Sacerdozio e vita consacrata in sant’Ambrogio

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Sant’Ambrogio è stato vescovo di Milano alla fine del IV secolo. Sappiamo che egli è uno dei quattro dottori della Chiesa occidentale (con i santi Agostino, Girolamo e Gregorio Magno); a differenza però degli altri tre è considerato Dottore della Chiesa anche in Oriente e il suo magistero continua ancora oggi a essere ricco di insegnamenti preziosi e attuali. Come suo ultimo successore, chiamato a guidare la Chiesa di Milano nel solco della tradizione tracciato da Ambrogio, vorrei oggi attingere ad alcuni suoi scritti per parlarvi della vita sacerdotale e della vita consacrata.

In questa riunione infatti ci troviamo radunati insieme sacerdoti, missionari, religiosi e religiose.

Per questo ho pensato di proporvi una conversazione di carattere spirituale, durante la quale ci lasceremo guidare dagli insegnamenti e dalle parole di questo Padre della Chiesa antica, ma che – come dicevo – conserva sempre aspetti di grande e interessante attualità.


Ambrogio fu, innanzitutto, un vero educatore del suo clero. Divenne vescovo di Milano in un momento storico difficile, quando il clero della città era spaccato in due: il clero cattolico e il clero ariano. E Ambrogio si impegnò con grande passione per ricostruire l’unità nel suo clero, recuperando i preti che erano caduti nell’eresia e rafforzando quelli che erano rimasti fedeli all’ortodossia della fede cristiana. E per i suoi preti scrisse un’opera, il De Officiis Ministrorum, i Doveri dei Ministri della Chiesa, nella quale ha raccolto i suoi preziosi insegnamenti in riferimento alla vita pastorale, alla predicazione, alle virtù sacerdotali.

Ma Ambrogio è stato anche uno dei primi Padri della Chiesa antica a impostare una vera e propria pastorale della vita consacrata. Di lui ci restano quattro opere dedicate alla verginità consacrata, che dal punto di vista cronologico coprono praticamente l’intero arco del suo episcopato. Ciò significa che le vocazioni alla verginità consacrata furono una sua costante preoccupazione come vescovo e come maestro: in queste sue quattro opere infatti troviamo numerosi insegnamenti sulla spiritualità della vita consacrata come rapporto sponsale con Cristo, sull’esercizio delle virtù, sul modo in cui una vergine deve impostare la sua preghiera, la sua donazione totale a Dio, l’offerta di se stessa per la Chiesa.

Considerando ora il fatto che questa nostra riunione è composita perché in essa ci sono preti e consacrati, mi sono chiesto se negli insegnamenti di sant’Ambrogio per il clero ce ne fosse qualcuno applicabile anche alla vita consacrata, e viceversa se nelle indicazioni da lui date alle vergini per impostare la loro vita spirituale ce ne fosse qualcuna applicabile anche al clero. E la risposta mi pare affermativa. In questo modo avremo la possibilità di ascoltare il ricco magistero di Ambrogio e di integrare i suoi insegnamenti sulla vita sacerdotale con quelli sulla vita consacrata, favorendo così tra noi un reciproco arricchimento, insieme spirituale e pastorale.

Rileviamo anzitutto che negli scritti sulla vita sacerdotale Ambrogio elabora un’idea sintetica nella quale è possibile racchiudere la spiritualità del prete: è la figura veterotestamentaria del “levita”. Così come negli scritti sulla verginità questa idea sintetica nella quale è possibile riassumere la spiritualità della vita consacrata è espressa dalla parola “religio”, che solo in maniera approssimativa potremmo tradurre con la moderna parola “religione”.

1. Il sacerdote e la “spiritualità levitica”

Mettiamoci dunque in ascolto di sant’Ambrogio, che dipinge il volto spirituale del sacerdote ricorrendo alla figura biblica del “levita”.

Ambrogio parte giustamente dalla sacra Scrittura e in particolare da due testi, l’uno dal libro dei Numeri, l’altro da quello del Deuteronomio. Nel primo leggiamo: «Il Signore disse ad Aronne: “Tu non avrai alcun possesso nel loro paese e non ci sarà parte per te in mezzo a loro; io sono la tua parte e il tuo possesso in mezzo agli Israeliti... I leviti non possederanno nulla tra gli Israeliti”» (Numeri 18,20-23). Il secondo testo fa eco al primo: «In quel tempo il Signore prescelse la tribù di Levi per portare l’arca dell’alleanza del Signore, per stare davanti al Signore al suo servizio e per benedire nel nome di lui, come ha fatto fino ad oggi. Perciò Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità, come il Signore tuo Dio gli aveva detto» (Deuteronomio 10,8-9).

Sono due testi che convergono su un’unica idea: i ministri del culto non devono possedere alcun bene, perché unico loro bene è il Signore e a lui appartengono in maniera esclusiva. Per questo i leviti sono stati esclusi dalla spartizione della terra, per questo non ereditano nulla, perché la loro eredità è lo stesso Signore.

Ora la prima riflessione di Ambrogio su questi testi parte dall’etimologia del nome Levi, che significa: egli è stato scelto per me, o anche: egli è mio. Non ci interessa sapere se è scientifica o meno l’interpretazione etimologica di Ambrogio, ci interessa piuttosto cogliere gli aspetti spirituali che egli vi legge.

Ambrogio è convinto che si debba partire da Gesù Cristo, perché è in lui che si realizza perfettamente quanto è stato annunciato e prefigurato nell’Antico Testamento. Per il vescovo di Milano è Cristo il vero Levita, colui di cui il Padre può dire: «è stato scelto per me», perché in Lui il Padre ha manifestato la sua volontà di comunicarci la salvezza.

E questo – continua sant’Ambrogio – deve dirsi anche dei sacerdoti, dei ministri del culto nei confronti di Dio: appartengono esclusivamente a lui.

Si può parlare allora di una spiritualità levitica che è propria dei sacerdoti e della loro vita sacerdotale: essi non devono possedere nessun bene in alternativa a Dio e nello stesso tempo non devono essere posseduti da nulla se non da Dio.

Ascoltiamo quanto dice Ambrogio nella sua operetta Caino e Abele: «Dunque il Signore Dio scelse i Leviti tra il popolo di Israele, perché non li volle partecipi degli affanni umani, bensì ministri della religione divina... essi vengono scelti, liberi da cure mondane. Per questo non partecipano dei beni di questo mondo, né vengono annoverati tra la gente comune, poiché possiedono in mezzo a loro il Verbo di Dio» (2,7).

Scelti per essere “per” e “di” Dio!

All’origine della spiritualità levitica vi è dunque la coscienza di un atto di predilezione da parte di Dio nei nostri confronti: siamo stati scelti con un atto d’amore libero e gratuito, e siamo stati scelti perché la nostra vita, la nostra persona, il nostro operare, i nostri desideri, tutto il nostro essere fossero per Dio, anzi, più a fondo ancora, fossero di Dio, fossero sua esclusiva proprietà. I membri della tribù di Levi, come dice la Bibbia, sono esclusi dalla spartizione della terra, e quindi da qualsiasi possibile forma di possesso materiale e terreno, perché possano diventare loro stessi, scrive Ambrogio, proprietà del Cielo.

Diventano allora non tollerabili nella vita del sacerdote le divisioni: ogni forma di possesso diventa infatti un’occasione per essere posseduti, per diventare in qualche modo schiavi delle cose che si possiedono. E’ da qui che derivano gli affanni umani, le preoccupazioni mondane, e tutto ciò esercita una forza negativa sul cuore del “levita”.

Ci accorgiamo subito come questa riflessione, elaborata da Ambrogio per la vita dei suoi preti, è del tutto pertinente anche con la vita delle persone consacrate: l’idea ambrosiana del “levita” come di colui che su questa terra non ha alcun vero possesso o tesoro se non in Dio che per sé lo ha scelto in maniera esclusiva, si adatta perfettamente anche a chi, attraverso la professione religiosa, si è consacrato totalmente a Dio nei tre voti evangelici di povertà, castità e obbedienza.

Comunque tutti, sacerdoti e religiosi, devono stare attenti – continua Ambrogio – che il loro cuore non si sbilanci troppo verso le cose di questo mondo, ma conservi quel particolare equilibrio per cui, pur vivendo immerso nel mondo e pur dovendo usare delle cose di questo mondo, non si lascia possedere da queste stesse cose: il loro è un cuore già posseduto da Dio.

Ma qual è il segnale d’allarme che indica che questo equilibrio si sta rompendo, che l’ago della bilancia sta pendendo dalla parte sbagliata? Con Ambrogio potremmo rispondere così: quando il cuore di un prete diventa inquieto sempre e solo per le cose di questo mondo, per gli affari materiali, vuol dire che si sta alterando il giusto rapporto con la propria vocazione; se il pensiero fisso che guida i suoi desideri, i suoi progetti, le sue determinazioni, è sempre rivolto alle preoccupazioni per le realtà di questa terra, è inevitabile che diventi ansioso, insoddisfatto, preoccupato, distratto. Ecco allora il quadro psicologico di una persona interiormente divisa fra quel che dovrebbe essere (essere per Dio, anzi essere di Dio) e quel che di fatto è (essere per il mondo e per le cose di questo mondo).

Siamo chiamati allora a salvaguardare e conservare l’unità profonda della propria personalità di persone dedicate a Dio. Non dimentichiamo che l’insidia – afferma Ambrogio – non viene solo da fuori di noi (le cose di questo mondo e le preoccupazioni e le ansie che ne conseguono), ma anche da dentro di noi, da noi stessi.

Ambrogio è molto realista e chiama le cose con il loro nome, mettendo a nudo quelli che sono i rischi più ricorrenti anche nella vita del ministro di Dio. Ci offre allora una brevissima lista di difetti davanti ai quali dobbiamo riconoscere di essere più fragili e più facili a cedere. Ne parla però al positivo, proponendo cioè il modello della persona matura, che sa tenere a freno questi squilibri e non si lascia da essi dominare: tiene in mano se stesso, è veramente “autonomo” (segno della autentica libertà, direbbe san Tommaso d’Aquino).

Ascoltiamo ancora una volta le parole di sant’Ambrogio : «“Mia parte di eredità – si dice – è il Signore” (Salmo 118,57). Oh, quanto sono pochi sulla terra quelli che possono dire: “Mia parte di eredità è il Signore!”. È veramente estraneo al vizio, è veramente lontano da ogni infezione di peccato l’uomo che non ha niente da spartire con questo mondo, che nulla di questo mondo rivendica per sé, che non acconsente alle cupidigie del corpo, che la passionalità non infiamma, l’avidità non eccita, la dissolutezza non infiacchisce, la lussuria non guasta, l’ambizione non atterra, l’invidia non corrode; che nessuna preoccupazione di faccende mondane rende ansioso. Questo è il vero ministro dell’altare, nato per Dio e non per se stesso. Il nome Levi infatti, secondo l’interpretazione etimologica, significa: Egli è stato per me scelto; significa anche egli è mio, ... egli è stato scelto per me» (Commento al Salmo 118, VIII,3).

Seguendo sempre la riflessione di Ambrogio, dobbiamo rilevare che dopo il legame con il mondo e con se stessi, c’è un terzo legame che il levita deve saper recidere, se vuole essere totalmente di Dio: quello degli affetti familiari. Il vescovo di Milano ne parla in maniera esplicita quando afferma testualmente: «Chi ha Dio come possesso a lui assegnato, non deve curarsi d’altro che di Dio, per non essere ostacolato dagli obblighi di qualche altro legame. Ciò che si dedica ad altri impegni viene sottratto al culto religioso e a questo nostro dovere. Questa è la vera fuga dal mondo per un sacerdote, la rinuncia agli affetti domestici e, in un certo qual senso, il distacco da ciò che gli è più caro, sicché chi veramente desidera servire Dio, deve negarsi ai suoi familiari... Perciò il ministro del santo altare di Dio è uno che fugge i suoi» (La fuga dal mondo, 7).

Il sacerdote è “uno che fugge i suoi”! È indubbiamente una proposta molto ardua. In fondo la rinuncia al mondo e a se stessi, se anche sono difficili da tradurre in pratica, sono immediatamente evidenti dentro l’orizzonte della scelta esclusiva per Dio. Ma nel caso degli affetti familiari ci sentiamo spesso autorizzati a fare alcune distinzioni, a modulare in maniera diversa questa esigenza così radicale, totalizzante. Forse proprio per questo Ambrogio porta l’esempio di Cristo stesso, il vero “Levita”, e cita l’episodio evangelico in cui il Signore prende le distanze dai suoi familiari, riconoscendo come unico legame di parentela quello che è generato dall’ascolto e dall’accoglienza della Parola di Dio: «Chi sono mia madre e i miei fratelli? Sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (cfr Matteo 12,48-50; Luca 8,21).

Anche in questo caso, soprattutto in questo caso, ciò che Ambrogio dice dei ministri di Dio vale a maggior ragione per le anime consacrate, che della rinuncia al mondo, a se stessi e alla famiglia hanno fatto la loro peculiare ragione d’essere.

Tutto noi abbiamo in Cristo

Fin qui Ambrogio, nel delineare la spiritualità levitica del ministro sacro, ha messo l’accento sugli aspetti di rinuncia (al mondo, a sé stessi, ai propri familiari). Ma la rinuncia non è mai fine a se stessa, bensì mira a una acquisizione positiva: «Il levita rinuncia a tutto, per restare solo – conclude Ambrogio –, ma non è solo se Cristo è con lui!» (La fuga dal mondo, 7). L’aspetto positivo ed esaltante della scelta esclusiva per il Signore è dunque Cristo stesso, è la persona viva e concreta di Cristo, è la comunione d’amore con lui.

In uno degli scritti sulla verginità (De Virginitate, 99) Ambrogio ci ha conservato una specie di inno nel quale in maniera poetica, ma con grande profondità spirituale e dottrinale, afferma che “Cristo è tutto per noi”. Ascoltiamo le sue parole:

Tutto noi abbiamo in Cristo. Ogni anima si accosti a Lui.
Se anche è malata per i peccati del corpo,
se anche è inchiodata dai desideri mondani,
oppure è ancora imperfetta,
ma sulla via della perfezione grazie all’assidua meditazione,
o se anche qualche anima è già perfetta per le sue numerose virtù,
ogni cosa è in potere del Signore,
e Cristo è tutto per noi.
Se vuoi curare una ferita, egli è il medico;
se sei riarso dalla febbre, egli è la fonte;
se sei oppresso dall’iniquità, egli è la giustizia;
se hai bisogno di aiuto, egli è la forza;
se temi la morte, egli è la vita;
se desideri il cielo, egli è la via;
se fuggi le tenebre, egli è la luce;
se cerchi cibo, egli è l’alimento.
Cristo è tutto per noi!

Sia per il prete, il “levita”, sia per la persona consacrata, davanti a Cristo ogni altra cosa inevitabilmente si ridimensiona, perde consistenza, si svuota; le stesse rinunce perdono il loro aspetto doloroso e mortificante, perché si tratta di rinunciare sì a qualcosa, ma per ottenere qualcosa di più prezioso ancora. Dio stesso, Cristo stesso, è la nostra parte di eredità, come dicono i testi biblici sulla condizione dei leviti: Dio stesso, Cristo stesso è il nostro possesso, è il nostro tesoro, è il nostro “tutto”, l’insuperabile.

C’è una pagina del vangelo che tutti conosciamo ed è quanto mai eloquente ed emblematica: è la pagina delle due piccolissime parabole del tesoro nascosto nel campo e della perla preziosa (cfr. Matteo 13,44-46). In entrambi i casi l’uomo della parabola vende tutti i suoi averi, cioè rinuncia a tutto quello che ha, per poter ottenere il campo con il tesoro o acquistarsi la perla preziosa. E il tesoro o la perla così ottenuti ripagano in pienezza – anzi in sovrabbondanza - la perdita di tutti gli altri beni, per i quali non deve esserci dunque rimpianto alcuno.

Se Cristo è con me – sembra dire sant’Ambrogio ai suoi preti e alle persone consacrate –, se Cristo è tutto per me, ogni rimpianto per il mondo, per me stesso, per i miei familiari, per le cose che si sono lasciate, non solo sarebbe stoltezza, ma anche ingratitudine, sarebbe incapacità e miopia nel valutare le cose per quel che veramente valgono, cioè nulla in confronto a quel tesoro prezioso, a quella perla inestimabile che è appunto la persona di Cristo per la nostra vita: ora e per l’eternità.

Ascoltiamo ancora una volta direttamente sant’Ambrogio che ci parla: «Il Levita non possiede nulla di suo, a nessun altro presta il suo servizio se non a Dio. La sua parte di eredità trascende la terra; la terra non gli manca, il mare non lo limita. L’uomo che ha Dio come sua parte di eredità, è padrone di tutta la natura. Al posto di poderi, basta lui a se stesso, perché ha una rendita che non può mai esaurirsi. Al posto di case gli basta di essere lui stesso dimora del Signore e tempio di Dio, di cui nulla può esserci di più prezioso. Infatti che cosa c’è di più prezioso di Dio? ... Cristo è la tua parte di eredità, Cristo è la tua proprietà. Il suo nome è la tua rendita, il suo nome è il tuo usufrutto, il suo nome è il tuo gettito di tributi» (Commento al Salmo 118, VIII,14-15).

Possiamo così riassumere questo primo punto della nostra conversazione: la cosiddetta spiritualità levitica, come è presentata negli scritti di Ambrogio, è tutta giocata su questa doppia e reciproca relazione: il ministro di Dio è proprietà esclusiva di Dio; ma a sua volta Dio e Gesù Cristo (il suo “nome”, cioè la sua persona, la sua Parola, il suo Vangelo) sono l’eredità preziosa e perenne del levita. Essere proprietà di Dio significa non vendersi a nessun altro; avere Dio come propria eredità vuol dire non permettere a nessun altro di riempire la nostra vita. Sta qui la massima “libertà” e perciò stesso la massima “gioia” che possiamo sperimentare.

La vita consacrata come “religio”

Passiamo ora al secondo punto che riguarda in modo specifico la vita consacrata. In una parola il concetto che sintetizza l’insegnamento di Ambrogio al riguardo è quello anticipato all’inizio: il concetto di religio.

Saremmo tentati di tradurre immediatamente questa parola latina con religione, e in un certo senso è esatto. In realtà si tratta di una nozione molto più ricca, tanto che Ambrogio la usa per decifrare il centro, il cuore vivo e palpitante, il segreto incandescente della verginità consacrata.

Religio deriva da religare, nel senso letterale di legare assieme, congiungere, stringere. Normalmente questa parola è usata per indicare il particolare legame che unisce il sacerdote a Dio, soprattutto quando compie un atto di culto.

Ma, in maniera analoga, anche la vergine, attraverso la sua consacrazione, esercita una vera e propria funzione sacerdotale, perché il suo voto di verginità la lega indissolubilmente a Dio in un rapporto religioso infrangibile.

La vita consacrata come “sacerdotium castitatis”

Sant’Ambrogio usa un linguaggio affascinante, che ci incuriosisce e ci stupisce, parlando a questo proposito di sacerdotium castitatis. Potremmo tradurre così questa espressione: «un servizio sacerdotale che si esplica nella castità e nella verginità, nella consacrazione religiosa». E questo significa che la vita consacrata, attraverso l’esercizio dei tre voti evangelici, non è semplicemente una vita costruita sulle virtù ascetiche (della povertà, castità, obbedienza): anche questo ovviamente. Ma essa è, soprattutto e specificamente, un sacerdotium, una religio, una scelta religiosa, nel senso etimologico della parola, perché dice e attua un legame con Dio e nel contempo si configura come offerta di se stessi e della propria affettività a Dio in spirito di totale oblatività.

C’è un’inconfondibile novità propria della verginità cristiana. Questa non può essere assimilata a scelte solo apparentemente identiche dal punto di vista materiale (ad esempio l’astensione dal matrimonio e dall’esercizio della sessualità, la vita povera, una vita in comune o di fraternità), che possono trovarsi anche in altre religioni o in alcune concezioni filosofiche della vita. La vita consacrata cristiana ha un suo proprium: in quanto esprime innanzitutto un legame particolare con Dio, essa nasce dall’atteggiamento religioso della fede, è risposta a un dono di grazia. E’ sì un’iniziativa umana nella quale sono coinvolti la nostra mente e il nostro cuore, la nostra cosciente e libera, ma sempre e solo come risposta di fede a una iniziativa di Dio, attraverso la quale è Dio stesso che chiama a questo stile di vita (attraverso il mistero della vocazione) e sostiene con il suo amore preveniente e permanente la nostra risposta.

Questo vincolo, questo legame, non ha di per sé nulla di giuridico: infatti, se alla sua origine troviamo e riconosciamo l’amore di Dio che chiama e l’amore della creatura che risponde, il rapporto religioso fra Dio e la vergine consacrata assume le caratteristiche di un rapporto di amore sponsale.

Ambrogio è uno dei primi Padri della Chiesa antica ad applicare il Cantico dei Cantici al rapporto tra Cristo e l’anima consacrata. Tra i molti testi, ne citiamo uno solo, nel quale il santo si rivolge alla vergine e la esorta con queste parole: «Anche se tu dormi, Cristo viene, purché riconosca la devozione della tua anima: egli picchia alla tua porta e dice: “Aprimi, o mia sorella (cfr. Cantico 5,2). Giustamente dice: “sorella”, perché le nozze del Verbo con l’anima sono spirituali. ... “Aprimi”, Egli dice, ma chiudi agli estranei. Chiudi al secolo, sì, chiudi al mondo... Aprimi, dunque, ma non aprire al nemico e non dar posto al diavolo. Apriti a me, tu stessa, non restringerti, ma dilatati e io ti riempirò. E poiché io ho percorso tutto il mondo ... e non ho trovato facilmente un luogo in cui riposarmi, proprio per questo motivo tu devi aprirmi, affinché il Figlio dell’uomo pieghi il suo capo su di te: Egli non ha pace se non su chi è umile e mansueto (cfr. Isaia 66,2)» (Isacco o l’anima, 51).

Ma il tema della religio, cioè del rapporto religioso dell’anima consacrata con Dio, del suo legame sponsale a Dio, permette ad Ambrogio di mettere in evidenza un aspetto particolare che è importante sottolineare. Infatti il rapporto sponsale in sé per un’anima consacrata potrebbe essere ambiguo, perché nell’esperienza puramente umana, esso suppone una qualche parità nelle due volontà che si incontrano, quella dello sposo e quella della sposa. Invece quando si tratta del rapporto religioso con Dio, non è possibile parlare di uguaglianza fra le due parti, né si può propriamente parlare di contratto.

È l’amore di Dio innanzitutto che lega a sé la creatura, la quale è chiamata allora in primo luogo a riconoscere con sentimento di gratitudine e di adorazione la disponibilità di Dio nei nostri confronti, la sua condiscendenza, la sua volontà a legarsi a noi in un patto infrangibile, in un’alleanza incrollabile. Solo in un secondo momento c’è la risposta della creatura umana, c’è la nostra corrispondenza all’amore di Dio: dal momento che l’amore di Dio verso di noi è gratuito e sconfinato, non possiamo che rispondere legandoci a lui con un amore che cerca di essere, per quanto ne siamo in grado, altrettanto totalizzante.

La scelta di vita consacrata è appunto un modo, forse quello più alto e più impegnativo, per esprimere nella nostra esistenza la realtà della religio, per legarsi in totalità a Dio come risposta al legame sponsale che Dio ha voluto per primo stringere con noi.

Il sigillo: la perfetta conformazione a Cristo

Ma Ambrogio ci invita a procedere e cogliere il senso della consacrazione nella concretezza del nostro vissuto quotidiano, dunque in rapporto alle nostre decisioni e scelte, ai nostri comportamenti e gesti di ogni giorno. E’ in questione sempre il rapporto “religioso”, il rapporto “sponsale” che viene a crearsi tra l’anima consacrata (e noi potremmo aggiungere, a questo punto, anche l’anima sacerdotale) e Gesù Cristo: questo rapporto si esprime, diventa “carne e sangue” della nostra vita con la perfetta conformazione del credente a Cristo stesso.

Ambrogio usa a questo proposito l’immagine del “sigillo”, un’immagine che egli prende dal Cantico dei Cantici Ecco i versetti biblici che più direttamente ci interessano: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo» (8,6- 7).

La tradizione della Chiesa e la liturgia ha sempre messi questi versetti in collegamento proprio con la vita consacrata, per indicare che il legame stretto (la religio) tra Cristo e l’anima consacrata è un rapporto infrangibile, perpetuo ed eterno. Solo che nella Bibbia questi versetti sono riferiti alla sposa, che esprime così il suo desiderio di essere sempre legata al suo sposo. Ambrogio invece li capovolge: non è la sposa a essere “sigillo” sul braccio e sul cuore dello sposo, ma è lo Sposo celeste, è Cristo stesso, che è il nostro “sigillo”, il marchio indelebile nell’anima che a lui si consacra.

Ambrogio ha una pagina bellissima al riguardo: anche in questo caso è una specie di inno poetico, nel quale la poesia si arricchisce di spiritualità e di dottrina.

«“Mettimi come segno nel tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio” (Cantico 8,6).
Cristo è il sigillo sulla nostra fronte, è il sigillo nel nostro cuore:
sulla fronte, perché sempre lo professiamo;
nel cuore, perché sempre lo amiamo;
Egli è il sigillo sul braccio,
perché sempre operiamo.
Risplenda, dunque, la sua immagine nella nostra professione di fede,
risplenda nel nostro amore,
risplenda nelle opere e nei fatti,
in modo che, se possibile, la persona di Cristo sia riprodotta totalmente in noi.
Sia Lui la nostra testa,
perché la testa dell’uomo è Cristo (1Corinti 11,3);
sia Lui il nostro occhio,
perché per mezzo di Lui possiamo vedere il Padre;
sia Lui la nostra voce,
perché per mezzo di Lui possiamo parlare al Padre;
sia Lui la nostra mano destra,
perché per mezzo suo possiamo portare al Padre il nostro sacrificio.
Egli è anche il nostro segno,
è il distintivo di perfezione e di amore,
poiché il Padre ha segnato con il suo segno il Figlio che amava.
L’amore nostro, dunque, è Cristo» (Isacco o l’anima, 75).

Una breve meditazione sul “sigillo”, che è Cristo

Desidero ora tentare un piccolo commento delle parole di Ambrogio, cercando di estrarvi quelle indicazioni di vita spirituale che meglio possono adattarsi alla vita di un consacrato, alla vita di un prete, anzi alla vita di ogni cristiano.

Non è un caso – credo – che questo testo riporti tre volte il nome del Signore Gesù Cristo. Lo fa all’inizio: Cristo è il sigillo sulla nostra fronte, è il sigillo nel nostro cuore; al termine: L’amore nostro, dunque, è Cristo; e al centro, dove troviamo la frase più importante, l’idea “centrale”: la persona di Cristo sia riprodotta totalmente in noi.

Il brano si struttura logicamente in due parti, sulle quali sviluppiamo una breve meditazione.

Nella prima parte, Ambrogio rimarca l’idea che il sigillo, il segno di cui parla il Cantico dei Cantici è la persona stessa di Cristo, un sigillo che la Sposa (cioè l’anima credente e consacrata) deve imprimere su di sé. Innanzitutto deve imprimerlo sulla fronte, cioè nella mente, così che Cristo sia l’oggetto esclusivo della nostra professione di fede, come atto di assenso a Lui, alla sua Parola, al suo Vangelo. Poi deve essere impresso nel nostro cuore, perché Cristo sia l’oggetto esclusivo del nostro amore; ed infine deve essere impresso sul nostro braccio, che sta ad indicare l’agire, perché Cristo sia di fatto e di diritto al centro delle nostre azioni.

Mente, cuore e braccio: indicano simbolicamente la professione di fede, l’amore e l’azione. Ebbene, su tutto ciò resta impressa come con un sigillo la presenza del Signore Gesù, in modo che la sua persona, la sua parola, il suo insegnamento vengano perfettamente riprodotti in noi, “fotocopiati” con e nella nostra vita.

Come si vede la meta proposta è altissima e vertiginosa e viene spontaneo chiederci se non è sproporzionata alle nostre forze e alle nostre possibilità di semplici creature umane. Non per nulla Ambrogio aggiunge un prudente: se possibile! Ma senz’altro, come ci insegnano e ci dimostrano i santi, con la grazia di Dio che sostiene il nostro impegno, è possibile “riprodurre” nella propria vita di consacrati, di preti e di credenti la fisionomia di Cristo, nella misura in cui l’adesione al suo Vangelo diventa l’elemento che dà forma e sostanza all’esistenza di ogni giorno.

Nella seconda parte del testo di Ambrogio troviamo una serie di quattro imperativi, quattro esortazioni: sono il “codice” del consacrato e del prete che vuole conformarsi totalmente al Signore Gesù.

Sia Lui, Cristo, la nostra testa: il vero credente – sembra dirci Ambrogio – non ha più una sua testa con cui pretendere di ragionare autonomamente secondo i propri criteri, ma ha Cristo come criterio e come parametro di ragionamento, ha Cristo come “capo”, come elemento direttivo della propria vita.

Sia Lui, Cristo, il nostro occhio: il credente – sembra dirci Ambrogio –, se vuole vedere come stanno veramente le cose, se vuole percepirle secondo l’angolatura giusta, deve guardarle e giudicarle come le vede e le giudica Cristo. Se ci affidiamo al modo di vedere e di giudicare puramente umano, avremo sempre una visione sfuocata rispetto ai valori ultimi, saremo sempre in qualche modo miopi, incapaci di vedere lo sfondo, l’orizzonte della vita che dà senso a tutto ciò che vi è contenuto. Solo con gli occhi di Cristo (anzi: solo con Cristo che è il nostro occhio) abbiamo la possibilità di vedere il Padre, cioè di percepire che è la presenza di Dio Padre a dare consistenza, senso e gioia a quanto con i nostri poveri occhi vediamo attorno a noi.

Sia Lui, Cristo, la nostra voce: il credente – sembra dirci Ambrogio –, se vuole parlare con il Padre, se vuole esprimere parole sensate, deve pronunciare non parole qualsiasi, ma la Parola, il Verbo, Cristo stesso. Potremmo riflettere a questo proposito sul ruolo della Parola di Dio nella vita dell’anima consacrata e in modo ancor più particolare nella vita del prete, come sigillo che segna in maniera permanente e indelebile la nostra voce, nel senso che la nostra voce di consacrati e di preti dovrebbe far risuonare l’unica parola sensata che per l’appunto è la parola di Dio, che è Cristo stesso, nella misura in cui in Lui troviamo quanto il Padre ha voluto comunicarci in maniera chiara, perfetta e definitiva.

Sia Lui, Cristo, la nostra mano destra: e qui ci aspetteremmo l’applicazione all’agire umano, alle opere, di cui il braccio è simbolo. E invece Ambrogio ci propone un’applicazione che non ci aspetteremmo: Sia Lui la nostra mano destra, perché per mezzo suo possiamo portare al Padre il nostro sacrificio. Dall’agire, inteso come l’insieme della normale attività quotidiana, frutto della nostra mente e del nostro braccio, Ambrogio passa direttamente all’azione di culto, all’offerta del sacrificio, al rapporto “religioso” che ci lega a Dio Padre con un atteggiamento di oblazione, di offerta,l di consacrazione. A ben guardare le due cose non sono fra di loro contrapposte, anzi, sono l’una conseguenza dell’altra. Infatti, nella misura in cui sulle nostre azioni quotidiane, cioè sul nostro braccio, è impresso il sigillo che è Cristo, è impressa l’immagine del Vangelo, nel senso che le nostre azioni sono registrate sul Vangelo e trovano in esso il proprio punto di riferimento, di ispirazione e di giudizio, in questa stessa misura esse diventano anche vera azione di culto, diventano il nostro quotidiano sacrificio, la nostra oblazione al Padre, la sostanza della nostra preghiera.

E quando ci presentiamo al Padre per offrire il sacrificio, per celebrare l’azione liturgica, essa risulta coerente con la vita, perché la mano che si protende nella preghiera e nell’offerta porta lo stesso sigillo, la stessa forza ispirativa che marchia il braccio con il quale abbiamo agito e operato nelle nostre incombenze quotidiane.

L’immagine biblica del sigillo per sant’Ambrogio serve dunque per formare in noi una profonda unità di azione, di pensiero, di atteggiamento religioso, di disposizione matura al giudizio e al discernimento, di capacità nell’esprimersi sempre e solo come discepoli di Cristo.

Sia Lui, Cristo, il nostro distintivo di perfezione! In conclusione, come cristiani, ma soprattutto come preti e come consacrati, non abbiamo altri segni di riconoscimento, altri distintivi, altre divise più eloquenti che la sua immagine impressa nella nostra vita, non abbiamo altro criterio di identità se non la conformazione il più possibile perfetta alla sua persona e al suo Vangelo.

Di questa “conformazione”, più di ogni altra cosa, ha bisogno la Chiesa: anche la nostra Chiesa, oggi. Ha bisogno il mondo perché possa avere ragioni di speranza!


+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano

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Mozambico. Non è mediatica, ma è una guerra

Una regione del Paese africano alla mercé della guerriglia islamista C’era ottimismo a Maputo, la capitale mozambicana. La guerriglia a Cabo...

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

15-07-2024 Missione Oggi

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

La Corte di Giustizia dello Stato del Paraná (Brasile) ha tenuto dal 3 al 5 luglio l'incontro sulla Giustizia Riparativa...

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

14-07-2024 Missione Oggi

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

I rappresentanti dei popoli nativi dell'Amazzonia peruviana, insieme ai missionari, si sono riuniti nella Prima Assemblea dei Popoli Nativi, che...

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

13-07-2024 Notizie

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

La comunità di Casa Generalizia a Roma festeggerà, il 18 luglio 2024, il 25° anniversario di ordinazione sacerdotale di padre...

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

13-07-2024 Allamano sarà Santo

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

L'11 maggio 1925 padre Giuseppe Allamano scrisse una lettera ai suoi missionari che erano sparsi in diverse missioni. A quel...

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

11-07-2024 Allamano sarà Santo

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

In una edizione speciale interamente dedicata alla figura di Giuseppe Allamano, la rivista “Dimensión Misionera” curata della Regione Colombia, esplora...

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

10-07-2024 Domenica Missionaria

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13 La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata...

"Camminatori di consolazione e di speranza"

10-07-2024 I missionari dicono

"Camminatori di consolazione e di speranza"

I missionari della Consolata che operano in Venezuela si sono radunati per la loro IX Conferenza con il motto "Camminatori...

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