La Chiesa di Antiochia, “regola pastorale” della Chiesa di Milano

Category: Missione Oggi
Hits: 2906 times
Assemblea sinodale del Clero - Intervento conclusivo - Milano – Duomo, 20 maggio 2009

Carissimi,
«Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese», ripete sette volte il libro dell’Apocalisse (cfr Ap 2-3).

Lo Spirito parla alle Chiese: questo noi crediamo! E questa certezza di fede è motivo per noi di stupore, di esultanza e di fiducia.

Lo Spirito parla alle Chiese: esorta, incoraggia, rimprovera, corregge, consola!

Lo Spirito parla alle Chiese: parla attraverso le Scritture che sempre offrono una luce amica per interpretare il tempo; parla attraverso i profeti, uomini e donne disponibili alla coerenza che crocifigge, alla verità che consola, alla pazienza che soffre l’impopolarità e la solitudine; parla attraverso gli eventi e le miserie della storia umana.


Sì, lo Spirito parla alle Chiese! Ma siamo disponibili ad ascoltarlo? Siamo capaci di distinguere la sua voce tra tanti rumori, parole, emozioni?

L’Assemblea sinodale del Clero non è stata mossa da altra intenzione che quella di ascoltare lo Spirito per obbedire al Signore, compiere la sua volontà, sottoporci al giudizio salvifico della sua Parola (cfr Eb 4, 12-13) ed esserne testimoni autentici nella vita.

Non quindi, anzitutto, un ascolto dei presbiteri e dei diaconi da parte del Vescovo e dei suoi più stretti collaboratori; non solo un ascolto reciproco tra compagni di ordinazione, amici, appartenenti allo stesso decanato, incaricati di specifici ambiti della pastorale, aderenti a particolari esperienze ecclesiali, ecc. No, anzitutto e soprattutto un ascolto di ciò che lo Spirito dice alla nostra Chiesa affinché sia fedele al suo Signore e disponibile alla missione che oggi le è affidata.

Un ascolto che ha suscitato un grande impegno di incontro e di confronto ai vari livelli, risultando così un’occasione molto positiva – amo pensare ad una “grazia” particolare - per la crescita del nostro presbiterio nella disponibilità al Signore e in una vera fraternità. Un ascolto che si colloca con la sua specificità accanto e a sostegno di tante altre forme di ascolto reciproco e di discernimento della volontà di Dio presenti nella nostra Diocesi: ricordo in particolare, oltre ai consueti organismi di partecipazione, la visita pastorale decanale che ha raggiunto sinora 45 decanati della Diocesi.

Anche questo mio intervento conclusivo – meglio chiamarlo di rilancio - desidera porsi il più possibile al servizio di quanto lo Spirito vuole dirci. Con trepidazione, ma anche con grande serenità e pace, mi assumo questa responsabilità, ben sapendo che «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1 Cor 12, 7).

Mi sono preparato a questo momento ascoltando i vostri interventi, leggendo le sintesi elaborate dalla Segreteria dell’Assemblea sinodale – che ringrazio per il modo encomiabile con cui ha preparato, seguito, moderato questo nostro cammino –, confrontandomi a lungo con i Vicari, riflettendo e – lo confesso – soprattutto pregando e facendo pregare.

Un’esperienza particolare, però, è stata decisiva in questa mia preparazione: l’esperienza un mese fa del pellegrinaggio con i preti dell’ISMI, dei primi cinque anni di ordinazione, sul tema: “Tarso e Antiochia. Alle origini del viaggio di Paolo”. Sono stati pochi giorni ma vissuti con grande intensità, occasione per me di grande consolazione, circondato dalla testimonianza di fede, dall’entusiasmo, dalla simpatia, dalla familiarità dei giovani sacerdoti.


I. «…FIN DAL SENO DI MIA MADRE»: ALLE ORIGINI DELLA NOSTRA VOCAZIONE

Quando si pensa alla vocazione dell’Apostolo delle genti, si fa immediato riferimento alla via di Damasco. In realtà, la chiamata di Paolo è avvenuta lì, nel cammino da Gerusalemme a Damasco, un cammino percorso in fretta da uno che aveva il cuore pieno di «minacce e stragi contro i discepoli del Signore» (Atti 9, 1).

Si deve però rilevare che nella lettera ai Galati l’apostolo colloca l’evento di Damasco in una storia che ha origini molto più lontane: «quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, ...» (Gal 1, 15-16). Paolo manifesta così la consapevolezza che la sua vocazione è da ricondurre a Tarso, alla sua nascita, anzi al disegno di Dio che ha preceduto il suo stesso venire al mondo: il Signore lo ha scelto fin dal seno materno. E’ la stessa esperienza dei profeti, di Geremia, del Servo di Jahvè, dei grandi personaggi dell’Antico Testamento… In fondo è l’esperienza di ogni vocazione, anche della nostra.

Pensavo a tutto ciò mentre – carissimi sacerdoti - vi ascoltavo intervenire nelle assemblee sinodali per anni di ordinazione: al di là delle tante diversità dei cammini personali, c’è un unico disegno che ci accomuna, quello di essere stati scelti dall’amore eterno e gratuito di Dio per essere ministri della sua Chiesa. E così vedevo in ciascuno di voi un uomo scelto da Dio, che nella sua libertà aveva detto di sì alla chiamata. Tutti poi abbiamo, certamente, i nostri difetti, le nostre fatiche, i nostri disagi, persino i nostri peccati. Ma tutto ciò non può cancellare il mistero di grazia che ci ha chiamati e l’adesione convinta e gioiosa alla nostra vocazione.

A questo proposito, mi pare che tutto si possa dire delle assemblee per anni di ordinazione tranne che siano state poco libere o reticenti. Ebbene, in questo clima di grande “parresia”, non ho sentito nessuno di voi che dicesse di essersi pentito della decisione di diventare prete! Che cosa c’è di più consolante per un Vescovo di sentire che i propri preti - pure in mezzo a difficoltà e a stanchezze – sono contenti di aver detto un giorno di sì al Signore e che anche oggi vogliono rinnovare il loro impegno ad amare e servire il Signore in questa sua Chiesa.

Se l’Assemblea sinodale fosse servita anche solo a questo, a manifestare cioè la perseveranza – affaticata anche, ma pur sempre coraggiosa, anzi gioiosa - della nostra decisione avrebbe già raggiunto un grande, luminoso e confortante risultato.

Dalla comune chiamata, dall’unico sacramento dell’ordine ricevuto nei diversi gradi, dal servizio dell’unica Chiesa, nasce anche la profonda fraternità tra di noi, nascono il rispetto e la stima degli uni per gli altri nel riconoscere in ciascuno “le grandi cose fatte dall’Onnipotente”. Nasce anche il desiderio di andare avanti insieme e con coraggio, sapendo che non ci sono tra noi “controparti”, raccolti come siamo sulla stessa barca del Signore che è la Chiesa: ci sono, certo, compiti e responsabilità differenti, ma unica è la dedizione al regno di Dio, unico è l’amore per Gesù Cristo crocifisso e risorto, unica è la passione per il Vangelo, unico il servizio all’uomo.

So che chi ha più responsabilità è più esposto a critiche, o meglio di rilievi e osservazioni che dicono un’autentica correzione fraterna, una dedizione comune e condivisa a questa nostra Chiesa, un desiderio sincero e operoso di essere tutti insieme più fedeli al Vangelo e quindi più ricchi di vera profezia. So anche che chi deve decidere – e spesso è convinto in coscienza di non poter rimandare una decisione – non sempre ha tutte le condizioni, le conoscenze, le collaborazioni, le disponibilità, che sarebbero opportune e talvolta necessarie.

Desidero, perciò, esprimere qui tutta la mia fiducia e la mia riconoscenza verso il Vicario generale, i Vicari, i decani, i responsabili dei vari ambiti pastorali, tutti coloro che condividono la responsabilità complessiva del Vescovo per questa Chiesa. A voi dico: nessuno si scoraggi, ma tutti impegnatevi ancora di più nell’ascoltare e nel volere bene ai preti e alle comunità. Siate certi che, al di là di talune lamentele o critiche, i preti, i diaconi, le persone consacrate, l’intero popolo di Dio vi sostengono con il loro affetto e vi accompagnano con la loro preghiera.

E tutti insieme guardiamo avanti, guardiamo al futuro che è già qui e ci impegna ad essere ancora più appassionati nella missione di annunciare il Vangelo nelle nuove circostanze sociali, culturali ed ecclesiali. Guardiamoci attorno perché «i campi già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4, 35) e anche nel cuore della gente di oggi c’è, insopprimibile, tanto desiderio di Dio, spesso nascosto, persino nelle nostre città secolarizzate: «in questa città io ho un popolo numeroso» (Atti 18, 10), dice il Signore a Paolo riferendosi a Corinto e ripete oggi a noi. Guardiamo in alto, al Signore che è nostra meta e nostro conforto e che ci custodisce sempre sotto il suo sguardo misericordioso, uno sguardo da condividere nel suo zelo pastorale: «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore » (Mt 9, 36).

2.LA CHIESA DI MILANO E LA CHIESA DI ANTIOCHIA

Dopo Tarso il pellegrinaggio sulle orme di Paolo ci ha portato ad Antiochia. Antiochia sull’Oronte, l’antica Antiochia di Siria – ora in Turchia – era, al tempo di san Paolo, la terza città dell’Impero romano, dopo Roma e Alessandria. Una città di mezzo milione di abitanti, capitale della provincia romana di Siria, luogo di traffici e di commerci, posta all’incrocio tra le vie di comunicazione tra l’Egitto, la Palestina, la Siria, l’Asia, la Mesopotamia e l’Oriente, la Grecia e l’Europa e nei pressi del mare Mediterraneo di fronte a Cipro.

Antiochia ha avuto un ruolo molto significativo nella vicenda della Chiesa degli inizi, perché dopo Gerusalemme è stata la prima grande comunità: una comunità dove il Vangelo è stato annunciato per la prima volta ai pagani e dove i credenti in Cristo sono stati chiamati per la prima volta “cristiani”.

Devo dire che in occasione dell’Assemblea sinodale del Clero ho ripreso in mano più volte il libro del nostro Sinodo diocesano 47°. Per la verità, l’Assemblea chiamata sinodale non voleva essere un nuovo sinodo, ma solo un rilancio, in modo specifico per il clero, di quell’evento di quindici anni fa, che non ha ancora espresso tutte le sue potenzialità.

E così ho riletto con grande conforto e stimolo la “Lettera di presentazione alla Diocesi”, introduttiva al libro sinodale, scritta dall’Arcivescovo Carlo Maria Martini. In quella lettera il Cardinale – cui va anche oggi il nostro saluto e la nostra vicinanza affettuosa, come pure il mio e nostro ringraziamento per la disponibilità con cui ha guidato in questi mesi “sinodali” diversi ritiri e incontri di sacerdoti – indicava come “icona” alla Chiesa ambrosiana uscita dal Sinodo la “Chiesa degli Apostoli”.

Ora proprio durante il pellegrinaggio ISMI mi sono convinto che quell’icona deve essere riproposta di nuovo alla nostra Chiesa, ma forse precisandola maggiormente con il riferimento alla Chiesa di Antiochia. Penso infatti che si possa trovare una profonda analogia tra la comunità di Antiochia e la Chiesa di Milano a partire dalle stesse condizioni sociali: anche Milano è una città di non piccola importanza; una città che con il suo territorio è al centro di traffici e di scambi; ha un’apertura naturale verso l’Europa e legami con varie parti del mondo; è da sempre meta di immigrazione; ha una sua identità e vivacità culturale; ecc. E l’analogia potrebbe essere approfondita facendo riferimento anche agli aspetti più propriamente ecclesiali. Certo, l’esistenza di varie diversità ci chiede di non forzare l’analogia, di non piegarla alle nostre situazioni, esigenze e scelte, ma ci chiede anche di impegnarci in un discernimento – alla luce e con la forza della parola di Dio – per cogliere l’esemplarità che la Chiesa di Antiochia può ancora offrire a noi oggi. In particolare, quella di Antiochia ci si presenta come una Chiesa giovane, viva, missionaria. E questo può essere di forte stimolo nei confronti di una Chiesa – come la nostra e in genere quella dei Paesi occidentali – che rischia di vivere un periodo di “vecchiezza”, di ripiegamento, di scarsa e timida testimonianza evangelica, nonostante l’imponenza delle sue strutture e la molteplicità delle sue iniziative. Un ritorno alle sorgenti della Chiesa, senza minimamente rinnegare ma anzi valorizzando il cammino di secoli, non può che stimolarci e aprirci ad una stagione di rinnovamento con il desiderio di puntare più decisamente all’essenziale evangelico, attraverso scelte di saggia e coraggiosa sobrietà pastorale.

Per questi motivi desidero proporre la Chiesa di Antiochia alla nostra Diocesi come icona in cui specchiarsi e fare riferimento, come “regola pastorale” per un fiducioso e coraggioso rinnovamento comunionale e missionario.

Ecco ora, secondo il racconto degli Atti e delle lettere paoline, alcune caratteristiche del volto della Chiesa di Antiochia.

Gli inizi della Chiesa di Antiochia

Il libro degli Atti così descrive gli inizi di questa Chiesa: «Intanto quelli che si erano dispersi a causa della persecuzione scoppiata a motivo di Stefano erano arrivati fino alla Fenicia, a Cipro e ad Antiòchia e non proclamavano la Parola a nessuno fuorché ai Giudei. Ma alcuni di loro, gente di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiòchia, cominciarono a parlare anche ai Greci, annunciando che Gesù è il Signore. E la mano del Signore era con loro e così un grande numero credette e si convertì al Signore» (Atti 11, 19-21).

La fondazione della Chiesa di Antiochia non si deve agli Apostoli o ad alcuni loro inviati, ma avviene a seguito di un evento tragico per la Chiesa di Gerusalemme: il martirio di Stefano e la seguente persecuzione. Appartenenti alla prima comunità di Gerusalemme, probabilmente quelli di origine greca più legati a Stefano, costretti a fuggire, giungono nella capitale della provincia di Siria e qui annunciano il Vangelo non solo ai Giudei ma anche ai Greci.

Da questi inizi della Chiesa di Antiochia possiamo ricavare per noi due importanti messaggi.

1) Il primo, immediato e decisivo, è che il Vangelo è per tutti, non solo per i “nostri”, per quelli cioè che ci sono più vicini, più affini a noi per tradizione, mentalità, cultura, modo di vivere.
Devo confessare che avrei desiderato sentire nelle nostre assemblee svoltesi a Rho e a Seveso più frequente e più intensa questa passione missionaria verso i “lontani”, verso chi è da poco arrivato nelle nostre terre. In realtà, dei migranti hanno parlato praticamente solo gli “addetti ai lavori”. Eppure sono e saranno una presenza sempre più rilevante nella nostra Chiesa. Senza dimenticare poi chi, pur di origine italiana, si è allontanato dalla fede per i più diversi motivi anche se battezzato, e coloro che - in crescente numero - per scelta dei genitori non vengono più battezzati.

L’insistenza fin dall’inizio del mio ministero episcopale a Milano sul tema della missione nasce da questi e altri dati concreti - di cui forse non ci rendiamo conto ancora a sufficienza - e soprattutto dalla convinzione che il comandamento missionario di Gesù chiede a tutti noi un’obbedienza pronta e incondizionata.

Ho l’impressione che noi - ministri ordinati e i fedeli praticanti delle nostre comunità - non abbiamo ancora maturato una consapevolezza lucida e una completa lettura penetrante sia del contesto socio-culturale nel quale viviamo sia della singolare urgenza della missione della Chiesa in questo nostro tempo. Forse prevale, nelle nostre comunità e in noi stessi, un senso di frustrazione per tante proposte pastorali che hanno risposte stentate, un senso di inadeguatezza perché diminuiscono le risorse e le persone disponibili e aumentano le pretese, un senso di smarrimento perché quello che “abbiamo sempre fatto” non sembra più adeguato e su quello che si dovrebbe fare si dicono tante cose, ma non ci sembra di trovare una risposta soddisfacente.

Occorre evitare l’errore di esaurire tutte le nostre forze pastorali sulla pur doverosa cura dei “nostri”, occorre la lungimiranza e il coraggio di uno “sbilanciamento” verso quanti non riusciamo a raggiungere e che pure – o in primis - sono affidati alla nostra missione evangelizzatrice. Ci è lecito, al di là dei pesi e delle difficoltà, rinunciare alla missione?

Mi faccio interprete di tutti voi e professo la mia e nostra fede: “noi obbediremo al Signore!”. La povertà dei mezzi non è un’obiezione alla missione universale, ma un appello più forte alla fede. Credo! Crediamo in te, Signore, e continueremo a seguirti, continueremo ad obbedirti: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15).

2) Il secondo messaggio riguarda il ruolo dei fedeli laici nella Chiesa. La Chiesa di Antiochia ha la sua origine dall’annuncio e dalla testimonianza di semplici cristiani, di quelli che oggi chiameremmo fedeli laici: non sarà né la prima né l’ultima volta nella storia della Chiesa (pensiamo al caso dell’evangelizzazione della Corea).

Riprendendo i temi dell’omelia della Messa crismale 2008 sul sacerdozio comune, insisto nuovamente nel ribadire che i fedeli laici trovano nel Battesimo la grazia e la responsabilità (donum et mandatum) di essere testimoni di Gesù risorto e annunciatori del suo Vangelo nel “mondo” – di cui devono essere “anima” - e nella Chiesa, dove devono sentirsi coinvolti nell’opera evangelizzatrice e nell’edificazione della comunione attraverso i diversi ministeri, in un’ottica di convinta e reale comunione-collaborazione-corresponsabilità.

E di fatto è già così nelle nostre comunità pastorali e nelle nostre parrocchie: come potrebbe esistere la nostra Chiesa senza, ad esempio, l’impegno di migliaia di catechisti, di educatori, di operatori della carità, di lettori e ministri della Comunione eucaristica, ecc.?

Una novità tipica delle comunità pastorali - rispetto anche alle unità pastorali - che domanda di essere maggiormente sottolineata è la possibilità (raccomandata) per alcuni fedeli laici di essere presenti nel suo direttivo, con un ruolo di partecipazione alla responsabilità pastorale complessiva. E’ una novità – meglio dire un rilancio rinnovato di un aspetto essenziale della vita della Chiesa – che ci sollecita però a studiare ancora meglio le modalità di questo coinvolgimento. Esso, più che un impegno “a tempo pieno” in senso quantitativo, richiede una presenza qualitativamente rilevante: servono persone preparate e disponibili a condividere con presbiteri, diaconi e consacrati la responsabilità globale e complessiva della comunità pastorale, assumendo così un ruolo originale rispetto ai molti laici già incaricati dei vari ministeri.

Certo, il ministero sacro è specifico e insostituibile nella Chiesa, ma il sacerdote non ha l’esclusiva dell’annuncio del Vangelo e neppure della conduzione di una comunità.

Raccolgo volentieri dalle Assemblee l’indicazione che è necessaria una più intensa formazione dei fedeli laici in vista dei nuovi compiti che li attendono. Dovremo mettere a frutto i recenti suggerimenti del Consiglio pastorale diocesano e l’impegno dell’Azione Cattolica, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali, chiamati tutti a formare i fedeli laici anzitutto per la Chiesa, prima ancora che per le proprie esigenze interne. Anzi, voglio aggiungere che mi attendo da tutti questi soggetti operanti in Diocesi uno slancio missionario ancora più intenso, caratterizzato sì dalle legittime sottolineature di ciascuna aggregazione, ma in uno spirito di maggiore comunione e con più cordiale e operoso coinvolgimento nel cammino spirituale e pastorale della Chiesa ambrosiana.

Nelle assemblee ho però anche percepito, in qualche caso, come una specie di “rivendicazione” da parte dei sacerdoti di una propria competenza pastorale esclusiva, come se si dovesse dare spazio ai laici solo qualora non fosse proprio possibile fare altrimenti. E in altri interventi ho notato una certa enfasi sulle relazioni personali dei preti, come se i confini dell’azione evangelizzatrice della Chiesa coincidessero con i confini dei rapporti personali e diretti dei preti.

Si tratta di una questione che ho già evidenziato nell’omelia della Messa crismale di quest’anno, invitando a fare riferimento alla preziosa esperienza dei preti fidei donum che sperimentano sul campo quanto l’attività pastorale e la vita stessa delle comunità sia affidata ai fedeli laici.

Barnaba e l’identità del presbitero

Ma allora che cosa è tipico del presbitero? La domanda sull’identità del prete è risuonata spesso durante le assemblee per anni di ordinazione. Penso che proprio ad essa e in profondità vada ricondotto il disagio da molti manifestato.

Il disagio ha indubbie ragioni obiettive e, in un momento di novità e di trasformazioni come quello che stiamo vivendo, occorre che tutti mettano in conto una buona dose di pazienza: ci vuole tempo per poter sperimentare, maturare esperienze, sostenere i necessari confronti e intervenire con eventuali correzioni di rotta.

Sono però convinto che la questione dell’identità del prete - ma anche delle stesse comunità cristiane - sia quella fondamentale. In particolare, le scelte che riguardano le comunità pastorali, l’inserimento nel ministero e la pastorale giovanile chiedono un cambiamento del modo di essere del prete e delle comunità: anche per questo creano fatica, disagio, paura. Si tratta infatti di un cambiamento a livello non solo teorico ma anche concreto: un cambiamento del modo di pensarsi, di considerarsi, di agire, di attendere, di sognare, di desiderare, ecc.

Ora la missione di Barnaba ad Antiochia può aiutarci a individuare un percorso raccomandabile per ridefinire l’identità del ministero ordinato. Leggiamo negli Atti: «Questa notizia [quella del gran numero di conversioni] giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, e mandarono Barnaba ad Antiochia. Quando questi giunse e vide la grazia di Dio, si rallegrò ed esortava tutti a restare, con cuore risoluto, fedeli al Signore, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede. E una folla considerevole fu aggiunta al Signore» (Atti 11, 22-24).

Barnaba viene inviato dalla Chiesa di Gerusalemme, dagli Apostoli. Il suo atteggiamento verso la comunità di Antiochia non è quello di chi reclama un’esclusiva, né quello di chi è geloso del successo apostolico di altri o di chi arriva per prendere in mano la situazione e finalmente risolverla.

Barnaba, per prima cosa, osserva, vede l’azione di Dio e ne gioisce. Probabilmente anche ad Antiochia, come in tutte le prime comunità cristiane, ci saranno stati disguidi, problemi, fatiche, contrasti, facili entusiasmi e altrettanto facili scoraggiamenti. Del resto era una comunità molto giovane, appena agli inizi del suo cammino evangelico. Ma Barnaba riesce a vedere nel profondo anzitutto l’azione dello Spirito e non, per prima cosa, ciò che non funziona e chiede di essere corretto e cambiato.

Barnaba non è cieco di fronte alle difficoltà, ma è «uomo virtuoso e pieno di Spirito Santo». Che il Signore renda anche noi come Barnaba quando veniamo inviati in una nuova comunità: non preoccupati di giudicare, di correggere, di cambiare, di dare la nostra impronta, ma capaci anzitutto di aprire i nostri occhi e il nostro cuore per poter cogliere in quella precisa realtà di Chiesa la presenza dell’azione dello Spirito che è già in azione attraverso quella gente, con i suoi doni e con i suoi limiti. Lo stesso Spirito che ha operato – e con abbondanza - attraverso chi ci ha preceduto nella responsabilità pastorale. Dunque, senza alcuna fretta di cambiare tutto e subito, ma con la saggezza di “dare tempo al tempo”.

Certo tutto questo è possibile quando si è, come Barnaba, “uomini virtuosi e pieni di Spirito Santo”, uomini qualificati da una forte spiritualità.

E’ con vera gioia che ho notato nelle assemblee una grande insistenza sui temi della spiritualità, della formazione, dell’accompagnamento. E’ segno chiaro che tutti ci rendiamo conto della nostra inadeguatezza e che vogliamo reagire scegliendo niente di meno che la “santità”.

Sì, ho pensato proprio questo mentre vi ascoltavo: i miei preti hanno voglia di diventare santi, rifuggono la mediocrità, non si arrendono alla gestione “alla meno peggio” dell’esistente, ma vogliono aprirsi ancora di più al dono dello Spirito per essere veri discepoli del Signore, autentici servi della Chiesa e di ogni uomo. E sanno che la santità per il presbitero non è soltanto un’esigenza personale, lodevolissima sì ma aggiuntiva rispetto al suo servizio ministeriale. La “spiritualità” non è “a fianco” della “pastorale” ma è necessità intrinseca dello stesso ministero: per fare bene i preti occorre diventare santi e da preti ci si santifica facendo bene il prete. Lo stesso esercizio del ministero è “via sanctitatis” per il presbitero.

Come fare per non lasciar cadere questa forte istanza di spiritualità, di formazione, di crescita umana, cristiana, ministeriale? Certo studiando e individuando alcune iniziative specifiche, ma prioritario rimane il pregare ancora più intensamente lo Spirito perché ci illumini e faccia sorgere tra noi uomini pieni dei suoi doni come Barnaba, così come è stato anche nel recente passato: penso ai diversi sacerdoti beatificati di recente e a don Carlo Gnocchi che vedremo beato il prossimo ottobre.

Proseguendo nel racconto degli Atti, troviamo un’ulteriore preziosa indicazione a proposito di Barnaba. Con Saulo, egli fa parte di un gruppo di responsabili: «C’erano nella Chiesa di Antiòchia profeti e maestri: Bàrnaba, Simeone detto Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, compagno d’infanzia di Erode il tetrarca, e Saulo» (Atti 13, 1).

Pur con tutta l’attenzione a non forzare l’analogia con la realtà ecclesiale di Antiochia, penso che possiamo in qualche modo collegare a questo gruppo il direttivo delle comunità pastorali, che non solo costituisce una forte e nuova occasione per una partecipazione alla responsabilità pastorale di laici, diaconi, consacrati, ma vuole essere una modalità concreta per una conduzione pastorale più condivisa.

Una conduzione sostenuta da un’intensa fraternità, garantita da una regola di vita, dove devono trovare spazio la preghiera, momenti di condivisione della vita quotidiana, un confronto sincero, cordiale e intenso.

Una conduzione basata su un progetto pastorale elaborato coinvolgendo la comunità e in particolare il consiglio pastorale unitario. Chi è nel direttivo, a partire dal presbitero responsabile della comunità pastorale, deve avere come preciso orientamento della sua azione il progetto pastorale, che deve essere riferito a quello diocesano, e non muoversi solo in base a intuizioni o convinzioni pastorali del tutto personali. E’ un’esigenza che impegna pure il parroco e ogni sacerdote e diacono, anche al di fuori delle comunità pastorali, qualunque sia la sua responsabilità.

Non si tratta di una novità: già vent’anni fa il cardinale Martini aveva chiesto a tutte le parrocchie di elaborare un progetto pastorale. Il Sinodo 47° ne parla con ampiezza, presentandolo come uno strumento atto, tra l’altro, a garantire la continuità pastorale anche nel succedersi dei parroci e dei sacerdoti (cfr Cost. 143).

L’inserimento di Barnaba in un gruppo di responsabili ci invita a riflettere anche sul presbiterio, come realtà che determina l’identità del prete.

Un aspetto consolante di questa Assemblea sinodale del Clero è il fatto che essa ha dimostrato visivamente che il presbiterio ambrosiano c’è, è vero, autentico, vivo.

Siamo un presbiterio unito, pur nella vastità della Diocesi e nel nostro grande numero (almeno in termini assoluti): non per caso, ma grazie all’impegno di santità, di spiritualità, di azione pastorale, di santi Vescovi, di santi presbiteri, di sante famiglie, di una santità diffusa del popolo di Dio che ci ha sostenuto e plasmato da secoli. Pensiamo solo a quanto è stato ed è tuttora determinante il nostro Seminario nel formare preti di fede, appassionati del Vangelo, dediti alla gente.

Non possiamo però accontentarci, non possiamo fermarci. Dobbiamo esplicitare di più quanto ci unisce: a livello non solo sacramentale, ma anche di condivisione di cammini formativi, spirituali e pastorali. Già molto è stato fatto in questi anni e l’Assemblea sinodale è riuscita grazie anche a questo lungo impegno di cui ringrazio in particolare chi ha lavorato e lavora nella Formazione permanente.

Vorrei in particolare, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II (cfr Presbyterorum ordinis, 8), che ci sentissimo presbiterio non in aggiunta al nostro essere prete, ma come fatto che caratterizza profondamente la nostra identità. Per questo dovremmo vedere i nostri incarichi personali, qualunque essi siano, come espressione particolare di una sollecitudine pastorale comune e condivisa che ha come “soggetto” l’intero presbiterio. Ciò significa che è il Vescovo in prima persona e con tutto il suo presbiterio a doversi fare carico delle parrocchie, delle comunità pastorali, dei diversi ambiti pastorali. Lo fa con l’incarico specifico dato ai singoli sacerdoti (e singoli diaconi), ma in quanto rappresentanti del presbiterio in quel determinato campo di azione. Se uno è parroco, cappellano, responsabile di ufficio di curia, ecc., lo è a nome del Vescovo e dell’intero presbiterio.

Se assumiamo questa prospettiva ci sentiremo meno isolati e meno tentati dai personalismi nel nostro lavoro pastorale. Così possiamo garantire un’azione pastorale nel segno di una maggiore continuità e comunione. Ciò non toglie, da un lato, che ciascuno sia chiamato a vivere con una responsabilità personale il compito affidatogli, mettendo in gioco tutto se stesso, le proprie intuizioni, le proprie energie umane e spirituali; e dall’altro lato che una conduzione più condivisa della pastorale nel presbiterio decanale, nel direttivo delle comunità pastorali, nella collaborazione con i diversi organismi di partecipazione, esiga comunque una chiarezza e un ordine di compiti, di ruoli e di responsabilità. Questa è un’esigenza umana da tutti avvertita e da rispettarsi, ma è anche una necessità per una comunione che voglia essere ordinata e che non debba soffocare ma valorizzare i carismi e i ministeri personali per l’utilità comune.

Come favorire un’appartenenza più convinta e più esplicita al presbiterio sul piano della fraternità (che arrivi anche a forme di condivisione di vita), sul piano spirituale e sul piano dell’azione pastorale? E questo a tutti i livelli: diocesano, decanale, di comunità pastorale, di parrocchia, di ambito di impegno pastorale? Al termine formulerò alcune indicazioni, ma a questo proposito da tutti i sacerdoti attendo suggerimenti e proposte.

Barnaba, l’inserimento nel ministero e l’accompagnamento dei presbiteri

Una delle prime iniziative di Barnaba, dopo essere arrivato ad Antiochia e aver visto all’opera la grazia di Dio, è stata quella di andare a cercare Saulo: «Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo: lo trovò e lo condusse ad Antiochia. Rimasero insieme un anno intero in quella Chiesa e istruirono molta gente» (Atti 11, 25-26).

Barnaba aveva fin dall’inizio colto la potenzialità apostolica di Saulo, il persecutore neoconvertito. A Gerusalemme è infatti Barnaba a presentare Saulo alla comunità: «Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore» (Atti 9, 27-28).

Ma la presenza e l’attività di Paolo in quella comunità si rivelano fallimentari: viene messo sulla nave e fatto tornare a Tarso. Potremmo dire che l’inserimento nel ministero di Paolo non è riuscito.

Barnaba però ritenta, avendo individuato nella Chiesa di Antiochia la comunità giusta per Paolo. Sarà proprio così. Paolo dovrà essere sempre riconoscente verso Barnaba – al di là del momento drammatico della sua divisione da lui (cfr Atti 15, 36-40) – e verso la comunità di Antiochia: lì ha imparato a essere apostolo. Ma anche la Chiesa di Antiochia dovrà manifestare riconoscenza a Paolo, che con la sua vivacità apostolica ha contribuito a renderla una comunità ancora più missionaria e coraggiosa.

In quest’ottica possiamo leggere in qualche modo la proposta della nuova modalità di inserimento nel ministero. Come ho spiegato soprattutto in occasione della omelia della Messa crismale 2007, non si tratta di sfiducia verso i novelli presbiteri, né verso il Seminario che li ha formati. C’è invece l’esigenza che, in un mondo sempre più complesso e in una situazione pastorale non facile, i nuovi diaconi e presbiteri abbiano la possibilità di inserirsi nel ministero con l’accompagnamento di un presbiterio accogliente e incoraggiante come quello riunito intorno a Barnaba, di una comunità vivace e attiva come quella di Antiochia. E questo assumendo delle responsabilità proprie, ma in un orizzonte di comunione e imparando fin dall’inizio a essere parte di un presbiterio e dentro il cammino pastorale concreto di una comunità.

Al di là di alcune difficoltà iniziali di comprensione – come pure di spiegazione – di questa scelta e al di là di alcune inevitabili incertezze degli inizi, mi pare che si possano condividere con sincerità le buone ragioni che hanno indotto a questa scelta, per il bene di chi inizia il ministero e per il bene delle comunità che lo accolgono in questo inizio. Accogliere un confratello più giovane sta, infatti, aiutando i preti più anziani a vivere una più intensa e concreta fraternità, sta spingendo le comunità a non sentire quasi come proprietà esclusiva un giovane sacerdote, ma ad agire maggiormente insieme con le altre comunità cristiane vicine.

Vorrei confidarvi anche la speranza che - soprattutto dai sacerdoti che accolgono quelli più giovani - possano emergere progressivamente nel presbiterio diocesano dei “Barnaba”, dei sacerdoti capaci di farsi carico dell’accompagnamento dei confratelli. Nelle assemblee più volte è stato chiesto di individuare queste figure significative: non si possono però scegliere a tavolino, né creare dal nulla. Certo, già esistono, già sono in atto esperienze valide: dobbiamo forse solo farle conoscere e incoraggiare chi ha ricevuto un particolare carisma di ascolto e di discernimento spirituale – sia tra i presbiteri diocesani, sia tra quelli religiosi – a metterlo a disposizione, con semplicità e generosità, dei fratelli nel ministero. Ma nessuna designazione o incarico o itinerario di formazione potrà sostituire l’attenzione degli uni verso gli altri, nelle quotidiane relazioni del presbiterio.

Molto possono fare i Vicari episcopali e i decani, ma ancora di più dobbiamo fare tutti noi trovando forme concrete di vicinanza: rispettose, discrete, cordiali, attente. Mi domando, per esempio, se ci siamo accorti dei confratelli assenti nelle assemblee per anni di ordinazione e se con discrezione e rispetto abbiamo cercato di renderci conto di eventuali difficoltà, impedimenti, malattie dei nostri confratelli.

Circa l’inserimento nel ministero - tornando di nuovo all’esperienza degli Apostoli - mi pare interessante osservare che Paolo è stato, a sua volta, colui che ha inserito nel ministero apostolico altri: basti pensare a Timoteo e a Tito e alle indicazioni molto paterne, realistiche e umane – oltre che spirituali e pastorali – contenute nelle lettere loro indirizzate e che abbiamo in parte ascoltato all’inizio di questa celebrazione.

Antiochia, una Chiesa della carità e della comunione

Un altro tratto caratteristico importante della Chiesa di Antiochia attira la nostra attenzione: quello di una comunità che prende l’iniziativa di una colletta a favore della comunità di Gerusalemme. Leggiamo negli Atti: «In quei giorni alcuni profeti scesero da Gerusalemme ad Antiochia. Uno di loro, di nome Agabo, si alzò in piedi e annunciò, per impulso dello Spirito, che sarebbe scoppiata una grande carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto l’impero di Claudio. Allora i discepoli stabilirono di mandare un soccorso ai fratelli abitanti nella Giudea, ciascuno secondo quello che possedeva; questo fecero, indirizzandolo agli anziani, per mezzo di Barnaba e Saulo» (11, 27-30).

La comunità di Antiochia è una Chiesa animata dalla carità, da una carità molto concreta che assume la forma di una colletta verso la Chiesa di Gerusalemme in difficoltà, diventando così uno splendido segno di profonda comunione verso la Chiesa madre. Una Chiesa - questa di Gerusalemme - che provocherà qualche disagio alla comunità di Antiochia: da Gerusalemme non verrà solo Barnaba, ma anche – sia pure senza alcun incarico (cfr Atti 15, 24) – dei fratelli che metteranno confusione e diffonderanno turbamento sul valore della legge di Mosè.

La nostra Chiesa di Milano, a partire dai suoi preti, è molto attenta alle necessità dei poveri: non c’è troppo bisogno di esortare alla generosità fattiva. Anche il modo con cui sono state accolte l’iniziativa del “Fondo Famiglia-Lavoro” e la proposta di una colletta per i terremotati dell’Abruzzo lo dimostra.

Dobbiamo, però, crescere maggiormente su due linee. Anzitutto a riguardo di un atteggiamento di attenzione ai poveri, ai deboli e ai bisognosi che non si limiti alle più diverse iniziative caritative, ma li veda realmente anzitutto nella loro dignità di persone e nella loro novità di fratelli e sorelle nel Signore. Nei preti e nelle nostre comunità non devono trovare spazio sentimenti e atteggiamenti di prevenzione, di sospetto, di disistima, di poca accoglienza, di chiusura, di rifiuto. Certo, senza ingenuità e semplicismi, ma con il desiderio e l’impegno di costruire una realtà ecclesiale e sociale più umana, più vera e più ricca, più evangelica.

Ritorno sul tema dell’immigrazione, perché – lo si voglia o no – esso caratterizzerà questi anni e ancora di più e a lungo gli anni a venire. Se Milano e la Lombardia sapranno essere terre di accoglienza e di crescita culturale e sociale o se si chiuderanno nella paura del diverso e del lontano dipenderà anche dall’atteggiamento della nostra Chiesa.

L’altra linea di crescita nella carità la raccolgo da voi: riguarda lo sviluppo di una maggiore condivisione, la realizzazione dunque di un’effettiva comunione-collaborazione-corresponsabilità tra tutti noi e con gli altri.

Anzitutto vi ringrazio per la franchezza con cui avete manifestato, insieme all’apprezzamento per molte realtà della nostra Chiesa e all’offerta di preziosi suggerimenti, un diffuso disagio soprattutto in relazione a tre problemi: il fatto che le decisioni appaiono calate dall’alto e poco motivate, la fretta, l’apertura di troppi “cantieri”.

Penso, come ho già detto, che il motivo più profondo del disagio diffuso tra i sacerdoti – al di là delle questioni personali, che pure domandano di essere prese con grande serietà – sia il fatto che alcune scelte stanno toccando l’identità non “detta” ma “vissuta” del prete ambrosiano. Mi sembra però, con tutti i necessari “distinguo”, che le scelte attuali, se ben comprese e vissute, possano spingerci ad assumere un’identità presbiterale più evangelica e più conciliare, senza nulla perdere di ciò che ci caratterizza come preti ambrosiani in termini di iniziativa, di generosità fattiva, di capacità di guida, di vicinanza e di relazione con la gente.

Ci sono, però, anche altri motivi di disagio, la cui percezione è diversa anche per il tipo di incarico che abbiamo nella comunità.

E’ intuibile che chi vede le cose nel loro insieme e ne porta le responsabilità più impegnative – a cominciare dall’Arcivescovo e dai suoi più diretti collaboratori – possa sentire più di altri l’urgenza di determinate scelte, sia in grado di delinearle con più lucidità anche nella loro reciproco coordinarsi in unità, colga in modo più immediato le occasioni per realizzarle, pensi di aver consultato a sufficienza e di essersi spiegato in abbondanza. Rischia però di essere meno attento alle sensibilità, alle intuizioni, alle diverse visioni – altrettanto pastoralmente valide – che caratterizzano chi lavora negli specifici ambiti pastorali, territoriali o di settore; come pure rischia di essere meno attento alle difficoltà connesse con le attuazioni delle scelte diocesane nel vissuto delle nostre concrete comunità. Può non cogliere a sufficienza, pur senza compromettere la necessità di intervenire tempestivamente, l’esigenza di tempi più distesi nelle attuazioni concrete ed essere meno incline a tenere conto delle fatiche anche psicologiche delle persone. Senza escludere poi una conoscenza spesso inevitabilmente parziale della storia delle comunità locali e delle loro esigenze.

Viceversa chi è immerso nelle situazioni particolari e ne porta la responsabilità può sentire con più acutezza determinate necessità, cogliere con più forza certe richieste del popolo di Dio, sperimentare con più libertà cammini pastorali nuovi e interessanti. E’ naturale, però, che possa essere per così dire “bloccato” da una visione troppo particolare, che non sempre riesca a stare in sintonia con i cammini diocesani e non abbia la possibilità di partecipare ai momenti di condivisione e di maturazione degli stessi e, sopratutto, che incontri qualche fatica a distinguere il giudizio sereno sulla bontà di una scelta proposta dal Vescovo, che tocca da vicino la comunità di cui porta la responsabilità, dalle implicazioni personali che essa può comportare.

Che fare?

Dobbiamo, anzitutto, crescere ancora di più nella comunione, a cominciare dalla sua radice e forza spirituale, dunque dalla preghiera e in particolare dalla celebrazione eucaristica, sorgente prima di comunione tra il Vescovo e la sua Chiesa. Grazie di cuore a tutti voi che nell’Eucaristia pronunciate il mio nome. E’ per me il momento più semplice e più intenso per rinnovare l’abbraccio spirituale e la consegna di me stesso ai confratelli nel sacerdozio e al popolo che mi è affidato.

Dobbiamo poi crescere nella stima reciproca e nel dialogo vicendevole a livello di scelte pastorali, valorizzando ogni occasione che ci viene offerta, non ultima la visita pastorale decanale in cui cerco di privilegiare l’ascolto e il confronto con i presbiteri e gli altri operatori pastorali.

Dobbiamo sentirci maggiormente tutti responsabili dell’oggi e del domani di questa nostra Chiesa, non chiudendoci nelle nostre - anche giuste - esigenze e aspettative. Con la luce e l’aiuto dello Spirito, siamo chiamati a trovare insieme una sintesi virtuosa tra le prospettive di più vasto respiro elaborate e offerte a livello diocesano e la concretezza dei cammini locali delle parrocchie, delle comunità pastorali e dei decanati. E’ una sintesi non sempre facile, ma proprio per questo da riprendere con pazienza e speranza, perché le prospettive diocesane e di alto respiro corrono il rischio di restare troppo astratte, e quelle locali il rischio di rimanere ancorate a visioni ristrette o troppo soggettive.

Ed ora, quasi in risposta alla vostra franchezza, vorrei brevemente soffermarmi su due scelte concrete di questi anni: la prima è il Lezionario ambrosiano, la seconda sono le comunità pastorali.

1) Sul lezionario le obiezioni che ho colto sono: la fretta della sua realizzazione e promulgazione, la non soddisfacente scelta di alcune pericopi bibliche, la non consultazione e, più a fondo, la non comprensione del “perché” del mantenimento del Rito ambrosiano.

Partirei da quest’ultima questione per dire con chiarezza che è preciso compito dell’Arcivescovo e dell’intera comunità ambrosiana conoscere, custodire, celebrare, vivere questo nostro Rito, in una fedeltà sempre rinnovata alla tradizione, intendendolo come espressione specifica del mistero di Cristo «che distingue la nostra Chiesa, ne costituisce la fisionomia spirituale e, in molti aspetti, caratterizza l’azione pastorale» (Sinodo diocesano 47°, cost. 87 § 1).

Noi abbiamo quindi un dovere di comunione verso chi ci ha preceduto, a cominciare da sant’Ambrogio, e lungo i secoli ha delineato il volto di questa Chiesa: non possiamo tagliare le radici da cui siamo cresciuti. Abbiamo anche un dovere verso l’intera Chiesa. Il Rito ambrosiano infatti non è proprietà nostra e di alcune parrocchie che lo seguono al di fuori della nostra Diocesi: esso è patrimonio dell’intera Chiesa e ha una grande valenza ecumenica, soprattutto in riferimento all’Oriente. Far vedere che nella Chiesa latina, pur così fortemente unitaria, c’è legittimamente la possibilità di un modo di esprimere e celebrare il mistero di Cristo diverso dal Rito romano, è un dato fondamentale per il dialogo ecumenico, per la crescita verso un’unità che non è uniformità ma ricchezza nella pluralità di manifestazione dell’unico mistero di salvezza.

Si comprende quindi perché già il cardinale Giovanni Colombo, in ciò fortemente sostenuto da papa Paolo VI, abbia riconfermato dopo il Concilio Vaticano II l’esistenza del Rito ambrosiano e ne abbia avviato la riforma, continuata dal cardinale Martini e tuttora in atto, anche su precisa indicazione del Sinodo 47°.

Quanto al Lezionario ambrosiano, specificamente ricordato dal Sinodo, mi limito a osservare che questo libro come ogni libro liturgico – anche di Rito romano o di qualunque altro rito – non può nascere da una consultazione, ma è opera di specialisti che devono ben conoscere la tradizione liturgica della nostra Chiesa e saperla interpretare non solo per l’oggi, ma anche per il domani. Ritengo però opportuno il suggerimento che ci sia maggiore attenzione alla realtà di oggi e maggiore coinvolgimento, come indicherò alla fine di questo mio intervento. Come pure ritengo importante che ci sia uno sforzo ancora maggiore per una conoscenza e spiegazione dei principi e delle scelte operate dal lezionario.

Circa poi la “fretta”, devo precisare che il fatto della promulgazione del Lezionario ora avvenuta nasce dall’incrocio di alcune circostanze che nella mia responsabilità di Arcivescovo di Milano e di Capo Rito ho ritenuto in coscienza di non poter non cogliere: un contesto ecclesiale dove la coscienza biblica è cresciuta e la conoscenza della Parola di Dio è aumentata, un lavoro di preparazione durato anni e finalmente giunto a conclusione, la nuova traduzione della Bibbia in italiano da parte della Conferenza Episcopale Italiana, l’uscita del nuovo Lezionario romano, la disponibilità della Santa Sede e dello stesso Sommo Pontefice a concedere la recognitio. Potevo assumermi davanti alla Chiesa di Milano di oggi, ma anche di ieri e di domani, la responsabilità di lasciare cadere nel nulla tutto ciò?

2) Una seconda scelta importante e caratteristica di questi anni è quella delle comunità pastorali. Non è possibile qui riprenderne le motivazioni, spiegarne le modalità di realizzazione, entrare nel dettaglio delle questioni. Rimando per questo al volume La Comunità Pastorale (Milano, Centro Ambrosiano, 2009) che contiene gli interventi autorevoli che hanno delineato questa scelta, offre alcune concrete indicazioni elaborate dall’apposita commissione, risponde con precisione a curiosità, perplessità e obiezioni. La sua attenta lettura potrà aiutare a superare incomprensioni e difficoltà.

Nel complesso dei vostri interventi la scelta delle comunità pastorali non è stata rifiutata nel suo insieme, anzi è stata anche compresa e apprezzata per le sue potenzialità, in particolare da parte di chi la sta vivendo, con fatica ma anche con passione. In ogni caso non è stata indicata un’alternativa.

I rilievi critici vertono soprattutto su alcune modalità con cui sono state realizzate le comunità pastorali in questi primissimi anni, specie nel loro avvio. I rilievi che riguardano alcune comunità sono: la scarsa preparazione, lo studio piuttosto carente della situazione locale, il non sufficiente coinvolgimento delle persone (dei preti e delle comunità), il mancato accompagnamento dopo la costituzione della comunità, la non distinzione tra la validità del progetto e la sua attuazione nei modi concreti e specifici e nei tempi necessari.

Sono aspetti, questi, che esigono una considerazione seria e responsabile. Me la assumo e personalmente e con i miei più stretti collaboratori. Ce l’assumiamo tutti nel segno della corresponsabilità ecclesiale e specificamente presbiterale, anche come indicherò al termine.

Antiochia, una Chiesa della missione

«Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati”. Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono. Essi, dunque, inviati dallo Spirito Santo, scesero a Seleucia e da qui salparono per Cipro» (Atti 13, 2-4).

Un’ultima caratteristica della Chiesa di Antiochia, nel suo essere “regola pastorale” della nostra Chiesa, è quella della missione. Da Antiochia parte la prima azione missionaria propriamente tale della Chiesa.

Il protagonista è lo Spirito Santo. E’ lui che invia Paolo e Barnaba e che si manifesta al collegio dei responsabili della Chiesa di Antiochia durante la preghiera e il digiuno. Lo Spirito rimarrà sempre il soggetto principale della missione e si farà presente in modo talvolta misterioso (per ben due volte gli Atti ci dicono che «lo Spirito di Gesù aveva impedito loro» e «lo Spirito di Gesù non permise loro» di annunciare la Parola dove avevano programmato di fare) e tal’altra in modo più esplicito, come attraverso la visione del Macedone che invita Paolo a dare inizio all’evangelizzazione dell’Europa (cfr Atti 16, 9-10).

Ma la guida dello Spirito non toglie la necessità che la missione evangelizzatrice segua una precisa strada e un preciso metodo, attui cioè un piano pensato e ben articolato. E’ quanto risulta dal resoconto che gli Atti e le lettere di Paolo fanno dei viaggi missionari: quanto era avvenuto in modo anonimo e estemporaneo su iniziativa di singoli “ispirati”, come Filippo in Samaria o come gli anonimi fondatori della Chiesa di Antiochia, ora, con il primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba, diventa “istituzionale”, attraverso un mandato ufficiale, in risposta alla vocazione dello Spirito Santo, con la ratifica della comunità di Antiochia.

La missione vede impegnati in prima persona solo alcuni: Barnaba, Paolo e i loro accompagnatori e discepoli. Ma sempre parte dalla Chiesa e ritorna alla Chiesa: «di qui [Attalia] fecero vela per Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono loro tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani le porte della fede. E si fermarono non poco tempo insieme ai discepoli» (Atti 14, 26-28).

Sempre gli Atti e le lettere paoline ci dicono che molti sono coloro che si dedicano alla missione: non solo gli apostoli, ma anche quelli che potremmo chiamare fedeli laici, a cominciare dai coniugi Aquila e Priscilla, collaboratori, amici e “salvatori” di Paolo (cfr Rm 16, 3-5).

La Chiesa è sempre stata e sempre sarà missionaria, perché ad essa sono affidati l’annuncio e la testimonianza del Vangelo. In alcuni momenti questo aspetto ha bisogno di essere accentuato in termini più forti e incisivi. Fin dall’inizio del mio ministero episcopale tra voi ho manifestato la mia ferma convinzione che questo – in particolare - è uno di quei momenti.

Più volte ho anche cercato di mostrare che le diverse scelte di questi anni non sono slegate tra loro, non nascono affatto dalla voglia di cambiare per cambiare o dalla frenesia del nuovo e del diverso, ma trovano il loro senso – e dunque la loro verità e urgenza - nella necessità che la nostra Chiesa sia più missionaria, vivendo questa istanza evangelica in un’ottica di pastorale di insieme e dunque di comunione e in un rilancio di una diffusa ministerialità.

Lo ripeto ancora una volta: tutto questo non dipende dal numero calante di noi presbiteri e dal nostro invecchiamento. Ci fosse pure il doppio di sacerdoti e tutti fossero giovani, non si potrebbe comunque andare avanti come si è sempre fatto. Ma perché? Perché le istanze della “missionarietà”, della “comunione” anche a livello pastorale, della “ministerialità” non sono minimamente delle scuse per coprire la carenza dei preti, ma sono esigenze interne ed essenziali alla stessa Chiesa. E’ in gioco dunque la natura della Chiesa, così come la vuole e la ama il Signore Gesù!

Essere presbiteri in modo missionario (ma c’è il presbitero che non sia radicalmente missionario?) significa non dimenticare che anche se si risiede in una comunità cristiana territorialmente circoscritta, ci si deve sentire sempre “in viaggio”. Il presbitero che partecipa del ministero apostolico è mandato “a tutte le genti” nel momento stesso in cui opera a favore di “quella gente”. E questo comporta, tra l’altro, due cose: che il presbitero all’interno della propria comunità cristiana coltivi sempre più una reale passione per l’annuncio del Vangelo ad ogni persona e che quindi le sue relazioni siano aperte a tutti; che come Chiesa locale ci si senta fortemente in comunione con le altre Chiese sorelle. Qui sta il senso della scelta – che ritengo assolutamente qualificante per la nostra Chiesa di oggi – di una conferma e di un rilancio dell’esperienza fidei donum, nonostante il diminuire del clero: un’esperienza che riguarda non solo i presbiteri, ma anche i diaconi, i laici, le famiglie e che vede la collaborazione delle sorelle di vita consacrata.

Ovviamente anche la “stabilità” di un presbitero in una comunità ha un suo valore, che molti di voi giustamente hanno richiamato. Ma si tratta, pur sempre, di una stabilità “missionaria”. In tal senso è importante che le relazioni del presbitero restino sempre “pastorali” e abbiano una vera carica “missionaria” e “apostolica”.

Relazioni “pastorali”: perché non necessariamente legate a simpatie o ad affinità personali (che sono anche un bene e un dono del Signore), ma aperte a tutti, a partire da una vera libertà interiore, libertà che è propria di chi ha lasciato tutto per seguire il suo Signore. In questa linea, come vorrei illustrare nella prossima solennità di san Carlo, va compresa anche la scelta celibataria, che ha inscritta in sé una profonda tensione missionaria e che si apre ad un orizzonte universale.

E poi relazioni qualificate come missionarie e apostoliche nella loro apertura a tutti nella concretezza degli ambiti di vita in cui le persone trascorrono l’esistenza. Vorrei allora che venisse ripresa e valorizzata - non solo da parte dei presbiteri ma di tutte le comunità cristiane - l’intuizione del Convegno di Verona sugli ambiti di vita che caratterizzano il mondo di oggi. Ambiti in cui annunciare e testimoniare il Vangelo con una forte attenzione antropologica ed esistenziale, superando astrattezze ed eccessive settorializzazioni della pastorale e guadagnando così anche una maggior unitarietà e sobrietà dell’azione pastorale stessa. L’incontro mondiale delle famiglie che si terrà nella nostra Diocesi nel 2012, dedicato a “Famiglia, lavoro e festa”, potrà essere una preziosa occasione per riprendere queste tematiche, sviluppando quanto si è cercato di realizzare nell’ultimo percorso pastorale triennale.

Non possiamo comunque dimenticare che è vera relazione pastorale sia quella, prolungata nel tempo, di accompagnamento spirituale di una persona, sia quella che avviene un’unica volta ad esempio nel sacramento della confessione o nella disponibilità a rispondere a una richiesta occasionale. In questo senso si deve precisare la definizione del presbitero come “uomo delle relazioni”: sì, il prete è uomo della relazione nel senso di “uomo della relazione pastorale”.

3. DALLA CHIESA DI ANTIOCHIA AL NOSTRO CAMMINO FUTURO

E’ necessario ora arrivare ad alcune indicazioni per il nostro prossimo cammino di Chiesa.

Ma fondamentale è qui una premessa: desidero che tutto quanto ora proporrò – e che ho già confrontato una prima volta con il Consiglio episcopale milanese – sia oggetto di riflessione, di dibattito e di orientamento già nel prossimo incontro dei Decani del 3 giugno (eventualmente da riprendere nella “Tre Giorni Decani”) e nell’incontro congiunto dei Consigli presbiterale e pastorale diocesano del 20 giugno.

Per questo motivo ho preferito raggruppare qui al temine tutte le proposte concrete, affinché ci sia la possibilità di affrontarle con chiarezza e libertà nelle modalità e nelle sedi più opportune. Lo stile della sinodalità non è né una concessione né una pretesa, ma è una richiesta che è segno e frutto della corresponsabilità propria della Chiesa come tale e, in specie, della realtà e del dinamismo propri del presbiterio. Anche in questo modo la Chiesa di Antiochia diventa realmente e concretamente la nostra regola pastorale.

Il percorso pastorale del prossimo anno

Anzitutto per quanto riguarda il percorso pastorale del prossimo anno ritengo sia da accogliere con grande gioia e con piena disponibilità la proposta del Santo Padre dell’Anno Sacerdotale. Lo vorrei intendere in un duplice senso: in riferimento cioè al sacerdozio ministeriale e al sacerdozio comune dei fedeli. Non come realtà contrapposte o solo accostate: il sacerdozio ministeriale è infatti al servizio del sacerdozio comune dei fedeli, affinché, come recita la terza preghiera eucaristica, tutti noi possiamo essere un sacrificio perenne gradito a Dio, come Corpo di Cristo, come tempio dello Spirito. E’ questa l’affascinante verità della vita cristiana che il Concilio Vaticano II ci ha riproposto: “Per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui che dalle tenebre li chiamò all'ammirabile sua luce (cfr 1 Pt 2,4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr At 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr 1 Pt 3,15)” (Lumen gentium, 10).

Per i presbiteri e i diaconi propongo che a livello diocesano la Formazione permanente offra nel prossimo anno un’ampia possibilità di esercizi spirituali, guidati in particolare da chi ha o verrà chiamato ad assumere un compito di accompagnamento spirituale: esercizi che aiutino a riscoprire l’identità del presbitero in riferimento a una Chiesa comunione missionaria e ministeriale e in relazione alla realtà del “presbiterio”.

A livello decanale penso sia utile prevedere un’iniziativa residenziale per tutti i presbiteri (e, possibilmente, per i diaconi) di quel decanato. Affinché ciò si possa realizzare sarà necessaria la disponibilità alle sostituzioni da parte dei presbiteri dei decanati vicini e potrà essere l’occasione per qualche scelta di sobrietà nel numero delle iniziative e delle celebrazioni: scelte, queste, che le nostre comunità sapranno apprezzare se ben spiegate, se mostrate come condizione per avere un presbiterio più unito e più fraterno.

Scopo di questi giorni di confronto decanale – di cui dovrà farsi carico la Formazione permanente in accordo con i Vicari episcopali di zona e i decani – sarà quello di arrivare a una riscrittura della “carta di comunione”, intesa in modo nuovo come “carta di missione”. Con questa espressione intendo l’elaborazione - attraverso una rilettura missionaria condivisa del territorio che riprenda, ove già effettuata, i risultati della Visita pastorale - di un impegno comune pastorale del presbiterio nel decanato. Sarà l’occasione per ipotizzare forme di pastorale di insieme per le parrocchie (a cominciare dalle comunità pastorali) e per la pastorale giovanile e per immaginare e lanciare nuove e coraggiose forme di missionarietà.

Il tutto poi dovrà essere ripreso e confrontato con gli operatori pastorali del decanato, in particolare nei consigli pastorali decanali. In questo impegnativo esercizio di discernimento deve essere tradotta in scelte concrete e condivise la linea della sobrietà pastorale, così spesso e da tutti evocata e così timidamente incarnata nelle decisioni operative.

Non dovrà poi mancare, durante questa esperienza residenziale, l’elaborazione di una “regola di vita” del presbiterio decanale, attenta alla concretezza della vita dei presbiteri e alle esigenze della fraternità decanale.

Per i laici impegnati nelle parrocchie e nelle comunità pastorali, riprendendo iniziative già altre volte sperimentate, propongo una settimana di formazione pastorale di base da tenere a livello di zona, che non vuole sostituire percorsi più specializzati (come le scuole diocesane per operatori pastorali e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose), ma richiamare ai fondamenti dell’impegno pastorale laicale.

Ritengo infine importante che nel prossimo anno si metta a tema anche la pastorale vocazionale, con attenzione alle vocazioni al ministero, alla vita consacrata, al laicato impegnato. Sarà opportuno verificare quanto si sta facendo e tentare qualche forma nuova. Penso in particolare a esperienze vocazionali con qualche modalità sperimentale di “residenzialità”, che riguardino in particolare gli adolescenti e i diciottenni degli ultimi anni delle Superiori, gestite dal Seminario anche fuori dalle proprie sedi. Ma vorrei che si desse anche qualche contorno più concreto all’idea, emersa durante le assemblee e già proposta dal Consiglio pastorale diocesano, di un “seminario per i laici”.

Una maturazione più condivisa dei “cantieri aperti”

Circa i cosiddetti cantieri aperti, propongo quanto segue, affinché possano maturare in termini di maggiore condivisione ed efficacia.

1) In relazione alle comunità pastorali, la Commissione arcivescovile incaricata dovrà monitorare quelle già esistenti, verificando in particolare l’esistenza effettiva del progetto pastorale e della regola di vita. Ogni futura comunità pastorale potrà essere avviata solo se, sempre con l’aiuto della suddetta commissione, sarà stata saggiamente e coralmente preparata, anzitutto con la diretta responsabilità del Vicario episcopale ed insieme con un più forte coinvolgimento del presbiterio, degli operatori pastorali e delle comunità del decanato. Andranno inoltre precisate e sperimentate anche altre forme di pastorale di insieme, soprattutto a livello cittadino o di decanato, vedendo in ogni caso nelle comunità pastorali la realizzazione “principe” della pastorale di insieme, cui tutte le altre dovranno riferirsi.

2) Circa la riforma del Rito ambrosiano - che deve concludersi con la revisione del messale, il completamento della Liturgia delle ore e la predisposizione del Rito dell’iniziazione cristiana - propongo che la Congregazione per il Rito Ambrosiano venga integrata con alcuni rappresentanti dei decani e dei due Consigli diocesani. Si dovranno trovare persone che abbiano, insieme a una vera sensibilità pastorale, una sufficiente preparazione liturgico-sacramentale e siano disposte ad assicurare tempo allo studio e al confronto con gli specialisti.

3) Quanto alla pastorale giovanile, penso sia opportuno concludere l’iter delle diverse bozze, giungendo a un testo che abbia una certa definitività, da attuare e verificare nei prossimi anni. Anche in questo caso occorrerà trovare chi, in rappresentanza dei vari organismi diocesani e di quanti operano nel campo della pastorale giovanile (penso anzitutto ai presbiteri dei primi anni di ordinazione, ai membri di Aquila e Priscilla, alle persone consacrate), potrà assumersi questo compito.

4) Da alcuni anni si stanno sperimentando nuove modalità per l’iniziazione cristiana. Già dallo scorso anno è stata acquisita la scelta della pastorale battesimale e post-battesimale ed è stata proposta all’intera comunità diocesana. L’apposita Commissione ha espresso, a partire dalla sperimentazione attuata, un chiaro orientamento favorevole a una proposta unitaria che in termini “catecumenali” abbracci l’intero cammino dell’inserimento nella comunità cristiana a partire dal Battesimo sino all’età della preadolescenza. Il Consiglio episcopale, che ha affrontato l’argomento in più riunioni, si è pure dichiarato positivamente per questo orientamento.

In questo campo, però, resta ancora molto da fare. Per tale motivo penso sia opportuno che le comunità pastorali e parrocchiali si impegnino con più decisione nella pastorale battesimale e post-battesimale, preparando così progressivamente le famiglie e i bambini, diventati poi ragazzi, a vivere le nuove modalità come naturale e ovvia evoluzione del cammino incominciato con il Battesimo.

L’allargamento progressivo delle nuove modalità a tutta la Diocesi sarà ancora lungo ed esige una più ampia condivisione delle motivazioni, una più precisa conoscenza di quanto è stato fatto nelle parrocchie sperimentanti e anche nelle altre, e richiede una preparazione di strumenti e di sussidi adeguati: propongo quindi che la Commissione arcivescovile, che ha guidato la sperimentazione, sia integrata con l’aggiunta di rappresentanti dell’assemblea dei decani e dei due Consigli diocesani e che tutta la questione, prima di qualsiasi decisione definitiva, sia ripresa approfonditamente da questi organismi di partecipazione, a partire da quanto maturato nel Consiglio episcopale.

5) Quanto alla formazione permanente e al cammino di introduzione al ministero, ritengo sia necessario trovare forme più intense di accompagnamento dei presbiteri e anche dei diaconi permanenti, individuando figure sacerdotali adatte a tali compiti. Per ora propongo, raccogliendo quanto era già stato sollecitato negli scorsi anni, che la proposta dell’ISMI per i giovani sacerdoti prosegua per altri cinque anni dopo i quattro anni di avvio nel ministero.

Per quest’ultima esperienza, che ha tra l’altro l’esplicito intento di responsabilizzare con il Seminario anche il presbiterio diocesano e la comunità cristiana nell’accompagnamento dei giovani sacerdoti, credo sia necessario che con la collaborazione di tutti gli interessati si presti una particolare attenzione alle esperienze in atto al fine di individuare modalità di attuazione sempre più personalizzate e utili a favorire una reale crescita umana, evangelica e pastorale dei novelli presbiteri: sono essi la “speranza” della nostra Chiesa di oggi e di domani.

L’impegno degli organismi di partecipazione

Nel 2010 giungerà a conclusione il mandato degli attuali decani e organismi di partecipazione. Anche in vista del loro rinnovo, è utile vivere quest’anno sperimentando qualche forma più intensa e coordinata di partecipazione.

Proporrei pertanto un cammino comune a più livelli. In concreto: che i decani, il Consiglio presbiterale, il Consiglio pastorale diocesano e i Consigli pastorali decanali affrontino nel prossimo anno pastorale, in modo coordinato e con le loro specificità, dei temi comuni. Essi potrebbero essere: la pastorale di insieme e le comunità pastorali, la pastorale giovanile, la pastorale vocazionale, l’iniziazione cristiana.

Le due Giunte dei consigli diocesani e la segreteria dei decani potranno studiare le forme migliori per attuare tutto ciò, a partire dalla scelta dei temi e dei tempi per il loro approfondimento condiviso.

Conclusione

Carissimi, ho cercato di presentare la Chiesa di Antiochia come immagine di quella che è e deve essere la nostra Chiesa di Milano oggi e nel prossimo futuro, anche raccogliendo le istanze emerse nelle assemblee per anni di ordinazione. Per la verità, le parole e le indicazioni operative che vi ho confidato non riescono ad esprimere tutta la ricchezza dell’Assemblea sinodale, né rispondono a tutte le domande ricevute, né pretendono di risolvere i problemi che con franchezza avete segnalato.

Come sono sproporzionate le nostre forze rispetto al compito che ci è stato affidato! Come sono inadeguate le nostre risposte! Come sono complessi e faticosi i nostri tentativi di continuare la splendida tradizione della Chiesa dei santi Ambrogio e Carlo e di tutti i santi vescovi e preti e fedeli ambrosiani!

Ma io credo che in ogni tempo la Chiesa e, in essa, in particolare i ministri ordinati sono come l’oro nel crogiuolo, sono come l’uva sotto il torchio: perché risplendano la bellezza e la gloria è necessario passare attraverso la tribolazione! Lo ricordava, nella festa liturgica di san Vittore martire, il nostro santo Patrono parlando della fede simboleggiata dal chicco di senapa: “Anche la fede è semplice, ma se vien macerata dalle avversità, essa effonde l’incanto della sua forza, talchè riempie col suo aroma anche coloro che ne odono parlare o leggono a suo riguardo” (Esposizione del vangelo secondo Luca, VII, 178).

Vorrei allora concludere con le stesse parole con le quali terminavo la meditazione tenuta proprio ad Antiochia durante il pellegrinaggio dell’ISMI.

In quella città «per la prima volta i discepoli del Cristo furono chiamati “Cristiani” e quindi qui ebbe inizio il cammino di quello che verrà chiamato il “Cristianesimo”. Si trattava di un Cristianesimo di frontiera, non del tutto identico al Cristianesimo di Gerusalemme, un Cristianesimo missionario le cui caratteristiche emergono bene dai testi del Libro degli Atti degli Apostoli. Era un Cristianesimo germinato dal sangue di Stefano, un Cristianesimo aperto, appassionato per la causa della salvezza universale, desideroso di entrare in dialogo con ogni cultura, un Cristianesimo capace di riconoscere e valorizzare i carismi, un Cristianesimo nel quale le avanguardie profetiche e l’autorità istituzionale operavano in armonia […]. Davvero ad Antiochia noi incontriamo un apostolo e una comunità strettamente uniti nel dinamismo della missione.

Qui [ad Antiochia] si è compiuto un singolare discernimento spirituale nel quale la chiamata apostolica e l’esperienza ecclesiale si sono intrecciate e si sono reciprocamente illuminate.

Qui dunque vogliamo affidare all’intercessione di san Paolo il cammino del nostro personale ministero, intrecciato con quello delle comunità a cui siamo stati inviati. Il Signore Gesù ci conceda di comprendere sempre meglio la verità e la bellezza della nostra vocazione presbiterale, mentre spendiamo con gioia tutte le nostre energie a favore della comunità cristiana a cui ora siamo legati, nel grande orizzonte della salvezza universale e quindi con quel respiro missionario di cui Paolo è stato testimone esemplare e affascinante».

Così sia per la nostra Chiesa di Milano e per noi, chiamati ad amarla e servirla come pastori.

+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano

Milano, 20 maggio 2009

Gli ultimi articoli

Missionari laici della Consolata in Venezuela

16-07-2024 Missione Oggi

Missionari laici della Consolata in Venezuela

Prima di tutto vogliamo essere grati a Dio, alla Chiesa e ai Missionari della Consolata; la gratitudine è la nostra...

Mozambico. Non è mediatica, ma è una guerra

16-07-2024 Notizie

Mozambico. Non è mediatica, ma è una guerra

Una regione del Paese africano alla mercé della guerriglia islamista C’era ottimismo a Maputo, la capitale mozambicana. La guerriglia a Cabo...

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

15-07-2024 Missione Oggi

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

La Corte di Giustizia dello Stato del Paraná (Brasile) ha tenuto dal 3 al 5 luglio l'incontro sulla Giustizia Riparativa...

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

14-07-2024 Missione Oggi

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

I rappresentanti dei popoli nativi dell'Amazzonia peruviana, insieme ai missionari, si sono riuniti nella Prima Assemblea dei Popoli Nativi, che...

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

13-07-2024 Notizie

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

La comunità di Casa Generalizia a Roma festeggerà, il 18 luglio 2024, il 25° anniversario di ordinazione sacerdotale di padre...

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

13-07-2024 Allamano sarà Santo

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

L'11 maggio 1925 padre Giuseppe Allamano scrisse una lettera ai suoi missionari che erano sparsi in diverse missioni. A quel...

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

11-07-2024 Allamano sarà Santo

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

In una edizione speciale interamente dedicata alla figura di Giuseppe Allamano, la rivista “Dimensión Misionera” curata della Regione Colombia, esplora...

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

10-07-2024 Domenica Missionaria

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13 La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata...

"Camminatori di consolazione e di speranza"

10-07-2024 I missionari dicono

"Camminatori di consolazione e di speranza"

I missionari della Consolata che operano in Venezuela si sono radunati per la loro IX Conferenza con il motto "Camminatori...

onlus

onlus

consolata news 2

 

Contatto

  • Viale Mura Aurelie, 11-13, Roma, Italia
  • +39 06 393 821