Il paradosso dell’incarnazione di fronte al pluralismo delle religioni

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Il pluralismo religioso è senza dubbio la grande sfida che il Cristianesimo deve affrontare all’inizio del II millennio. Si tratta di una sfida più radicale dell’ateismo, perché pone direttamente in causa l’identità cristiana stessa. Anche se la parola appare troppo forte per designare i grandi mutamenti all’interno del pensiero cristiano, mi sembra legittimo parlare del pluralismo religioso come di un nuovo paradigma in teologia. È la risposta ad un momento storico che non è più solo sotto il segno, come nel secolo scorso, dell’indifferenza religiosa e di una secolarizzazione trionfante, ma della vitalità delle grandi tradizioni religiose.

Il Cristianesimo rimane la prima religione del mondo con più di due miliardi di fedeli. Ma l’Islam conta già più di un miliardo di credenti e le grandi religioni dell’Oriente, come l’Induismo e il Buddismo, che coesistono in modo armonico con la modernità tecnica mantengono la loro affermazione su milioni di asiatici.

E si riscontra che esse esercitano una crescente seduzione sui
popoli dell’America del Nord e dell’Europa. A partire dalla globalizzazione, dallo sviluppo della rete di comunicazione, dalla molteplicità dei flussi migratori, le religioni non cristiane sono sempre più conosciute e noi abbiamo una coscienza molto più viva della relatività storica del Cristianesimo.

Ma si può anche interpretare la crisi dell’identità cristiana come una conseguenza della rivoluzione dottrinale operata dal Concilio Vaticano II, quando questo ha portato un giudizio positivo sulle religioni del mondo. Pur mancando un approfondimento dottrinale, l’insieme del popolo cristiano ha iniziato ad interrogarsi sull’insegnamento tradizionale concernente l’identità cristiana. Anche se il testo di Nostra aetate non parla esplicitamente del valore salvifico delle altre religioni, riconosce in esse semi di verità e di bontà. Allora come continuare a considerare il Cristianesimo come l’unica religione vera tra le religioni del mondo? E se Dio solo salva, perché insistere così tanto sull’unicità della mediazione di Cristo per la salvezza di tutti gli esseri umani nel tempo e nello spazio? Infine, se gli uomini e le donne di buona volontà possono compiere la loro salvezza nella fedeltà alle loro proprie tradizioni religiose, come fare dell’appartenenza alla Chiesa la condizione della salvezza eterna?

All’epoca del dialogo interreligioso la pretesa per l’unicità e l’universalità sembra esorbitante. Cominceremo dal prendere coscienza dello stato di eccezione del Cristianesimo nel concerto delle religioni del mondo. Esso sembra sfuggire alle condizioni generali di ogni dialogo. È per questo che, al fine di favorire un vero dialogo, alcuni teologi sono tentati di rimettere in causa l’unicità della mediazione di Cristo e di orientarsi verso un teocentrismo. Il mio proposito in questo contributo sarà di mostrare che è proprio la fedeltà alla teologia dell’incarnazione, cioè al paradosso di Cristo come uomo-Dio, che permette di assicurare in modo corretto il carattere dialogale del Cristianesimo tra le religioni del mondo. In una parola, contrariamente alla tentazione permanente del Cristianesimo storico, non bisogna confondere l’universalità del mistero di Cristo e l’universalità della religione cristiana.

Lo stato di eccezione del Cristianesimo Il dialogo interreligioso non sfugge alle condizioni generali di ogni dialogo autentico. La prima regola è quella di rispettare l’altro nella sua differenza. Da quando la missione della Chiesa non è più legata strettamente all’espansione coloniale dell’Occidente, si assiste ad un miglior
riconoscimento dei valori culturali e religiosi delle altre civiltà nel rispetto della loro alterità. La seconda regola è la fedeltà alla propria identità, cioè al proprio impegno di fede all’interno della propria tradizione religiosa. Non è necessario mettere la propria fede tra parentesi per meglio dialogare con degli interlocutori che si rifanno ad una convinzione differente. In tal modo si evoca il paradosso stesso del dialogo interreligioso. C’è una tensione inevitabile tra la deontologia propria di ogni dialogo e la convinzione intima del soggetto religioso di possedere già la verità. Si tratta di conciliare l’elemento di incondizionatezza che ogni fede religiosa comporta con un’attitudine di apertura e di dialogo di fronte alle convinzioni degli altri.

La terza regola a cui deve obbedire il dialogo interreligioso è l’uguaglianza tra gli interlocutori del dialogo. È proprio qui il punto sul quale il dialogo tra il Cristianesimo e le altre religioni sembra scontrarsi con una difficoltà impossibile ad essere superata. Come ogni altra religione, il Cristianesimo si riferisce ad una particolarità storica, ma di fatto, all’interno delle religioni del mondo, il Cristianesimo rivendica immediatamente una situazione di eccezione nella misura in cui il suo messaggio è interamente relativo ad una mediazione storica che coincide con l’irruzione dell’assoluto stesso che è Dio. Nessun’altra religione ha la pretesa di richiamarsi ad un fondatore che non è solamente un profeta, un inviato di Dio o un mediatore, ma il Figlio stesso di Dio. È questa una difficoltà permanente nel dialogo del Cristianesimo con i membri delle altre religioni. A partire dall’unicità della mediazione di Cristo per la salvezza, come reinterpretare questa singolarità cristiana senza che il Cristianesimo appaia immediatamente come superiore ad ogni altra
religione? Sarebbe facile da mostrare come gli interlocutori non cristiani del dialogo fanno spesso l’esperienza di una certa condiscendenza o di un imperialismo nascosto da parte del Cristianesimo. Lo si può verificare nel caso del dialogo ebraico-cristiano e del dialogo con i Mussulmani. Ma ciò è vero anche nel dialogo con le religioni dell’Oriente, in particolare con l’Induismo. Anche se la teologia cattolica ha attuato una revisione decisiva del suo anti-guidaismo e anche se accetta che la dualità chiesa-Israele costituisce una dualità irriducibile, noi accettiamo di malgrado l’asimmetria fondamentale tra le due religioni sfociate da Abramo. Mentre il Cristianesimo non può concepire se stesso al di fuori delle sue radici ebraiche, l’Ebraismo post-cristiano si pensa invece al di fuori della sua relazione a Gesù Cristo e al Cristianesimo. Parimenti, nel dialogo con l’Islam, i nostri interlocutori musulmani nutrono il sentimento che il dialogo fosse diseguale dall’inizio. Infatti anche se l’Islam non riconosce la filiazione divina di Gesù, questi è una figura del tutto fondamentale per la fede musulmana. È un profeta molto grande, il “sigillo della santità”, come è detto nella tradizione, e i musulmani sono disposti ad accogliere il suo messaggio come la Parola stessa di Dio. Per contro, molti teologi cristiani non sono d’accordo nel riconoscere la profezia di Maometto come quella di un inviato di Dio. Infine se si tratta delle grandi religioni dell’Oriente, in particolare dell’Induismo, i loro fedeli accettano difficilmente l’idea che la loro tradizione religiosa ha un valore positivo unicamente nella misura in cui ha un legame nascosto con il mistero di Cristo, che è l’unico salvatore di tutti gli uomini. Come prendere sul serio un’esperienza spirituale nella sua differenza se questa non ha valore di salvezza, se non nella misura in cui è già implicitamente cristiana? Certo, l’adesione esplicita al mistero di Cristo non è essenziale alla salvezza. Ma come parlare ancora di un dialogo su di un piano di uguaglianza se per esempio gli Indù maggiormente fedeli alla loro tradizione religiosa in ciò che essa ha di più positivo sono considerati come Cristiani che non sanno d’esserlo?

Dal cristocentrismo al teocentrismo

Già prima del Concilio Vaticano II la teologia cattolica aveva superato uno stretto ecclesiocentrismo, quando si interrogava sulla salvezza di coloro che sono al di fuori della chiesa. Se si fa eccezione per qualche teologo vicino ad un tradizionalismo pre-conciliare o anche per certi rappresentanti delle chiese evangeliche, la maggior parte dei teologi ha rifiutato questo ecclesiocentrismo che coincideva anche con un esclusivismo cristologico. Piuttosto adottano generalmente un inclusivismo cristologico che per altro soggiace a numerosi testi del Vaticano II. Qui si tratta di una teologia del compimento nel senso in cui il Cristianesimo assume i valori positivi delle altre tradizioni religiose portandoli alla loro perfezione. Tuttavia oggi, in forza di un incontro più ricco di conoscenza e più realista riguardo alle ricchezze contenute nelle altre tradizioni religiose è questo inclusivismo cristologico che è rimesso in questione. Il più grande effetto della teologia del compimento è quello di non rispettare l’alterità delle altre religioni, considerandole o come preparazioni lontane, o come degradazioni dell’unica vera religione che è il Cristianesimo. Soprattutto in India, dove la cittadinanza indiana è indissociabile dall’appartenenza religiosa all’induismo, alcuni teologi cercano di prendere la distanza rispetto ad un cristiano-centrismo troppo affermato. Per favorire un dialogo su di un piano di uguaglianza, sono tentati di adottare una posizione detta pluralista che coincide con teocentrismo indeterminato: in virtù di questo tutte le religioni, compreso il Cristianesimo, ruotano attorno al sole che è la Realtà ultima dell’universo. Si riconosce qui la famosa “rivoluzione copernicana” che intende operare il teologo inglese John Hick. Nell’età di un pluralismo religioso apparentemente insormontabile, il dialogo del Cristianesimo con le altre religioni non è possibile se non si rifiuta ogni sorta di imperialismo cristiano e quindi se la teologia delle religioni viene posta sotto il segno del teocentrismo e non del cristocentrismo.

Senza condividere totalmente l’opzione pluralista di John Hick, un certo numero di teologi cattolici indiani o americani propone una versione molto incerta dell’inclusivismo cristologico o anche della mediazione di Cristo per la salvezza. Essi parlano volentieri di un inclusivismo normativo ma non costitutivo. È il caso in particolare di padre Roger Haight s.j.. Nella sua opera Jesus as simbol of God, egli considera Gesù come il simbolo della mediazione perfetta tra Dio e gli uomini. Gesù rimane la norma della verità religiosa su Dio, l’uomo e il mondo, ma non è la causa esclusiva della salvezza, perché bisogna tener conto delle altre mediazioni di salvezza di cui le altre religioni sono portatrici. Sottolinea giustamente che Dio solo salva e poiché ci sono di fatto altre mediazioni di salvezza al di fuori di Gesù, non può fare di Gesù Cristo la causa esclusiva e costitutiva della salvezza di tutti gli uomini in tutti i tempi e luoghi. Egli vede in particolare la difficoltà di come si possa rendere conto dell’azione di salvezza di Cristo in tutta la storia umana, prima della venuta di Gesù come Verbo incarnato. È l’azione di Dio come unico salvatore che è all’opera nelle altre tradizioni  eligiose. Secondo lui, bisogna quindi reinterpretare la fede tradizionale della chiesa in funzione di ciò che egli designa sempre come la nostra età post-moderna sotto il segno della coscienza storica e della fine della metafisica. Gesù è la manifestazione dell’incarnazione dell’amore assoluto di Dio. Si deve notare che la sua critica all’inclusivismo cristologico si pone in stretto legame con il suo rifiuto di una cristologia alta che egli respinge come una cristologia astratta. Prende le distanze rispetto ad una cristologia del Logos che insiste soprattutto sulla consostanzialità di Gesù con Dio e sviluppa una cristologia dal basso o ancora ciò che egli chiama una cristologia pneumatica, preoccupata soprattutto di manifestare la consostanzialità di Gesù con ogni uomo. Pur essendo perfettamente consapevole dei limiti inevitabili della formula del Concilio di Calcedonia, non sono sicuro che si debba instaurare una opposizione insormontabile tra una cristologia alta e una cristologia dal basso se si intende prendere in considerazione la totalità delle testimonianze
scritturistiche.

In ogni caso non vedo perché bisognerebbe respingere ogni cristologia alta in quanto ontologica. Se è vero che il linguaggio dell’Incarnazione è ancora un linguaggio metaforico, è incontestabile che il Nuovo Testamento testimoni senza ambiguità l’unica filiazione divina di Gesù e, al di là di tutte le discussioni esegetiche su Gesù Figlio dell’uomo e Gesù Figlio di Dio, i Vangeli ci attestano che la presenza di Dio in Gesù costituisce una rivendicazione fatta da Gesù stesso. Egli ha coscienza infatti che il Regno escatologico è giunto in lui. Al seguito di padre Jacques Dupuis credo dunque possibile conciliare un inclusivismo cristologico costitutivo e ciò che si può chiamare un pluralismo inclusivo nel senso in cui si riconoscono i valori positivi delle altre religioni. Nella teologia cristiana si deve certamente superare una falsa
opposizione tra cristocentrismo e teocentrismo. Si ha ragione di ricordare che è sempre Dio che salva. Ma secondo il disegno eterno di Dio che ci è stato rivelato negli ultimi tempi, Gesù è l’unico mediatore tra Dio e gli Uomini in quanto è il Figlio prediletto del Padre. Secondo I Tim 2,4 “non c’è che un solo Dio e un solo mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo che si è dato in riscatto per tutti”. La mediazione di Gesù non è esclusiva di altre mediazioni e certe tradizioni religiose possono essere esse stesse portatrici di un valore di salvezza. Ma è sempre in legame con l’evento Gesù Cristo nel suo mistero di morte e risurrezione. È l’insegnamento stesso dell’enciclica Redentoris missio: “il concorso di mediazioni di tipo e di ordine diverso non è escluso, ma queste traggono il loro senso e il loro valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere considerate come parallele e complementari” (n. 5).

Accetto quindi con tutta la tradizione di considerare Gesù Cristo come la causa costitutiva e non solamente normativa della salvezza, e come Jacques Dupuis cerco di conciliare tale inclusivismo cristologico con un pluralismo inclusivo, cioè il prendere sul serio gli “elementi di grazia e di verità” presenti nelle altre religioni del mondo. Ma per evitare l’imperialismo di una sorta di cristianocentrismo si tratta di reinterpretare l’unicità di Cristo come Verbo incarnato e l’unicità del Cristianesimo come religione storica. A tal fine Jacques Dupuis fa appello, come chiave ermeneutica, ad una cristologia trinitaria. Secondo lui l’azione del Verbo e dello Spirito è sempre all’opera nella storia ed essa viene in qualche modo a compensare la particolarità storica dell’evento Gesù di Nazaret. Per quanto mi riguarda preferisco trarre tutte le conseguenze dal paradosso dell’Incarnazione, cioè la manifestazione dell’Assoluto in e per mezzo di una particolarità storica, che ci invita a non assolutizzare il Cristianesimo come via di salvezza esclusiva di tutte le altre.

Il paradosso dell’incarnazione

Al fine di evitare ogni tentazione totalitaria e di favorire il dialogo del Cristianesimo con le religioni del mondo sembra preferibile ritornare al centro stesso della fede cristiana, cioè al mistero dell’Incarnazione nel suo senso più realista. Per riprendere la formula di Nicola Cusano, si tratterebbe di sviluppare tutte le implicazioni del mistero di Cristo compreso come “Universale concreto”. Sin dalle origini cristiane, la chiesa confessa Gesù come Cristo. Ciò significa che Gesù ci ha rivelato l’amore universale di Dio per tutti gli uomini e tutte le donne non solamente tramite il suo messaggio, ma per mezzo e nella sua umanità concreta. Questa identificazione di Dio come mistero trascendente a partire dall’umanità di Gesù di Nazaret è il tratto distintivo del Cristianesimo. Secondo l’affermazione assai realista di Paolo: “in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col. 2,9).

Gesù si rivela a noi come la figura dell’amore assoluto di Dio. Ma Dio non può manifestarsi agli uomini che in termini non divini, cioè nell’umanità di un uomo particolare. Noi confessiamo che la pienezza di Dio abita in Gesù. Ma questa identificazione ci rinvia al mistero stesso di Dio che sfugge ad ogni identificazione. Secondo la nostra maniera umana di conoscere, l’umanità particolare di Gesù non può essere la traduzione adeguata delle ricchezze contenute nella pienezza del mistero di Cristo. È un altro modo di esprimere l’indicazione di Calcedonia: ‘senza confusione né separazione’.

Così, in coerenza con la visione tradizionale dei Padri della Chiesa è permesso di considerare l’economia del Verbo incarnato come il sacramento di un’economia più vasta, quella del Verbo eterno di Dio che coincide con la storia religiosa dell’umanità. Secondo il titolo suggestivo in francese di un’opera di Edward Schillebeeckx, L’histoire des hommes, récit de Dieu, “La storia degli uomini racconta Dio”, è anche l’intuizione fondamentale di E. Jüngel nel suo grande libro Dio, mistero del mondo. Gesù è certamente per la fede cristiana l’identificazione del Dio personale, ma come è stato detto questa identificazione rinvia ad un mistero trascendente che supera ogni identificazione. Gesù non è quindi esclusivo di altre figure storiche che identificano in modo diverso la realtà ultima dell’universo.

Il compito di una teologia delle religioni non sta nell’edulcorare lo scandalo dell’incarnazione con il pretesto di rendere più facile il dialogo interreligioso, bensì nel manifestare che il paradosso stesso dell’incarnazione, la presenza dell’Assoluto in una particolarità storica, ci invita a non assolutizzare il Cristianesimo come una religione esclusiva di tutte la altre. Per adottare un vocabolario caro a Stanislas Breton, si deve evitare di parlare dell’unicità del Cristianesimo come di una unicità esclusiva oppure anche inclusiva, ma piuttosto parlarne in termini di unicità relativa. Ho già insistito sulla situazione di eccezione del Cristianesimo tra le religioni del mondo. Paradossalmente, proprio insistendo sulla differenza della religione cristiana, ci si trova nella migliore posizione per contribuire alla sua deassolutizzazione. Già nella sua Dogmatik del 1925 il teoloo Paul Tillich compiva una critica dell’assolutezza del Cristianesimo non solamente, come Ernst Troeltsch, in nome della storia delle religioni, ma in nome della fede stessa e del principio della giustificazione. La legge del paradosso assoluto consiste nel “no” assoluto e nel “sì” assoluto che Dio pronuncia sulla stessa persona umana. Questa legge si verifica a proposito del Cristianesimo come religione della rivelazione finale su Dio perché nel momento in cui esso presenta questa pretesa deve accettare il “no” che su di esso è pronunciato dall’incondizionato che è Dio.

La legge del paradosso assoluto si verifica nel mistero di Cristo, inseparabilmente uomo e Dio. La
persona di Gesù come manifestazione storica del Logos invisibile e universale realizza l’identità tra l’assolutamente universale e l’assolutamente concreto. Bisognerebbe qui riferirsi alla dottrina di Tillich di Cristo come “Essere nuovo” (New Being). Il paradosso consiste nel fatto che Cristo in quanto essere pienamente storico sta in un’unione indefettibile con Dio, mentre la storia è sotto il segno della caduta e della separazione da Dio. Il Cristo come evento storico che coincide con l’irruzione della rivelazione finale da parte di Dio porta la vittoria sull’ambiguità di tutto ciò che è storico. L’interesse di questa audace visione è di mostrare che lungi dall’essere contraria alla sua portata universale, la particolarità storica dell’evento Gesù Cristo ne è la condizione di possibilità. Non solamente il Cristo dona senso alla storia, ma la porta e ne è il centro come evento di salvezza. Una cristologia come quella di Tillich non specula sull’unione delle due nature nella persona di Cristo secondo lo schema di pensiero instaurato da Calcedonia. Prende in modo deliberato le distanze ne confronti del vocabolario dell’incarnazione che non appartiene al linguaggio del Nuovo Testamento. Ma non accetterebbe di dire che la filiazione divina di Gesù non è che un modo metaforico di parlare. Ciò sarebbe compromettere l’identità di Gesù e di Cristo e la cristologia
diverrebbe una gesuologia. Se Gesù è confessato come Cristo, allora si identifica al Logos ed egli è il luogo dell’identificazione tra l’assolutamente concreto e l’assolutamente universale. La dottrina di Cristo come New Being ha l’ambizione di essere un commentario del “Verbo fatto carne” di san Giovanni. E Tillich pensa di trovare un fondamento scritturistico nell’insegnamento di san Paolo sul nostro nuovo essere nel Cristo (2 Cor 5,17).

La kenosi di Dio

Sembra quindi legittimo ritrovare nel paradosso cristologico la chiave ermeneutica del dialogo interreligioso. In ogni modo in questa linea bisogna cercare di risolvere la questione cruciale di ogni teologia delle religioni che deve rispondere alle richieste del pluralismo religioso senza transigere con la confessione di fede in Cristo riconosciuto nella sua unicità salvifica. Ma per andare fino alle estreme conseguenze del paradosso cristologico per l’intelligenza del dialogo interreligioso bisogna aggiungere che la dottrina di Cristo come nuovo Essere che realizza l’unità dell’assolutamente universale con l’assolutamente concreto trae tutto il suo significato solamente alla luce di una teologia della croce. La morte è la condizione della vita, la croce è la condizione della gloria, la rinuncia ad una particolarità è la condizione di una universalità concreta.
Si può qui citare la formula paradossale di Tillich: “il Cristo è Gesù e la negazione di Gesù”.

Secondo la sua concezione dell’evento Gesù Cristo come irruzione dell’Assoluto o
dell’Incondizionato nella storia, bisogna comprendere che Cristo è tale solamente nella misura in cui ha in qualche modo sacrificato la sua esistenza storica. Il Cristo risorto libera la persona di Gesù da un particolarismo che l’avrebbe reso proprietà di un gruppo particolare, quello della prima comunità di discepoli. Da molto tempo la figura spaziale della croce ha rivestito un valore universale. Essa è il simbolo di un’universalità sempre legata al sacrificio di una particolarità. È come se Gesù morisse alla sua particolarità storica per rinascere in figura di universalità concreta, in figura di Cristo.

Proprio in riferimento al mistero della kenosi di Cristo, noi constatiamo che il Cristianesimo porta in se stesso propri principi di limitazione. Per questo è possibile esorcizzare ogni veleno totalitario nel Cristianesimo e misurare la portata esatta della sua pretesa all’universale. Lungi dall’essere una revisione imperialista e inglobante, il Cristianesimo è fedele alla sua propria singolarità solamente se si definisce per una certa mancanza e una relazione a ciò che non è. È la kenosi di Cristo nella sua uguaglianza con Dio che permette la Resurrezione nel senso più ampio della parola (cfr. Fil 2,6-8). Ma è anche la tomba vuota, l’assenza del corpo del fondatore, la condizione del sorgere del corpo della Chiesa e del corpus delle scritture. Come amava dire Michel de Certeau, il Cristianesimo è fondato su di un’Assenza originaria. Così come non c’è esperienza spirituale profonda senza coscienza di un’origine assente, ugualmente non c’è pratica cristiana senza coscienza di una mancanza che è la condizione del rapporto all’altro, allo straniero, al diverso.

Penso che qui noi disponiamo di una risorsa di pensiero assai preziosa per comprendere come il Cristianesimo può intraprendere un dialogo con le altre religioni senza compromettere la sua propria identità. Non è sufficiente compensare in qualche modo dall’esterno la pretesa del Cristianesimo di testimoniare la rivelazione perfetta su Dio, piuttosto si deve mostrare come esso abbia in se stesso propri principi di auto-limitazione. Si può allora dare un senso all’espressione “unicità relativa” che applicavo sopra al Cristianesimo, al seguito di Stanislas Breton. Egli cercava così di prendere le distanze rispetto a una unicità di integrazione o di eccellenza. Evidentemente a condizione di comprendere “relativo” non nel senso di contrario ad assoluto, ma nel senso di relazionale. Nell’epoca del pluralismo religioso è importante riappropriarsi dell’originalità del Cristianesimo cercando di definirlo come una religione dialogale. L’identità cristiana sta nell’ordin  del divenire e del riconoscimento dell’altro nella sua differenza. Si sarebbe tentati di parlarne co e di un’esistenza pasquale che di fronte ad ogni imperialismo nell’ordine del sapere o della pratica deve testimoniare ciò che le manca. Si sa che l’esperienza cristiana non può essere annoverata tra le esperienze umane autentiche, siano esse religiose o no, ma essa instaura qualcosa di inedito. Si tratta di una rottura “instauratrice” di un senso nuovo. Si possono cogliere le conseguenze di tale prospettiva non appena si riflette sulle esigenze dell’inculturazione del Cristianesimo in culture che gli sono estranee. Il Vangelo ha una vocazione universale e può divenire il bene di ogni essere umano. Ma nel confronto con culture e religioni differenti, un Cristianesimo autosufficiente che non testimoniasse una certa mancanza, sarebbe incapace di accogliere la parte di irriducibilità delle altre manifestazioni dello Spirito all’opera nella
storia.

Universalità di Cristo e universalità del Cristianesimo.

Al termne di queste riflessioni constatiamo che il difficile compito di una teologia delle religioni è quello di cercare di pensare la molteplicità delle vie verso Dio senza compromettere l’unicità della mediazione di Cristo e senza eliminare il privilegio del Cristianesimo come religione della rivelazione finale e piena del mistero di Dio. Si è potuto interpretare la dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della fede dell’agosto 2000 come un arresto imposto alle ricerche più promettenti della teologia cattolica delle religioni. Bisogna solamente accoglierla come un avvertimento molto serio indirizzato ad alcuni teologi che, per favorire il dialogo interreligioso, sono tentati di porre in discussione l’unicità salvifica di Cristo. Come si è visto, ciò che ci permette di rispettare il valore irriducibile delle altre tradizioni religiose senza sacrificare per nulla l’unicità del mistero di Cristo e del Cristianesimo è piuttosto l’approfondimento del “paradosso dell’Incarnazione” Insistendo sul paradosso stesso dell’Incarnazione, cioè l’unione dell’assolutamente niversale e dell’assolutamente concreto, si è in grado di de-assolutizzare il Cristianesimo come religione storica e di verificare il suo carattere dialogale. Dopo venti secoli nessuno dei cristianesimi storici può nutrire la pretesa di incarnare l’essenza della religione cristiana come religione della Rivelazione finale. Non si deve quindi confondere l’universalità di Cristo come Verbo incarnato e l’universalità del Cristianesimo come religione storica. Egli è infatti coestensivo a tutta la storia umana. Per contro il Cristianesimo condivide la relatività di tutto ciò che è storico. Contro alcune derive attuali il magistero ricorda il carattere completo e definitivo della Rivelazione cristiana. Ma la Rivelazione di cui è testimone il Nuovo Testamento non esaurisce la pienezza delle ricchezze del mistero di Cristo e Gesù stesso insiste sulla dimensione escatologica del suo messaggio, quando annuncia che sarà lo Spirito a condurre i suoi discepoli alla conoscenza della verit  tutta intera (Gv. 16,13). È allora consentito dire che la verità cristiana non è né esclusiva e neppure inclusiva di ogni altra verità di ordine religioso. Essa è singolare e relativa alla parte di verità di cui le altre religioni possono essere portatrici.

Ciò significa suggerire che i semi di verità e di bontà disseminati nelle altre religioni possono essere la manifestazione dello Spirito di Cristo sempre all’opera nella storia e nel cuore degli uomini. È dunque abusivo parlare di valori implicitamente cristiani secondo la semplice logica della preparazione e del compimento. Preferisco invece parlare di valori cristici. Con ciò intendo germi o semi di verità, di bontà e anche di santità che hanno un legame nascosto con la cristianità di ogni essere umano per il fatto stesso che egli è creato non solo ad immagine di Dio, ma ad immagine di Cristo come nuovo Adamo. E proprio nella loro stessa differenza essi troveranno il loro compimento nell’ultimo giorno in Gesù Cristo, anche se non trovano la loro esplicitazione nel Cristianesimo storico. I teologi del futuro dovranno sempre più affrontare l’enigma di una pluralità di tradizioni religiose nella loro irriducibile differenza. Queste non si lasciano armonizzare facilmente con le ricchezze del Cristianesimo e cercare di completare l’identità cristiana a partire dalle verità incomplete delle altre religioni sarebbe misconoscerne il valore. Ma più noi conosciamo le ricchezze delle altre religioni, più acquisiamo la capacità di procedere a una reinterpretazione creatrice delle verità su Dio e la relazione a Dio che sgorga dalla singolarità cristiana. Secondo la pedagogia stessa di Dio, nella storia della salvezza c’è una funzione profetica dello straniero per una migliore intelligenza della propria identità.



(traduzione dal francese di Alessandro Cortesi op)



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