Nuove forme del ministero della guarigione in Africa

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La chiesa cattolica in Camerun

L’incurabile desiderio di guarire che abita ogni uomo non si è mai manifestato così bene come oggi! È un effetto della globalizzazione? I media lo rendono un fenomeno universale. Si viene a sapere che l’idea fissa della salute da ricevere o da conservare s’impone ovunque con la forza di un’ossessione. I segni sono numerosi. In libreria le opere sulla salute occupano i primi posti sugli espositori. Non c’è luminare della medicina che non pubblichi un libro sulla sua pratica. Le teologie della guarigione fioriscono soprattutto nei paesi anglosassoni ma, evidentemente, l’Africa non fa eccezione. Non si tratta del fatto che essa voglia semplicemente seguire la moda e associarsi a tutto quanto abbia a che fare con la globalizzazione; si tratta piuttosto del suo interesse mai smentito e sempre attuale per la salute, che è elemento fondamentale della sua cultura.

A parlare di Africa al singolare si rischia il ridicolo, se si pensa alle sua immensa varietà. Tuttavia, per quanto riguarda la salute, gli stessi riferimenti culturali – ho potuto constatarlo nel corso dei miei viaggi – ricorrono
da Dakar a Capo di Buona Speranza. Bisogna però intendersi su cosa voglia dire “salute”. Il presente articolo cerca di mostrare che la chiesa cattolica, nei suoi principi come nella pratica del ministero della guarigione, ha sempre giustificato la ricerca della salute, ma essa adotta sempre più la concezione diffusa in Africa. Così, in quest’ambito si realizza una certa inculturazione della fede, invero più inavvertitamente che volontariamente. Prenderò l’esempio della chiesa in Camerun, sapendo che molti dei tratti studiati qui si ritrovano negli altri paesi del continente.

Fin dall’origine della missione, diciamo dalla fine del XIX secolo, la chiesa cattolica ha attribuito un posto importante al ministero della salute. E le pratiche attuali che hanno un carattere di novità non hanno affatto dissolto quella che si potrebbe definire la maniera tradizionale di esercitare tale ministero. La novità consiste tuttavia in una più stretta coincidenza, che talvolta giunge fino alla fusione, fra la dimensione detta “spirituale” di
tale ministero e il risultato ricercato, ossia la guarigione propriamente detta. Per tal verso, la pratica della chiesa si accorda con un’intuizione profonda della popolazione. In altri termini, stavolta teologici, si potrebbe dire che il vocabolario della guarigione tende a sovrapporsi o a raccordarsi a quello della salvezza dell’uomo.


I/ LA PERSISTENZA DEL MINISTERO TRADIZIONALE DELLA GUARIGIONE

Un tale ministero è sempre stato praticato e lo è ancora e, molto verosimilmente, lo rimarrà nell’avvenire, sotto forme complementari, ma ben distinte: nell’esercizio della pratica medica e nell’assistenza spirituale ai malati. Consideriamole da vicino.

1/ Nell’esercizio della pratica medica

L’annuncio del vangelo operato dai missionari in Camerun, come quasi ovunque nel resto del continente, è stato strettamente collegato alle pratiche sanitarie. Alcuni hanno denunciato in questa pratica umanitaria una tattica per fare proselitismo. Senza negarlo – perché la missione, come ogni iniziativa, ha una strategia ordinata a dei fini – l’attività medica della chiesa era pure e finanche prioritariamente ispirata dalla compassione per i malati. Non senza ragione in lingua douala le religiose missionarie erano già al loro arrivo chiamate bito ba ndedi, alla lettera “donne di pietà”, un’espressione dal senso duplice: le donne che fanno pietà (perché non hanno figli!) o le donne della misericordia. Era però in questo secondo senso che l’espressione veniva intesa tanto dai cristiani che dai non cristiani. Tale attività tradizionale perdura attraverso istituzioni mediche proprie, il lavoro del personale sanitario cattolico negli ospedali statali e anche nell’ambito della medicina tradizionale africana, quando i praticanti sono, si dicono e si vogliono cristiani. Questa terza categoria di sanitari cristiani veniva spesso nascosta, se non proscritta dalla chiesa. Oggi costoro godono di un qualche riconoscimento, tanto che l’11 dicembre 2005 due attori della medicina tradizionale sono stati invitati a partecipare alla Giornata dell’amicizia dei professionisti cattolici della Sanità al centro Giovanni XXIII di Yaoundé, alla presenza di mons. Adalbert Ndzana, vescovo responsabile della pastorale sanitaria designato dalla Conferenza episcopale: si tratta di una novità che andava segnalata.

Qualsiasi attività terapeutica merita, se praticata da un cristiano, l’appellativo di ministero della guarigione? Rispondere affermativamente significherebbe conferire un senso troppo vago all’espressione. Invece si dà, mi sembra, ministero della guarigione, se un battezzato è cosciente di esercitare la sua professione in quanto cristiano, nella consapevolezza di prolungare l’opera del Cristo guaritore e salvatore. Tale funzione mistica è, per così dire, maggiormente visibile quando il medico o l’infermiere è religioso, cioè consacrato, e, ancor più, se esercita la propria arte in un’istituzione della “missione cattolica”. A giusto titolo, però, molti laici cristiani considerano il proprio “dovere di stato” di sanitari come un “ministero” di guarigione, anche se non utilizzano quell’espressione. Così il dott. Paul Aujoulat, pensatore cristiano e cattolico praticante, fondatore negli anni Cinquanta della catena ospedaliera Ad lucem, aveva coscienza della dimensione caritativa della propria opera e la considerava come un “ministero”. Va qui sottolineato che il fatto di dichiarare l’appartenenza di un
ospedale alla “missione cattolica” non è privo di conseguenze sull’efficacia delle cure, a tal punto i malati e le loro famiglie sono sensibili al carattere sacro di quanto ha a che fare con la salute. Ne deriva una certa tensione fra i pazienti che desiderano che la dimensione religiosa dell’ospedale appaia più pronunciata e il personale della struttura che teme di essere accusato di proselitismo.


2/ Nell’assistenza spirituale ai malati


Compreso come assistenza spirituale e non come attività terapeutica, il “ministero” viene allora concepito come una forma d’accompagnamento di persone che soffrono. Molteplici e diverse sono le pratiche: visite ai malati, preghiere per gli infermi in loro presenza o meno, distribuzione di opuscoli, movimenti specializzati nell’assistenza a chi soffre... Si condivide col malato la sua speranza di guarire, si prega in tal senso, ma con un certo ritegno: per il cristiano la guarigione non è un fine in sé. Per esempio, in Camerun la «Legione di Maria», un movimento spirituale ereditato dai missionari irlandesi, lascia grande spazio al ministero dell’assistenza ai malati.

Al cuore di tale ministero sta il “sacramento dei malati” che, prima del concilio Vaticano II, era definito “sacramento dell’estrema unzione” e di cui i fedeli sono risolutissimi a beneficiare. Tra il modo in cui viene presentato al catechismo e l’interpretazione che ne danno i nostri fedeli vi è una sfasatura, rilevante per questo nostro studio. Secondo la catechesi ufficiale, tale sacramento trova posto fra i sette sacramenti che, tutti insieme, investono la globalità della vita del cristiano. La chiesa, si insegna, in un certo senso è “il Sacramento” – cioè il segno visibile ed efficace dell’azione di Dio tra noi – e l’assistenza a colui o a colei che
è gravemente provato nella propria carne e che è prossimo alla morte fa parte integrante della sua missione. Ne deriva la pratica abituale: il prete ascolta la confessione delle colpe del malato, gli impone le mani, gli pratica l’unzione con l’olio e gli comunica l’eucaristia alla presenza della famiglia. Come consiglia di fare l’apostolo Giacomo nella sua lettera: «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà» (Gc 5,13-15). Dal loro canto, la famiglia e il malato attendono però comunque da questo sacramento un effetto curativo. Quando il prete si assume l’onere di tornare dalla famiglia per sapere, a rito concluso, come la celebrazione sia stata vissuta dal malato e ai suoi prossimi, spesso gli accade di sapere che gli è stato attribuito il ritorno alla salute del fedele o, almeno, un miglioramento del suo stato di salute. Al punto che i preti, senza sempre domandarsene il perché, sono spesso convinti dell’efficacia terapeutica del rito e si vanno sempre più facendo meno scrupoli nel riconoscerla.

II/ L’EMERGERE DI NUOVE FORME DI MINISTERO DELLA GUARIGIONE

Si tratta di forme davvero nuove? Lo sono per la tendenza a prendere in considerazione la salute propriamente detta dei malati in nome della fede e, più particolarmente, in nome della forza della preghiera. Lo sono pure per il rifiuto di separare il corpo e lo spirito, l’individuo e la comunità, la spiritualità e l’efficacia. La preghiera non è soltanto una modalità privilegiata di assistenza al malato: contribuisce, nei casi fortunati, alla sua guarigione. Tali orme non sono però nuove per l’intenzione che le anima: attualizzare l’opera di guarigione e salvezza di Gesù Cristo. La novità verrebbe dall’evoluzione dell’idea che ci si fa oggi della “salute”, più che da un cambiamento nella concezione del “ministero”.

1/ Un allargamento dell’idea di salute, di malattia e di guarigione

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) propone una definizione molto ampia della salute se la si confronta con quelle che avevano corso in precedenza. Secondo tale definizione, «la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale che non consiste semplicemente nell’assenza di malattia o di infermità»1. Non ci si poteva attendere dall’OMS che aggiungesse il “benessere spirituale” o “mistico”! La definizione è però caratteristica di una tendenza ad assimilare la salute a quella che in teologia verrebbe definita “salvezza temporale”. L’OMS si fa qui interprete di un’ampia corrente moderna che estende la salute
alla qualità della vita. «Le preoccupazioni relative alla salute», nota François Laplantine, «sono tanto importanti da finire col trasformarsi in scopo, fine e valore dell’esistenza»2. Stiamo senz’altro accedendo – e bisogna rallegrarsene? – a una cultura planetaria della salute. Tale allargamento del concetto di salute viene poi apostrofato con umorismo e profondità dal personaggio chiamato “il dottore” nel romanzo di Emile Ajar intitolato La vie devant soi [La vita davanti a sé], quando questi afferma: «La cosa più difficile da curare non è la malattia!».

Tale fenomeno sociale trova una prima spiegazione nel disincanto largamente condiviso nei confronti di una biomedicina ufficialmente ed esclusivamente organizzata per farsi carico della salute delle popolazioni, che si specializza sempre più soltanto nella cura del corpo organico. I risultati inauditi di questa medicina, o piuttosto della medicina, lasciano i beneficiari riconoscenti ma come frustrati, perché il corpo fisico non è tutto l’uomo. Da qui il fiorire di “medicine parallele” o “alternative”, compensative. Jean Laplantine ne ha enumerate quattrocento varietà solo in Francia...3. E Jean Benoist, iniziatore della nuova corrente definita “antropologia medica”, rivela quanto sarebbe sbagliato confinare le cure sanitarie alla biomedicina:

Contrariamente a quello che aveva immaginato una scienza sociologicamente ingenua, non basta l’apparizione della medicina moderna perché tutto quanto il resto scompaia: ovunque, quando si afferma, essa occupa uno spazio notevole, ma mai esclusivo, accanto alle altre pratiche. Anzi, queste continuano la loro propria vita, ossia si sviluppano negli interstizi che essa lascia vuoti. Si adattano, ma trovano un territorio esclusivo, formando poco a poco con la biomedicina un sistema complesso in cui circolano i malati.

Non va dimenticato che tale medicina, che per il medico è l’unica, non è la sola per il malato. Le relazioni di quest’ultimo col medico hanno luogo in seno a una costellazione di ricorsi in cui i comportamenti tradizionali si combinano con la medicina scientifica4.

È significativo che la definizione di salute dell’OMS sia stata ottenuta al prezzo di una dura lotta da parte dei delegati dei paesi africani. Ricavo l’informazione dal dott. Logmo, al tempo rappresentante del Camerun presso tale istituzione. In effetti, una concezione globale della salute corrisponde maggiormente alle culture africane, per cui un individuo non è malato da solo e soltanto nel corpo, ma in tutto il suo essere, in relazione alla famiglia e al cosmo. “Guarire” significa ritrovare il proprio preciso posto nel proprio micro-universo, un posto che era stato indebitamente sottratto da degli aggressori5. Per tradurre in italiano in un contesto africano la malattia di uno solo, la parola più calzante sarebbe “sintomo” piuttosto che malattia. Il sintomo di un mal-essere collettivo. Mediante questo puntuale riferimento alla concezione africana della salute si comprenderà perché l’allargamento mondiale dell’idea di guarigione è molto ben accolto nel nostro continente africano; e, di conseguenza, pure perché le nuove forme del “ministero di guarigione” fanno saltare le antiche barriere tra l’individuo e la comunità, l’anima e il corpo, a vantaggio della persona sociale considerata nella sua totalità.

2/ Il successo del rinnovamento carismatico

Per comprendere la popolarità del movimento del rinnovamento nella chiesa cattolica bisogna richiamarne rapidamente il profilo storico. Nel 1957 un gruppo di professori dell’Università di Duquesne, negli USA, fonda il “Movimento cattolico di pentecoste”. Si ispirava alle esperienze di preghiera riscontrate nelle chiese pentecostali per rivitalizzare una liturgia giudicata troppo fredda e rigida. Questa corrente, che incontra subito un grandissimo successo nella chiesa, riceve l’appoggio di Paolo VI a Roma nel 1975, nel corso di un gigantesco congresso degli aderenti. In Africa il movimento si è diffuso come fuoco nella savana. In Camerun, per fare solo un esempio, il movimento Ephphata, creato dal gesuita Meinrad Hebga, conta più di duecento gruppi e dispone anche di un luogo di riunione a Mandoumba, a 60 chilometri da Yaoundé, nei pressi di un’importante arteria stradale. La principale base dei gruppi detti di “rinnovamento carismatico” resta però la parrocchia. Il riferimento alla parrocchia è sempre più richiesto dai vescovi che intendono conservare il controllo di un movimento la cui origine non è cattolica e che ai loro occhi può determinarne uno spostamento ai margini rispetto alla chiesa nel suo complesso. È significativo a tale riguardo che i pensatori del pentecostalismo, come Alan H. Anderson, professore all’Università di Cambridge, integrino le statistiche di questo “nuovo movimento religioso” comprendendo i fedeli del rinnovamento cattolico, cosa che consente loro di affermare che le diverse denominazioni pentecostali superano numericamente l’insieme delle chiese protestanti storiche6.

Anche se i responsabili dei gruppi del rinnovamento, chiamati pastori, lo negano, la preghiera per la guarigione occupa un posto centrale nelle celebrazioni. Meinrad Hegba consiglia di non dedicare più del 10% del tempo previsto alle preghiere di guarigione. Sembra che tale percentuale venga il più delle volte superata a causa della pressione dei fedeli la cui “guarigione”, nel senso lato della parola, ne motiva principalmente la venuta. Nei grandi meeting animati dai leader del movimento di rinnovamento, come ieri Émile Tardif, prete canadese, o oggi M. Jean Pliya, universitario del Benin, appare evidentissimo che una parte dei partecipanti attende impazientemente il momento della preghiera nel corso della quale saranno annunciate e ottenute guarigioni. Un’attesa certo legittima, ma che richiede di essere sottoposta anch’essa al vaglio dell’analisi critica: non si attende forse dalla preghiera un’efficacia più miracolosa che medica, che essa non può assicurare?

3/ Le nuove forme del ministero spirituale della guarigione

La richiesta avanzata al prete di intervenire nell’ambito della salute (in senso lato e nel senso africano del termine) è oggi molto frequente e pressante. Non tutti i preti vi corrispondono e solo alcuni ne fanno un vero e proprio ministero permanente, ma tutti sono interpellati. La chiesa cattolica dispone di gesti rituali che assumono grande significato agli occhi dei fedeli e anche, per un numero consistente, efficacia terapeutica. Sono i “sacramentali”: l’acqua benedetta, l’olio santo, la benedizione degli oggetti religiosi e dell’abitazione. Sono riti che conoscono un gran favore popolare. Quando per la prima volta papa Giovanni Paolo II visitò il Camerun, trovò sotto la passerella, allineati in numero infinito, ogni sorta di recipienti – damigiane, barili, zucche cave – contenenti acqua da benedire. Prevedendo il fastidio del santo padre, mons. Jean Zoa, vescovo del luogo, egli stesso imbarazzato, lo invitò comunque a impartire una benedizione generale, che suscitò grande gioia nei fedeli. Ma la richiesta avanzata ai preti va al di là degli oggetti riconosciuti come ortodossi e concerne anche il sale, l’olio d’oliva, i grani di incenso e tutto quanto è passibile di benedizione agli occhi dei fedeli. Alcuni preti cedono alla richiesta, nonostante la riserva dei vescovi, altri rifiutano di sottostarvi.

In sé tale domanda è tradizionale nella chiesa. L’ambiguità piuttosto può risiedere nell’intenzione dei richiedenti. Come soddisfarli se costoro si attendono dal prete che li guarisca immediatamente, li protegga da quella che senza alcun discernimento è ritenuta “stregoneria”, arrechi per magia rimedio alle difficoltà della vita, consenta loro di sottrarsi allo sforzo – in una parola, che permetta di evitare il dovere cristiano di portare la propria croce? D’altro canto, la vita è diventata oggi così difficile che rifiutare un aiuto richiesto con tanta fede avrebbe qualcosa d’inumano e non sarebbe una reazione cristiana. È questo il dilemma innanzi al quale si trovano molti presbiteri. Credo che l’atteggiamento corretto non stia né nel rifiuto d’intervenire né nella cieca adesione alla richiesta, ma nel cammino da far percorrere ai cristiani: non accontentarsi di “rassicurare” le persone, ma provare a “strutturarle”, cioè condurle a impegnarsi nella cura di sé, per quanto ciò si possa fare, con l’aiuto di Dio. È ad ogni modo la via che cerco di seguire con molte persone angosciate, alle quali mancano insieme la salute e la pace interiore. Per spiegarmi faccio qui un esempio:

Una persona del vicinato, catechista in parrocchia, mi viene a trovare in circostanze disperate. È continuamente malata, suo marito non ha un lavoro e non riesce a pagare il fitto di casa, i suoi bambini passano notti popolate da incubi e le loro pagelle scolastiche ne risentono. La colpa è attribuita a una vicina che “ha un serpente”, ossia che pratica la stregoneria.

La persona che mi è venuta a trovare vive nell’angoscia. Istruito da numerosi casi simili, le consiglio di pregare la sera in famiglia per chiedere la protezione di Dio. Mi dice che lo fa già. Non deve, quando cala la sera, coltivare pensieri di vendetta contro la vicina. Controbatte che suo padre, anche lui catechista, le ha insegnato a non odiare nessuno. Allora mi arrischio a consigliarle di far visita alla sua vicina e di fare un gesto gentile nei suoi confronti. Gesù non aveva forse insegnato che bisogna amare i propri nemici? Impossibile, mi dice, un gesto del genere infatti la porterebbe a rinforzare i suoi poteri malefici. Mi sono spinto troppo oltre? Ed ecco che quella signora mi viene a trovare il mese successivo. Con mia massima sorpresa, confesso, ha superato la sua paura e ha deciso di invitare la vicina al suo compleanno. Quella è andata e, dopo la festa, ora ci si saluta, i bambini non hanno più incubi, anche lei si sente meglio. Rimane il marito disoccupato. Deve dirgli che l’ostacolo è superato, che deve uscire di casa per cercare lavoro. Non so se ha seguito il mio consiglio. Questa donna, però, non si è accontentata di rassicurarsi rifugiandosi nella preghiera. Oserei dire che si è “strutturata”, superando la propria paura. Fede ed efficacia terapeutica possono quindi talvolta andare di pari passo.

Per il momento, innanzi a queste nuove forme del ministero della guarigione, i vescovi africani sono abbastanza cauti, almeno nelle loro espressioni collegiali, giacché è evidente che ognuno può avere il proprio parere e la propria norma nella sua diocesi. Un tale riserbo collettivo si è manifestato in occasione del sinodo africano di Roma, se ci si riferisce al documento finale Ecclesia in Africa, proclamato da Giovanni Paolo II a Yaoundé, il 14 settembre 1995. Non vi compare alcuna menzione del “ministero della guarigione”! Come spiegare tale silenzio? Mancanza di interesse? Certamente no: ne fanno fede i documenti preparatori. Timore forse degli abusi? È possibile che il ministero della guarigione praticato da mons. Emmanuel Milingo, che ne ha determinato le dimissioni da arcivescovo di Lusaka, abbia generato preoccupazioni nella gerarchia7. Così come gli eccessi commessi qui e lì da preti che richiedevano denaro quale contropartita del loro ministero o moltiplicavano i riti di benedizione e di esorcismo in maniera intempestiva. Scrive René Luneau:

Alcuni, oggi, non sono lungi dal credere che l’avvenire del cristianesimo in Africa potrebbe giocarsi proprio su tale questione. Sia perché l’insicurezza aumenta un po’ ovunque, o perché la medicina occidentale perde d’importanza in assenza di una sua accessibilità da parte dei poveri, la medicina detta tradizionale riprende vigore e con essa il mondo delle rappresentazioni che l’accompagnano. Il clero non è il meno vulnerabile e qua e là si assiste al moltiplicarsi delle benedizioni e degli esorcismi che non fanno che confortare il popolo cristiano nelle sue paure ancestrali. La questione è seria e sfortunatamente il sinodo non le ha concesso lo spazio meritato8.

Mi sembra soprattutto che un consenso non sia ancora stato raggiunto tra i vescovi d’Africa sulla lmaniera di rispondere alle richieste dei fedeli.

Per quanto riguarda il Camerun, una svolta è prossima. In occasione della Giornata mondiale del malato, celebrata per la prima volta sul continente africano l’11 febbraio 2005, a Yaoundé, innanzi a una platea di autorità ecclesiali e mediche convenute dal mondo intero, è avvenuta una presa di coscienza. Sotto ’impulso di laici come il dott. Pierre Effa, principale organizzatore della Giornata, la chiesa locale intende impegnarsi maggiormente nelle opere sanitarie. È troppo presto per stabilire se essa incoraggerà le nuove forme del ministero della guarigione.

III/ CONCLUSIONE

La progressiva e ormai praticamente già assicurata assunzione di responsabilità della chiesa camerunese da parte dei Camerunesi fa, sotto la spinta della cultura, risalire alla superficie un’antica concezione della salute. Tanto i fedeli quanto i preti e i vescovi sono abitati dal desiderio di una guarigione che sia collettiva, globale e – se possibile – immediata. Quella cultura radicata che i missionari provenienti dall’estero avevano tendenza a rimpiazzare con la propria, tende nuovamente a imporsi. Si tratta di una corrente di inculturazione auspicata da tutti, ivi compresi gli ultimi missionari sopravvissuti – tra i quali mi metto anch’io –, e che conosce l’incoraggiamento della chiesa universale, come i papi degli ultimi tempi non hanno mai smesso di dire. Si tratta però di una pressione culturale che va da sé; resta da prenderne coscienza, da misurare la posta in gioco e da passare al regime di un’inculturazione pensata, guidata e orientata perché sia evangelica pur essendo africana. A tale riguardo, però, le riflessioni rimangono deboli. È come se si temesse di dare fiducia e far posto a una visione dell’uomo in società ereditata dagli avi. Essa, tuttavia, non ha niente d’obsoleto, perché concorda con l’attuale aspirazione mondiale: una medicina che tenga conto del
“corpo soggetto” o del “corpo proprio” dell’uomo invece che del corpo inteso come un oggetto da guarire, secondo una terminologia che dobbiamo a Paul Ricoeur9.

In questa ricerca di un giusto equilibrio del ministero della guarigione, conviene tornare alla fonte di ogni riflessione cristiana, cioè al vangelo. Accade che vi scorgiamo Gesù affrontare la nostra stessa situazione, con le stesse tensioni: bisogna corrispondere alla richiesta di guarigione come essa viene formulata? Bisogna rifiutarla e convertirla in domanda di salvezza? Come nell’episodio esemplare in cui un ufficiale romano viene a chiedergli di guarire immediatamente suo figlio; in un primo momento Gesù gli risponde: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (Gv 4,48). La qual cosa, però, non gli impedisce di corrispondere alla domanda di questo padre disperato e di guarire seduta stante suo figlio. Se ne ricava come una linea di condotta per chi pratichi il ministero della guarigione: essere sensibili a ogni legittima richiesta di guarigione, pur ben sapendo che questa è ancora solo il desiderio e il segno di una Guarigione, con la G maiuscola, che non è altro che la Salvezza.


(traduzione dal francese di GIACOMO LOSITO)


* ÉRIC DE ROSNY
È nato nel 1930 a Fontainebleau (Francia); è entrato nella Compagnia di Gesù nel 1947 e, giunto a Douala (Camerun) nel 1957, si è dedicato all’insegnamento; cappellano dell’Università di Yaoundé nel 1965, ha approfondito le ricerche sulla medicina tradizionale nel Sud del Camerun fra il il 1970 e il 1975. Tra il 1984 e il 1990 ha diretto l’Istituto africano per lo sviluppo economico e sociale (INA-DES) di Abidjan, in Costa d’Avorio; direttore del Centro spirituale «Incontro» a Douala sino al 2002, insegna oggi antropologia della salute all’Università cattolica dell’Africa centrale.

Tra i suoi scritti segnaliamo: Ndimisi. Ceux qui soignent dans la nuit, Yaoundé 1974; Les yeux de ma chèvre. Sur les pas des maîtres de la nuit en pays douala, Paris 1981 e 1988; L’Afrique des guérisons, Paris 1992; La Nuit, les yeux ouverts, Paris 1996; Ici ou là en Afrique, récits et péripéties, Paris 2002.


1 The Alma Ata Declaration on Primary Health Care [Dichiarazione di Alma Ata sull’assistenza sanitaria primaria], n. I, in www.euro.who.int/AboutWHO/Policy/20010827_1 [La Conferenza internazionale sull’assistenza sanitaria primaria, tenutasi dal 6 al 12 settembre 1978 ad Alma Ata (URSS), espresse la necessità di un’azione urgente ed efficace dei governi nazionali, della comunità internazionale e di tutti coloro che lavorano per la salute e lo sviluppo per proteggere e promuovere la salute di ogni essere umano, in particolare nei paesi in via di sviluppo (N.d.R.)].
2 F. LAPLANTINE, Anthropologie de la maladie. Étude ethnologique des systèmes de représentations étiologiques et thérapeutiques dans la société occidentale contemporaine, Payot, Paris 1992, 373 [trad. it., Antropologia della malattia, Sansoni, Firenze 1988].
3 Ibid.
4 J. BENOIST, Anthropologie médicale et Société Créole, Puf, Paris 1993, rispettivamente 14 e 85.
5 É. DE ROSNY, Les yeux de ma chèvre. Sur les pas des maîtres de la nuit en pays douala (Terre humaine), Plon, Paris 1981-1996, qui: «Rentrer dans l’ordre» [Rientrare nell’ordine], 253.
6 A.H. ANDERSON – W.J. HOLLENWEGER (edd.), Pentecostals After a Century. Global Perspectives on a Movement in Transition, Sheffield Academic Press, Sheffield 1999, 1.
7 G. TER HAMAR, L’Afrique et le monde des esprits. Le ministère de guérison de Mgr Milingo, archevêque de Zambie, Karthala, Paris 1992.
8 R. LUNEAU, Paroles et silences du Synode africain, Karthala, Paris 1997, qui: «Une oubliée de marque, la Santé» [Una dimenticanza di rilievo: la salute], 186.
9 Così P. Ricoeur in J.P. CHANGEUX – P. RICOEUR, Ce qui nous fait penser. La nature et la règle, O. Jacob, Paris 1998, 22.

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