolo rivendica per sé e per la nuova fede da lui rappresentata l’autentica eredità del giudaismo.

Disporre negli Atti di tre versioni dello stesso avvenimento, è farne brillare le sue differenti sfaccettature, e insegnare al lettore a leggere la storia sotto diversi punti di vista in ordine a comprendere la ricchezza semantica degli avvenimenti. A scuola di Luca, senza nemmeno accorgersene il lettore è convocato a fare questo apprendistato, che, in certa qual maniera, si attua perfino a propria insaputa.

Sin qui abbiamo potuto reperire una medesima procedura narrativa adottata da Luca in ordine ad ottenere questo effetto, consistente nella ripetizione variata di un medesimo avvenimento. Ma la sua strategia narrativa non è certo a corto di risorse. Un’altra procedura narrativa, che percorre vangelo e Atti, porta il nome greco di synkrisis 20, provenendo dalla retorica greco-romana. La synkrisis – il cui termine significa «distinguere insieme» – consiste nel mettere in parallelo due personaggi in vista di compararli e soprattutto per mostrare l’influenza (o la superiorità) dell’uno sull’altro. Questa procedura di synkrisis è messa in atto quando gli Atti raccontano una guarigione prodotta dagli apostoli o da Paolo, riutilizzando i termini già impiegati per raccontare i miracoli di Gesù. «Alzati e cammina!». Dice Gesù al paralitico di Lc 5,23. «Nel nome di Gesù il Nazoreo, [alzati e] cammina!», dice Pietro allo zoppo della Porta bella del tempio (At 3,8).

Perché queste ripetizioni, forse per difetto d’immaginazione? Forse che, per dire le stesse cose, Luca disporrebbe di un vocabolario esiguo – il che sarebbe sorprendente da parte di uno scrittore tanto dotato? No, se Luca ricorre agli stessi termini, lo fa intenzionalmente. E la sua è una ragione teologica: negli Atti i miracoli degli apostoli o di Paolo non sono mai frutto della loro pietà, ovvero la performance dei loro doni terapeutici. Ad agire, a guarire è sempre «il nome del Signore. Ecco perché è importante ripetere le parole utilizzate per i miracoli di Gesù, in quanto l’agente della guarigione è il medesimo, Gesù di Nazareth, ovvero il Risorto. Ancora una volta Luca ci insegna a leggere la storia. Sollecitando alla nostra memoria un richiamo del vangelo, ci fa comprendere dove si trovi la fonte dell’azione miracolosa: nell’azione di Cristo attraverso i suoi discepoli.

L’azione terapeutica non è la sola che si ritrovi configurata dalla procedura della synkrisis. Come Gesù in occasione del suo battesimo, anche Pietro e Paolo beneficiano d’una visione estatica nel momento chiave del loro ministero (At 9,3-9 ; 10,10-16). Inoltre, come Gesù predicano e sostengono l’ostilità dei giudei. Come il loro maestro patiscono e affrontano la morte. Paolo subisce un proces-so come già lo stesso Gesù (tre volte i procuratori romani riconosceranno la sua innocenza, come Pilato per tre volte ha ammesso quella di Gesù).

E’ ben noto il parallelismo tra la morte di Stefano protomartire e la morte di Gesù: Stefano muore come Gesù in seguito ad un processo sommariamente condotto dal sinedrio (At 6,12-14 ; Lc 22,66-71), e davanti ai suoi accusatori, proprio come Gesù ha una visione del Figlio dell’uomo (At 7,55-56 ; Lc 22,69). Come Gesù, anche lui muore gridando forte (At 7,60a ; Lc 23,46a), affidando il proprio spirito, e implorando il perdono per i suoi avversari (At 7,59-60 ; Lc 22,46.34). E come nella Passione, qualche uomo pio si prenderà cura del corpo del suppliziato (At 8,2 ; Lc 23,50-53). Questi molteplici richiami, davvero troppi per esser trascurati, fanno della morte esemplare di Stefano una passione protratta. Gesù l’aveva predetto: «il discepolo non è superiore al suo maestro» (Lc 6,40).

Luca fa dunque appello a una memoria evangelica, ma – insisto – senza alcun richiamo né commento narrativo esplicito. Ce lo fa sapere narrativamente, con la procedura della ripetizione o della ridondanza; sicché spetta al lavoro della lettura evidenziarlo. Da bravo pedagogo, il narratore moltiplica gli indizi, ma il lavoro tocca al lettore, che impara così a leggere la storia dei testimoni di Gesù come una storia che il Risorto continua ad animare, e la sofferenza dei testimoni come una Passione dove il Crocifisso serve da modello ai propri discepoli. Luca-Atti ci invita ad un’energica lettura cristologica della storia.


Conclusione

La mia conclusione sarà breve: o vi ho convinto, e allora non ci sarà bisogno di dire di più; oppure, se non vi ho convinto, è comunque tempo di fermarsi!

Ho inteso mostrare che ogni narratore ha in vista un lettore che il suo proprio testo nella sua forma e strategia narrativa contribuisce a costruire. Umberto Eco dice che il testo è un meccanismo, che per funzionare ha bisogno del lettore. Possiamo dire anche che il lettore ha bisogno del testo per esistere. E soprattutto – come si è visto – che il testo non pone in essere qualunque lettore, a meno che il lettore non si ribelli alla proposta di lettura, il che rientra nel suo sacrosanto diritto.

Sarebbe interessante, a questo punto, verificare se la proposta di costruzione del lettore abbia effettivamente funzionato nella storia, ma non voglio abusare del vostro tempo. Arrischio solo qualche rapida osservazione. Il vangelo di Matteo, con il suo lettore edificato, ha giocato un ruolo decisivo nella strutturazione del catechismo e della dottrina nella teologia della chiesa latina. Il vangelo di Giovanni ha nutrito molte letture esoteriche, più degli altri prestandosi alle meditazioni spirituali. Luca-Atti ha fornito alla cristianità la sua strutturazione storico-salvifica come pure il suo calendario liturgico. Quanto al vangelo di Marco, sarà forse un caso che sia stato il vangelo meno letto, meno commentato e meno meditato nella storia del cristianesimo fino al diciannovesimo secolo, quando la ricerca del Gesù storico gli ha assicurato un uso e una celebrità inattesi? Questo lettore spiazzato e depistato non era particolarmente predisposto a sedurre un’ampia cristianità.

La sapienza della chiesa antica ha voluto che i vangeli ci fossero conservati tutti e quattro. Stupenda saggezza teologica.

Prof. Daniel MARGUERAT
Università di Losanna (CH)

FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE
Milano, 29 ottobre 2007 - CONFERENZA PUBBLICA

Traduzione a cura del prof. Roberto Vignolo. In merito al tema della presente conferenza, si veda il più ampio contributo dell’Autore : D. MARGUERAT, L’éxegèse biblique à l’heure du lecteur, in : D. MARGUERAT (éd), La Bible en récit. L’éxegèse biblique à l’heure du lecteur. Colloque internationale d’analyse narrative des textes de la Bible, Lausanne (mars 2002) Labor et Fides Genève 2003, 13-40.



1 U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Bompiani Mila-no,1990.

2 P. RICOEUR, Temps et récit II, Paris, Seuil, 1984, p. 234.

3 P. RICOEUR, op. cit. 230-231.

4 P. RABINOWITZ, Before Reading. Narrative Conven-tions and the Politics of Interpretation, Ithaca/London, Cornell University Press, 1987.

5 Secondo l’azzeccata espressione di E. TROCMÉ, La formation de l’Evangile selon Marc (EHPR), Strasbourg, 1963, p. 61 note 238 : «La confusione topografica risultante dalla moltiplicazione di queste partenze [di Gesù] nei capp. 3-10, gli [a Marco] interessa assai poco, perché sta a servizio del suo desiderio di mostrare un Gesù che se ne va» (sott. mia).

6 J. DELORME, Evangile et récit. La narration évangé-lique en Marc, «New Testament Sudies» 43 (1997) 367-384.

7 Con forza B. STANDAERT, L’évangile selon Marc. Composition et genre littéraire, Brugge, 1978, p. 41-108.

8 Y. BOURQUIN, Marc, une théologie de la fragilité. Obscure clarté d’une narration (Monde de la Bible 55), Genève, Labor et Fides, 2005.

9 J. C. ANDERSON, Matthew’s Narrative Web. Over, and Over, and Over Again (JSNT.SS 91), Sheffield, JSOT Press, 1994.

10 Mt 1,22 ; 2,15.17.23 ; 4,14 ; etc.

11 Mt 13,24 ; 18,23 ; 22,2 ; 25,1.

12 Mt 8,12 ; 13,42.50 ; 22,13 ; 24,51 ; 25,30.

13 Rimando al mio articolo: « La construction du lec-teur par le texte (Marc et Matthieu) », in : C. FOCANT (ed.), The Synoptic Gospels. Source Criticism and New Literary Criticism (BETL 110), Leuven, Leuven Uni-versity Press-Peeters, 1993, p. 239-262, soprattutto pp. 253-259.

14 D. MARGUERAT – Y. BOURQUIN, Per leggere i rac-conti biblici, Roma, Borla, 2001, p. 91-95.

15 R. A. CULPEPPER, Anatomy of the Fourth Gospel. A Study in Literary Design, Philadelphia, Fortress, 1983.

16 Dossier presentato da J. BLINZLER, Le procès de Jésus, Paris, Mame, 1962, p. 391-401 (aspetto storico) e X. LÉON-DUFOUR, Lecture de l’Evangile selon Jean, IV, Paris, Seuil, 1996, p. 109-110 (aspetto filologico).

17 « L’évangile de Jean: une stratégie du croire», in : J. ZUMSTEIN, Miettes exégétiques (Monde de la Bible 25), Genève, Labor et Fides, 1991, p. 237-252.

18 La rifigurazione caratterizza la terza fase dell’atto di lettura secondo Ricoeur, Mimesis III, che è lo stadio interpretativo per eccellenza : «Quel che in un testo è effettivamente da interpretare, è una proposta di mondo, di un mondo per me abitabile, per progettarvi uno dei mei possibili a me più propri» (P. RICŒUR, «La fonction herméneutique de la distanciation», in: Id., Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Paris, Seuil, 1986, p. 101-117, ivi 115).

19 Vedi D. MARGUERAT, Les Actes des apôtres (1-12) (CNT 5a), Genève, Labor et Fides, 2007, p. 319-322.
J.-N. ALETTI, Il racconto come teologia, Roma, De-honiane, 1996, 53-86. D. MARGUERAT, La prima storia del cristianesimo, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2002, p. 57-81.





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XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

10-07-2024 Domenica Missionaria

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Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13 La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata...

"Camminatori di consolazione e di speranza"

10-07-2024 I missionari dicono

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