GUARDANDO ALL'AURORA: ALTERNATIVI NONOSTANTE TUTTO, VIVERE LA SPERANZA”DENTRO” LE PAURE

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Introduzione

La nuova situazione attuale in un ottica di fede appare come un “kairos”, un momento opportuno, un appello per discernere l'oggi di Dio, un invito per cambiare rotta, come il significato etimologico greco originale della parola “crisi” ci ricorda: “ krinein”, cioè “decisione”, “cambiamento radicale”. E' il momento delle decisioni importanti perché la missione ad gentes, oggi più che mai, è chiamata a farsi portavoce dell'insopprimibile nostalgia di speranza che si cela nel cuore di ogni uomo e donna del nostro tempo. La situazione attuale della società e del mondo non consente alcun compiacimento nel catastrofismo, semmai, per tutti noi dovrebbe essere un perentorio invito alla speranza.

 

1. La paura fa parte della condizione umana. Anzi ne è una dimensione

essenziale e irrinunciabile. L'esistenza dell'uomo è radicalmente attraversata da conflitti interiori ed esterni, che mettono a dura prova la sua capacità di resistenza. Le difficoltà di rapporto con gli altri e il conseguente stato di solitudine esistenziale, la minaccia sempre incombente della natura, le frustrazioni personali, che accompagnano i processi di crescita individuale e collettiva e, più profondamente, l'orizzonte onnipresente della morte sono altrettanti "sintomi" di una situazione di malessere ontologico, che suscita

paura e persino disperazione.

A ciò si deve aggiungere, oggi, il diffondersi di un senso generalizzato di impotenza, che sembra allargarsi a macchia d'olio e diventare un tratto caratteristico della coscienza umana. Il crollo di attese, fondate sul progresso o sulla liberazione socio-politica e alimentate da ideologie e utopie di messianismo terrestre, finisce per rinchiudere sempre più l'uomo dentro se stesso, spingendolo verso l'isolamento e la rinuncia o verso forme di irrazionalità incontrollata, che spesso sfociano nella violenza.

Il ritorno al "privato" e, in certa misura, la stessa rinascita del "sacro" sono segni emblematici di questo itinerario; rappresentano cioè il tentativo, consapevole o inconscio, di sottrarsi a una situazione di disagio e di paura, evadendo dal mondo e creandosi un mondo alternativo, una sorta di paradiso artificiale al quale ancorarsi o dentro il quale ritrarsi per poter sopravvivere.

A ben guardare, disimpegno e violenza sono come due facce della stessa

medaglia. Nascono dal rifiuto della realtà, considerata invincibilmente opaca e senza senso. Sono il segno di una follia collettiva, di una maniacale tendenza autodistruttiva, che, a livelli diversi e con diversi esiti, sembra essersi impossessata dell'umanità.

Che qualcosa sia cambiato è palpabile anche nelle nostre case. “ Tu sei di altri tempi”, “ ormai queste cose non si chiedono più...”, “ non ci rendiamo conto della nostra situazione e di come stiamo...”, frasi come queste affiorano sulla bocca di tanti di noi. Tutti, per un verso o per un altro abbiamo la sensazione che il passato è definitivamente chiuso e che la nostra identità non deve essere più ricercata nelle vecchie categorie. Da qui la paura che ci prende perché abbiamo l'impressione che respiriamo qualcosa di nuovo senza però individuarla, avvertiamo sempre più con chiarezza ciò che non vogliamo anche se non intravvediamo verso quali lidi stiamo dirigendo nostra vita.

La paura assume, oggi, sembianze nuove e inedite: da paura cosmica si trasforma in paura antropologica, nel senso che trova sempre più nell'uomo le sue motivazioni e il suo fondamento ultimo. Non sono più le forze misteriose della natura o il sentimento del "sacro" i fattori che la producono; è piuttosto la realtà del mistero umano con le sue ambivalenze e i suoi limiti. L'uomo ha oggi paura di se stesso; ha paura dell'altro, che viene istintivamente considerato come rivale e nemico. Le scienze umane, aprendo alla comprensione dell'uomo orizzonti finora sconosciuti, hanno notevolmente contribuito a evidenziare la fragilità della coscienza. Quanto più l'uomo si conosce tanto più diffida di se stesso, perché diviene consapevole delle potenzialità negative che sono in lui, delle energie distruttive e degli istinti di violenza e di morte che si annidano nel profondo del suo io personale, del potere suggestionante e mortale delle ideologie e dei progetti storici, che egli stesso ha costruito per affrontare la realtà.

Le nuove possibilità che egli ha di dominare il mondo non fanno che acuire il

senso della trepidazione e dello smarrimento. La paura nasce dalla insicurezza nei confronti di se stessi, dalla convinzione crescente della propria incapacità a orientare, in modo costruttivo, il progresso verso obiettivi di vera liberazione. Il mondo progettato e trasformato dall'intervento umano è sempre più carico di tragiche contraddizioni e di insolubili aporie. L’euforia iniziale nei confronti della scienza e della tecnica va tramutandosi in un atteggiamento di terrore per ciò che esse possono provocare e hanno in parte già provocato. Aumenta la consapevolezza che tutto dipende dall'uomo, che tutto è lasciato alla sua libera decisione; e questo proprio nel momento in cui egli scopre più profondamente la sua strutturale debolezza e le sue gravi carenze.

Anche i rapporti interpersonali sono coinvolti in questa spirale di diffidenza e di

paura. L’insicurezza soggettiva rende difficile la relazione con gli altri: alla spontaneità si sostituisce la programmazione, all'immediatezza naturale il calcolo e l'incapacità di rischiare. L’incomunicabilità che ne deriva genera solitudine, e la solitudine non fa che alimentare l'incomunicabilità e la disperazione. Le nuovi e immani responsabilità di gestione della natura e della vita personale e sociale sembrano dunque accollare all'uomo un peso insopportabile. La paura è l'esito di questa situazione, suffragata,

peraltro, dall'esperienza dei pesanti scacchi già patiti e dall'assenza di prospettive di fuoriuscita attendibili per il futuro.

 

2. Il paradosso della croce. La fede cristiana non esime l'uomo dal vivere, fino in fondo, "dentro" questa situazione di paura. Il fatto che essa trovi sempre più nell'uomo e nella sua condizione di artefice del mondo la sua ragione, che in un certo senso si interiorizzi anziché essere proiettata all'esterno, risponde perfettamente al dato della rivelazione biblica.

Fin dai primi capitoli della Genesi la storia dell'umanità appare segnata da

terribili conflittualità che connotano le relazioni umane e gli stessi rapporti con il mondo: è storia di rivalità e di contese, di lotte fratricide e di incomunicabilità radicale, di fatica e di sofferenza nel dominare la natura (Gen. 3-1 1). Il motivo fondamentale è la rottura della comunione con Dio, il dramma del peccato di origine, che ha dato avvio all'insorgere di uno stato di lacerazione interiore, di squilibrio e di disarmonia, di precarietà e di morte. Rivendicando la propria autosufficienza, e perciò la propria autonomia nei confronti di Dio, l'uomo si è trovato in balia di se stesso e della propria impotenza. Nonostante tenda a scaricare la propria responsabilità, oggettivando la colpa, egli non può evitare la percezione che il mistero del male è in lui, che affonda le sue radici in quella profonda divisione dell'io, conseguenza del rifiuto della dipendenza creaturale e dell'amicizia con il Signore.

I profeti, muovendosi nel contesto dell'alleanza, insistono particolarmente su

questa dimensione interiore del disagio umano. Il cuore è per essi la sede delle

perversioni dell'uomo: da esso traggono origine gli atteggiamenti di egoismo e di ingiustizia, di sopraffazione dell'altro e di resistenza al bene. Per questo, essi

evidenziano la necessità di un radicale rinnovamento, annunciando, per i tempi

messianici, il dono all'uomo di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo, nonché la

partecipazione allo Spirito di Dio (Ez. 36, 24-28; Ger. 31, 31-34).

La riconciliazione, operata da Cristo, coincide con la restaurazione dell'umano

nella profondità ultima del suo essere. L’uomo diviene nuova creatura, chiamata a vivere nella giustizia e nella santità della verità. Lo Spirito gli restituisce la capacità di fare il bene; lo sottrae alla condizione di schiavitù e di impotenza in cui era venuto a trovarsi e lo mette in grado di vivere la logica del regno. Il dono di Dio fa, tuttavia, appello alla cooperazione e all'impegno umano. La vita cristiana non cessa di essere il frutto di una conquista, di un cammino faticoso di sconfessione dell'uomo vecchio per fare pienamente spazio alla presenza e all'azione dell'uomo nuovo creato da Dio. Il conflitto e la lotta contrassegnano ancora l'esperienza umana; la paura rimane come

retaggio irrinunciabile del mistero del male ancora presente. Ma il credente sa che le forze del bene prevarranno, che gli sarà data la possibilità della vittoria, se egli si rende totalmente disponibile all'intervento di Dio. La redenzione dell'uomo in Cristo non elimina, dunque, la conflittualità e la paura, ma le inserisce in un orizzonte nuovo e diverso. Esse non possono essere interpretate come un destino tragico e ineluttabile, al di là del quale è impossibile andare; si tramutano in condizioni necessarie, in vie obbligate per l'accesso dell'uomo alla pienezza della vita.

Tutto ciò diviene ancora più trasparente nella prospettiva del mistero pasquale,

che è il centro della fede cristiana. Accettando di condividere fino in fondo la

condizione umana, Cristo si è assoggettato alla paura in tutte le sue forme: paura dell'incomprensione e della solitudine, dell'abbandono e del tradimento, della fatica e della sofferenza fisica e psicologica. L'obbedienza incondizionata al progetto di Dio non gli ha impedito di sperimentare la debolezza della carne, la violenza della tentazione, il sentimento istintivo di angoscia e di rifiuto di fronte alla tragedia della morte (Mt. 26, 36-46). Eppure, proprio la morte, che è il luogo nel quale si condensano tutte le paure umane, è divenuto, grazie alla sua testimonianza di fedeltà e di amore, il luogo della liberazione e della vita.

Il paradosso di Cristo è il paradosso della croce. Attraverso di essa l'impotenza e il fallimento si trasformano in sorgente di speranza. Cristo non ha vinto la morte fuggendola, ma passandoci dentro, sopportandone il peso, per restituire a essa un senso e riscattarla dal negativo, aprendola al mistero della vita che non tramonta. La risurrezione del Signore rivela l'alternativa della speranza rispetto al mondo soggetto alla paura. L’inevitabilità della storia è infranta, la necessità del male è soppressa, la morte è ridotta all'impotenza. La festa della risurrezione è una festosa ribellione: la vita che ne scaturisce è una vita con una nuova qualità.

Il realismo del cristiano sa: che l'esistenza dell'uomo passa, in maniera radicale, reale e inevitabile attraverso la morte.

La morte rimane, anche per il credente, lo scacco più terribile, il momento della più totale frustrazione delle attese di autorealizzazione. Ma essa, d'altra parte, diviene, nella certezza della fede, il momento della vittoria definitiva e senza limite. Solo passando attraverso di essa è, infatti, possibile l'accesso al mistero della risurrezione, che è il contenuto fondamentale della speranza.

La logica dell'esistenza cristiana è logica pasquale; la sofferenza e la croce sono la condizione per rinascere. Non c'è risurrezione senza morte; non c'è speranza senza paura. Le lacerazioni personali e interpersonali e i conflitti collettivi, lungi dal dover essere demonizzati, si trasformano in occasione di crescita e di stimolo all'impegno umano. La riconciliazione dell'uomo con se stesso, con gli altri e con il mondo è possibile fin da quaggiù, perché la pasqua del Signore ha inaugurato i tempi nuovi. L’immenso travaglio delle sofferenze umane acquista uno spessore positivo. La paura, pur rimanendo una dimensione ineludibile della condizione umana, non conduce più alla

disperazione, ma suscita nel cuore umano la nostalgia della patria dell'identità e della vita. E spinge l'uomo a camminare sulla strada della liberazione, contribuendo acostruire con la fatica del proprio lavoro i cieli nuovi e le nuove terre.

 

3. Rendere ragione della speranza. Come comunicare questo messaggio di

speranza in un mondo come il nostro, che appare ogni giorno più dominato dalla paura e attraversato da segni di morte? A quali condizioni noi credenti, le comunità cristiane, noi missionari possiamo oggi rendere ragione della speranza che è in noi?

La speranza cristiana si oppone tanto al sentimento della disperazione quanto a

quello dell'autosufficienza. Per quanto di segno opposto, questi due sentimenti nascono dalla stessa matrice: una visione radicalmente antropocentrica della vita e della storia.

In ambedue i casi ciò che è dominante è l'assenza di un orizzonte trascendente, la riduzione della realtà allo spazio mondano. U atteggiamento che li accomuna è perciò quello della presunzione. Per questo è facile l'oscillazione dall'uno all'altro, a seconda delle esperienze personali o dei vissuti storici e socio-culturali. La speranza cristiana si fonda sulla fiducia in Dio e nella realizzazione della sua promessa; anzi, più radicalmente, sul mistero della risurrezione di Cristo come compimento di tutte le promesse e come promessa di un ulteriore e definitivo compimento per l'uomo e per il mondo. In quanto confessione del futuro assoluto come futuro dell'uomo, che egli non

raggiunge mai a partire da se stesso, con le proprie forze, ma che gli è donato e fin dall'inizio per libera grazia, la speranza cristiana suscita il senso della disponibilità e dell'attesa, della gratuità e della contemplazione; alimenta la coscienza della precarietà e della provvisorietà di tutti gli sforzi umani come di tutte le aspettative intramondane.

Nessuna ideologia storica e nessun progetto politico può, infatti, esaurirla.

L’escatologia cristiana ha come obiettivo ultimo la consumazione della storia,

Rendere ragione della speranza, da parte dei cristiani e delle comunità cristiane, significa allora, anzitutto, sconfessare le aspettative umane nella loro pretesa di assolutezza, nella loro tendenza a installarsi, in modo totalitario, nella coscienza, rendendola impermeabile al progetto di Dio. Significa restituire all'uomo la capacità di accettare tutte le paure, compresa quella della morte, nella certezza che esse non sono l'ultimo traguardo e che, in esse e attraverso di esse, va costruendosi faticosamente il mondo nuovo, inaugurato dalla redenzione del Signore. La festa della risurrezione e dell'eucaristia non è una fuga nei cieli della religione, ma sta in mezzo alla storia, per congiungervi in maniera singolare passato e futuro, memoria e speranza. La riattualizzazione della passione e della morte di Cristo è speranza nel modo della memoria. L'attualizzazione del regno futuro di Dio è memoria nel modo della speranza. Attraverso l'eucaristia noi annunciamo la morte di Cristo, fino a quando egli verrà, dice Paolo. L'eucaristia è il sacramento della memoria e della speranza insieme e, nell'accordo di queste due cose, è l'espressione di una esperienza attuale di liberazione (J. MOLTMANN, Nuovo stile di vita, Brescia 1979, p. 83).

In un momento storico, come quello che stiamo vivendo, il rischio dell'uomo

non è tanto quello di maggiorare le attese, che nascono dai progetti ideologici e sociopolitici, quanto piuttosto quello di negare a esse ogni consistenza e valore. La paura esistenziale, che serpeggia nelle coscienze, è frutto della frustrazione conseguente alla caduta di ideali e di prospettive per il futuro a lungo coltivate come vincenti. La tendenza all'individualismo e alla privatizzazione della vita, al qualunquismo e alla fuga nell'irrazionale e nell'esoterico è il sintomo allarmante del rifiuto del presente, della

rinuncia a lottare, con tutte le proprie energie, per l'instaurazione di un mondo più giusto, più a misura dell'uomo.

Ha scritto acutamente J. Moltmann: L'orientamento rivolto esclusivamente all'aldilà, che cerca Dio senza il suo regno e vuole avere la salvezza dell'anima senza una nuova corporeità, non può che favorire l'orientamento rivolto esclusivamente all'al di qua, che costruisce il suo regno senza Dio e vuole avere la nuova terra senza avere un nuovo cielo. Il Dio senza mondo degli uni e il mondo senza Dio degli altri, la fede senza speranza dei primi e la speranza senza fede dei secondi si convalidano a vicenda. Ma in questa lacerazione la vita cristiana non può che deteriorarsi (Ibi, pp. 39-40). La speranza, di cui i cristiani sono chiamati a rendere ragione, non è dunque una forma di evasione dalla realtà o, peggio ancora, di rifiuto di essa; è piuttosto una forma di partecipazione e di impegno all'interno della storia per trasformarla secondo la logica del regno.

Relativizzando le attese umane, essa libera il credente dalla presunzione

ideologica e dal totalitarismo, e lo mette in grado di accostare serenamente il mondo e la vita senza lasciarsi condizionare da essi in modo paralizzante. In questo senso vince le paure dell'uomo, non fuggendole, ma interpretandole come espressione del gemito della creazione, la quale attende la pienezza della liberazione dei figli di Dio.

 

4. Abitare il presente

Da più parti si auspica un nuovo Concilio Ecumenico, possibilmente un vero Concilio dell'ecumene cristiana. Ma quale sia il suo volto e il suo tempo, esso dovrà affrontare il problema serio della vita consacrata e della missione. E cioè: se la vita consacrata e la missione, nate in altri tempi, quando i valori condivisi da una cultura erano congrui con quelli realizzati in un esistenza donata per la missione; se esse, abbondantemente snaturate dall'assalto dei tempi, hanno un futuro oppure no. Se hanno ancora un ruolo nella costruzione del “Regno di Dio”, oppure non. Decidiamoci. Se vogliamo solo “resistere” a questo presente, nell'attesa passiva che qualcosa vada domani per il verso giusto, non abbiamo gran che da fare o da dirci. Basta, per l'appunto, aspettare, “resistere”, continuare con le cose di prima, come se nulla fosse accaduto. Ma se questo presente lo vogliamo “abitare”, se ci mettiamo in ascolto di quella parola di Dio che oggi si leva dalla nostra storia, allora, non rimuovendo i dati reali, tenteremo di udire gli appelli che da questa realtà mutata ci giungono. In fondo, i recenti congressi e documenti della Chiesa su come gestire questo cambiamento, sono un tentativo di accostamento amoroso e consapevole a queste sfide, della vita consacrata e della missione, per una diagnosi dei mali, una verifica della vitalità, ed una terapia che le rilanci nel mondo senza

accomodamenti, ma in piena consonanza con le attese del Padre. In generale, possiamo dire che prevale una prospettiva di speranza, partendo quasi dal presupposto che la vita religiosa e la missione, come hanno accompagnato e caratterizzato la Chiesa nella sua millenaria presenza tra le generazioni, così continuerà a fare anche nel terzo millennio. E' questa anche la nostra ottica, ci anima la fiducia nella vitalità dello Spirito, che troverà mezzi e modi nuovi per svegliare un po' tutti a una seria fedeltà a Cristo Signore. Una speranza, questa, che non ha temuto di confrontarsi con la storia, da sempre nostra amica. Nel testo dei Lineamenta, in preparazione al prossimo XII Capitolo Generale ci chiedevamo: “ Cambiare significa in fondo farsi la domanda: a chi e come annunciare Cristo in un mondo che cambia?. Ecco la domanda fondamentale alla quale il nostro Istituto è chiamato a dare una risposta, se vuole rimanere fedele al dinamismo missionario della Chiesa e, in esso, testimoniare la sua vocazione specifica dell'ad gentes in fedeltà dinamica al proprio carisma e proporre Cristo in modo incisivo al cuore dell'uomo moderno.” ( cfr. Lineamenta )

 

5. Radicarsi nel tempo

Fondamentale ci sembra una sorta di incarnazione della vita comunitaria cristiana nella cultura, nelle problematiche del tempo e del territorio in cui essa vive. Vogliamo una missione per “questo mondo che cambia”, per gli uomini della globalizzazione e del neo-liberalismo; una missione che trovi parole di salvezza per chi giunge naufrago alle nostre coste e per chi teme questa nuova invasione barbarica; per chi propugna un ritorno alla guerra come soluzione dei conflitti attuali, e per chi attende il riconoscimento effettivo del proprio diritto alla vita; per chi ha in cuore la nostalgia di una tramontata uniformità religiosa, e per chi vede in questo contatto di religioni e culture una possibile nuova Pentecoste. Non serve a nulla esorcizzare le domande, anche quelle in apparenza stupide ed egoiste, bisogna che nel Vangelo ogni ansia umana trovi una risposta cristiana. In ogni caso, una comunità religiosa e missionaria che vuole inserirsi nel flusso vitale di una salvezza che giunga all'uomo moderno non ha che da sintonizzarsi su quest'onda, a meno che non voglia condannarsi da sola a uno sperpero e spegnimento del proprio carisma. Sappiamo bene che nella Chiesa e nelle nostre comunità convivono diverse mentalità: la tradizionalista e la progressista... Ma, nel dialogo fraterno dobbiamo tutti dire di “si” a questo tempo “secolarizzato”, perché è il nostro tempo, mentre Dio non si limita a sopportare il nuovo, ma lo vuole, proprio per far nascere vita dalla morte, e “regno” da questo inferno. Nonostante ogni apparenza Dio non “dorme” e “ la sua destra non si è accorciata” ( Sal. 121).

 

6. Scommettere sulla missione

Dio sta “tra le case” degli uomini, per essere portato al mondo. In questo senso la Chiesa e le comunità ci sono per la missione, non viceversa. Un Istituto religioso c'è per la missione, non viceversa. Una qualsiasi comunità credente che dimenticasse la sua missione e si chiudesse nel coccolare o puntigliosamente custodire le sue verità e i suoi riti, oppure il suo carisma, tutto sarebbe, ma non Chiesa di Cristo.

La Chiesa non è l'Arca di Noè, non è la barca di Pietro che raccoglie naufraghi. Essa non è la salvezza, ma via ad essa. E' annuncio della misericordia del Padre, non misericordia essa stessa. E' lievito per una pasta che deve diventare mangiabile pane di vita e non immangiabile massa di lievito. Riflessioni, queste, tanto ovvie quanto disattese. Tanto urgenti quanto dimenticate. Se la Chiesa è missione, se una comunità è missione, dobbiamo renderci conto che l'attuale assetto ecclesiale è inadatto per trasmettere una fede alle nuove generazioni, o per annunziarla agli “altri” nel dialogo franco di chi, con semplicità, offre ricchezze di grazia da Dio ricevute.

La comunità cristiana di domani, accanto a luogo di celebrazioni di riti e di fede, dovrà essere casa per quanti hanno speranza e non si rassegnano a questa deriva di disumanità che ci attanaglia. Non chiederemo a nessuno tessere o distintivi. Come non sarà un lasciapassare sufficiente per nessuno il fatto di essere stato un giorno battezzato. L'annuncio al mondo che è possibile vivere nella pace, ribaltando vecchie e nuove logiche di guerra, la costruzione del regno sarà fatta con ogni uomo di buona volontà, nella coscienza che insieme si sta tessendo la trama della storia allo stesso telaio voluto dal Padre. Esistono qua e là “case della pace”, “case dei popoli”, “botteghe della speranza”. Intuendo lo spirito e le attività di simili istituzioni, ci chiediamo perplessi perché mai una comunità missionaria non possa essere il luogo dove abita l'amore, dove fiorisce la giustizia e dove la pace ha i suoi solerti costruttori. Perché non possa essere, dunque, casa di Dio, frequentata da ogni suo figlio.

 

Conclusione: aperti alla relazione!

Concludendo, per essere più concreti, vogliamo descrivere questo sprizzare della vita dalla morte in atteggiamenti sani che potremmo riscontrare anche in noi, e nella vita di ogni giorno con l'invito a crescere e ad aprirsi alla relazione con l'Altro. Relazione con l'Altro è “non nominarlo”, è ascoltare il suo mistero, apertura a ogni sua parola anche inconsueta. è stare sulla soglia, rinunziando a “possedere” Colui che vogliamo solo amare, Colui dal quale ci aspettiamo, nella fiducia, solo appelli per una nostra più piena umanità. Relazione è rinunziare a farci un Dio su nostra misura e secondo i nostri bisogni. Relazione è avvento di Dio nella storia dell'uomo e insieme chiamata di Dio ad approdi sconosciuti e impensabili. Relazione è essere “uno”, diventare”uno”. Sogno di Gesù espresso nella celebre preghiera sacerdotale dell'Ultima Cena: “ Che siano uno, proprio come tu, Padre, in me e io in te; che siano consumati nell'unità” ( Gv. 17,20-21).


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