APPUNTI PER UNO STILE DI CHIESA IN MISSIONE NELL’EUROPA DI OGGI

Category: Missione Oggi
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«Come essere chiesa nell’Europa di oggi» è la domanda che focalizza la riflessione di questo contributo. Dal momento poi che il ricupero teologico del rapporto chiesa-mondo come dimensione ecclesiale costitutiva, da un lato, e l’analisi dell’attuale situazione dell’Europa dall’altro convergono nel fare dell’Europa stessa uno «spazio missionario», allora la nostra domanda diventa: «Come essere chiesa-in-missione nell’Europa di oggi»; in altre parole, quale potrebbe essere lo «stile» di chiesa in missione in Europa.

Parlare di «stile» ecclesiale vuol dire introdurre un discorso di immaginazione creativa che articolando teoria e pratica vada oltre il dato istituzionale. La chiesa continua a nascere, plurale e missionaria, dal di dentro dei vari contesti storici, con forme inedite di concretezza storica.
È esponendosi alla realtà dell’Europa postmoderna ed entrando in dialogo con essa che la chiesa in Europa può darsi uno stile missionario[1].

1. Il contesto dell’Europa attuale

Oggi l’Europa è segnata da mutamenti epocali e conseguenti contraddizioni. L’orizzonte culturale è costituito dalla duplice affermazione del «soggetto» e dell’autonomia della realtà – la secolarità – come spazio della progettazione umana, e da «una logica tecnocratica, come strategia di trasformazione della realtà»[2]. Il cuore di questo intreccio pulsa per l’emancipazione, la libertà, e l’uguaglianza di tutti e per l’ottimizzazione della vita. Tutto questo però non ha impedito la violenza di ideologie totalitarie, né sembra capace di arrestare la crescita di una sottocultura di discriminazione verso lo straniero e il povero.
La radicalizzazione della soggettività ha condotto a un individualismo che comporta «una solitudine della condizione umana»[3] e logora il tessuto di solidarietà, con rapporti umani che diventano fragili[4]. Il soggetto postmoderno è ormai l’io individuale, nodo di disparate esperienze, segnato da un «vagabondare» interiore[5]. Questo soggetto a ruota libera diventa facile preda del mercato e della manipolazione che esso fa del desiderio umano, e finisce per ricercare nel consumo l’ebbrezza di un’illusoria libertà senza limiti. Il soggetto, centro del progetto umano, cede sotto il peso della sua stessa affermazione, ritrovandosi frammentato e smarrito.
Dal canto suo, scienza e tecnologia hanno sì ampliato le possibilità di libertà e di benessere individuale e collettivo e la capacità di trasformare il mondo, ma hanno anche aperto scenari drammatici fino all’avvento di un’epoca del «postumano», «il passaggio dell’umano non a qualcosa che lo supera, ma a qualcosa che lo abbatte»[6]. Lo sviluppo tecnico, pensato originariamente al servizio dell’uomo, diventa fine a se stesso. L’euforia per il potere tecnologico viene così confrontata dall’incombenza del «rischio», quasi nuovo mastice dell’Occidente e del mondo e nuova condizione esistenziale dell’umanità. Rischio «costruito» e minacce «autogenerate», prodotte dall’uomo e dalla sua civiltà del «progresso», impossibili da localizzare, calcolare e arginare. Rischio non solo come sinonimo di catastrofe, ma più ancora come anticipazione della catastrofe stessa che come tale condiziona la nostra immaginazione e genera un’organizzazione della vita sociale e politica ispirata alla paura[7].
Legato alla cultura del soggetto libero e dell’uguaglianza è il modello politico della democrazia, come scelta e orgoglio delle società europee, fino alla popolarizzazione dell’informazione attraverso i nuovi mezzi di comunicazione sociale. Di fatto, però, oggi ci troviamo di fronte a un processo in cui i cittadini da attori della vita pubblica diventano semplici spettatori del gioco politico[8].
Un ruolo decisivo per questo logorio della democrazia è giocato dalla globalizzazione che porta a un graduale assorbimento della società da parte del mercato e all’atomizzazione della vita civile. Allo stesso tempo, l’economia della paura come risposta alla minaccia del terrorismo fa scivolare la politica verso un «totalitarismo della sicurezza» con restrizioni o sospensioni dell’ordine giuridico in relazione a un presunto stato di emergenza[9].
Dal punto di vista della configurazione sociale, tre sono i tratti principali dell’Europa di oggi: l’ubiquità dei confini, il pluralismo con l’irruzione degli «altri» e la «società duale».
La globalizzazione ha in qualche modo cancellato il confine geografico. Nuovi confini di natura antropologica – culturale, religiosa e socio-politica – attraversano ogni luogo, sicché nelle nostre società molteplici confini s’intrecciano ormai ovunque.
L’omogeneità culturale europea, se mai ci sia stata, sta scomparendo di fronte all’affermarsi di un pluralismo, non solo a livello fattuale ma di coscienza. La stessa esperienza postmoderna, con la sua accentuazione della «differenza», ha contribuito ad aprire la vista sull’altro come «altro» e sull’ambiguità di un universalismo che, nell’intento di cogliere l’essenza umana e la norma valida per tutti, rischia di proiettare un’immagine di uomo che rassomiglia fin troppo a chi la descrive. Quest’avvento dell’altro però è tutt’altro che pacifico. I nuovi confini che ci accostano fisicamente gli uni agli altri, si ergono troppo spesso come strutture di esclusione. Ci sfioriamo, ma senza guardarci veramente in faccia. La città dalle molte diversità è come il simbolo del non incontro, un deserto di socialità, quando non il teatro di ripetute violenze. L’ethos competitivo del libero mercato accresce il rischio di antagonismo tra le varie componenti della società, tanto più che il mercato ha nel frattempo disintegrato la coesione sociale. Il mondo globalizzato si spezza in due: «noi e loro».
La società dalla mobilità globale è di fatto una «società duale»[10]. C’è la vita del consumatore postmoderno, il «turista», che passa da un’identità ed esperienza all’altra, nel tentativo di succhiare tutto il midollo della vita. Ma c’è anche la vita del «vagabondo», sia egli l’immigrato, il rifugiato o altri, a cui è sbarrato l’accesso all’identità di propria scelta e a quei diritti più elementari come lavorare, mangiare, tessere rapporti di parità e avere una comunità a cui appartenere[11]. Tant’è che la politica dei paesi europei si sta ridisegnando su leggi discriminatorie dallo spirito spesso violento se non xenofobo. Si forma la «fortezza Europa», aperta al suo interno ma impermeabile dall’esterno. Paradossalmente, la network society (= la società in rete) della pluralità rimane per lo più un mondo senza l’altro.
La stessa complessità del contesto europeo attuale si ritrova nell’esperienza spirituale e religiosa[12]. L’evento che più ha segnato la storia religiosa dell’Europa moderna è stata la fine della «cristianità», intesa come religione civile e civiltà, e il passaggio alla cosiddetta età secolare. La società in cui era praticamente impossibile non credere in Dio diventa una società in cui la fede è solo un’opzione fra tante[13]. In Europa la secolarità è stata perseguita come «libertà dalla religione», da confinare nella sfera privata, più che libertà per tutte le credenze religiose o meno, mentre il cristianesimo si arroccava in una posizione di difesa, lento a ridisegnare il ruolo della fede nel mondo e a vedere il valore di una sana laicità.
A tutt’oggi lo spazio pubblico viene conteso tra flussi di secolarizzazione e nuove ondate di religiosità, tra eclisse di Dio e del suo ritorno. Da un lato, c’è una diffusa indifferenza circa la domanda su Dio, che va al di là del declino istituzionale della religione. Dio è come scomparso dalla coscienza personale e sociale, e pesante è il suo silenzio mentre il male è sentito così vicino e concreto[14]. D’altro lato, si fa strada una nuova domanda di religiosità e del sacro, dal carattere fortemente esperienziale, ispirata dal bisogno di ritrovare nuovi equilibri psico-sociali e di «sentirsi bene»; spesso al di fuori dei canoni ortodossi, come una religione autoreferenziale del «fai da te» e del bricolage, nella logica di un bene di consumo[15], senza particolari legami d’obbligo. Questa ricerca esprime anche un’ansia di salvezza che rimane però imprigionata nella sfera soggettiva, senza effettive aperture di condivisione e di trascendenza. Anche in questa nuova domanda di religiosità si riflette il «nomadismo» della postmodernità secondo cui la vita si risolve in un gioco di interpretazioni dal carattere contestuale, senza possibilità di arrivare a un significato assoluto; l’identità self-styling del nuovo soggetto religioso esemplifica un più vasto processo di de-tradizionalizzazione.
Altra è la riproposizione del discorso religioso dovuta alla presenza degli immigrati e rifugiati che provengono da società ancora permeate di religiosità. Le loro professioni religiose vengono a rappresentare come un’«interruzione» nel sordo rumore del mercato e ci parlano della fede come della forza dei poveri per continuare a sperare e a vivere.
Il ritorno del fenomeno religioso mette le società europee di fronte alla realtà di una sempre crescente varietà di forme religiose. La risposta cristiana è alquanto timida e ambigua. Si nota una ripresa di fondamentalismo denominazionale. Si sta affermando una tendenza neo-esclusivista trasversale alle varie Chiese. Si tratta di un’identità cristiana a «sistema chiuso» che ripropone, sia pure indirettamente, una societas christiana parallela e antagonista alla società postmoderna[16].
Un ultimo aspetto del panorama religioso europeo riguarda la crisi di credibilità della chiesa, dovuta certo alla crisi di legittimizzazione della postmodernità che colpisce la sua autorità e rilevanza nel mondo, ma anche a tutta una serie di abusi da parte dell’istituzione ecclesiastica.

2. Aspetti di uno stile ecclesiale missionario nell’Europa di oggi

Da questa lettura, emergono tre istanze missionarie: il risveglio del «cuore inquieto», nella ricerca di Dio e nella ricostruzione di un orizzonte di significato; la ricreazione dell’immaginario umano, al di là dell’ipnotizzazione del mercato; la trasformazione dell’Europa in una casa delle differenze, aperta all’altro. Quale chiesa può farsi carico di questo compito?

2.1. Una chiesa umile

Già la fine del regime di cristianità riduce la chiesa a una condizione umile. Ma qui si vuole dire che in un’età secolare e in un momento di deficit di credibilità ecclesiale, di fronte a un soggetto umano smarrito ma sempre geloso della sua autonomia, solo una chiesa umile può annunciare la buona notizia di Dio, ispirare confidenza e rigenerare la speranza. Umiltà non solo come atteggiamento personale del singolo, ma come virtù che struttura il modo stesso di essere chiesa, nella sequela di Gesù mite e umile di cuore e nella consapevolezza di avere il proprio centro fuori di sé, posta com’è a dare corpo all’amore di Dio per il mondo. La cultura postmoderna sfida la chiesa a riscoprire questo lato costitutivo di sé[17].
Nella missione di una chiesa umile è l’azione di Dio a trasparire, ed è lo stesso uditore dell’annuncio a diventare l’interlocutore nel dialogo con Dio. Come nel caso dell’apostolo Paolo, la consapevolezza della propria fragilità e la confessione delle proprie colpe sono integrate nell’evento della comunicazione del vangelo e nella proclamazione della grazia del Signore. La chiesa umile sa di non essere il regno di Dio. Il suo approccio all’evangelizzazione non è a partire da una prospettiva di «potere» o superiorità, ma piuttosto da un’empatia e condivisione di fatica e ricerca con coloro ai quali l’annuncio viene fatto, con la convinzione non solo di dare, ma anche di ricevere: un’evangelizzazione che abita il nostro tempo senza fuggirlo o condannarlo ma accogliendolo come luogo della testimonianza della fede.
Lo stile di chiesa umile è uno stile di vulnerabilità, di rinuncia a una cultura del potere: non ci si affida a giochi politici e a favori dello stato per garantirsi un’influenza nella società, ma si confida nella forza dello Spirito e della testimonianza: «Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti»(1Cor 1,28). È uno stile di semplicità, con strutture leggere e nell’eliminazione di forme e linguaggi sacrali che parlino di gloria e potenza. Una chiesa umile sa accettare la «diaspora», di essere cioè lievito nascosto nella pasta senza la visibilità di gruppo compatto.
L’umiltà della chiesa in missione è anche «umiltà intellettuale e dottrinale», particolarmente in relazione a problemi e questioni così complessi come quelli che riguardano l’uomo e la società di oggi:

Una chiesa umile, perché pienamente consapevole ... che non ha da imporre una verità totalizzante, ma vuole proporre una verità che garantisca la libertà, mentre addirittura la richiede[18].

Una chiesa la cui proclamazione del vangelo avviene nell’ascolto, nel dialogo e nell’amicizia.
L’uomo d’oggi evita fortemente ogni forma di dogmatismo e arroganza intellettuale. Una tale modestia intellettuale e dottrinale scaturisce dalla consapevolezza ecclesiale della storicità e del carattere incompiuto della conoscenza umana e della stessa tradizione cristiana[19], e domanda una capacità di autocritica, un’umiltà «epistemica» che M. Farley chiama la «grazia del dubbio di sé»[20]. Un’umiltà che strutturi dall’interno la chiesa in missione non può non essere un’«umiltà confessionale»: si condivide la propria fede accogliendo le altre fedi, perché la fede è anche ricerca e la sua comunicazione un pellegrinaggio.

2.2. Una chiesa pellegrina, compagna di viaggio e in dialogo con gli «altri»

La situazione attuale rende la chiesa pellegrina in una cultura in cui non si sente più come a casa propria. Si tratta di assumere questa nuova condizione come modalità missionaria: pellegrini che risvegliano il desiderio Dio perché anch’essi alla ricerca del suo volto e della sua giustizia.
La critica moderna e postmoderna ci ha fatto riscoprire come Dio sia mistero ineffabile. Lo si può annunciare, ma non possedere. La parola dell’annuncio non può essere che una «parola donata». La missione è sempre anche «attesa» del manifestarsi di Dio, un pellegrinaggio fatto assieme ad altri, in un interscambio. Un pellegrinaggio che nasce non da un vuoto o solo da un bisogno umano, ma piuttosto dall’attrazione di un dono già pregustato e di un incontro già avvenuto, dall’aver già udito, visto e toccato (1Gv 1,1-4). La fonte che disseta lungo il cammino è l’esperienza dell’auto-communicazione di Dio in Cristo crocifisso, che però lascia intatto il mistero del «Dio ineffabile e nascosto». Nel Crocifisso Dio si rivela sub specie contraria, secondo cioè il suo opposto: il culmine della sua manifestazione è anche il momento del suo più profondo nascondimento.
L’intento della missione è che l’Europa possa ripartire da Dio nella ricostruzione di un significato condiviso. Sennonché ripartire da Dio significa «non cullarci nella presunzione di sapere già ciò che è invece perennemente avvolto nel mistero; significa santa inquietudine e ricerca»[21]. L’unica esperienza di Dio che in Gesù ci viene concessa, come guida per il nostro pellegrinaggio verso di lui e il suo regno, è quella della sua grande passione per il mondo e la sua solidarietà nel dramma di sofferenza della sua creazione fino all’alienazione del suo abbassamento. Tutto uno spazio di «secolarità» è lasciato aperto: nella ricerca del mondo della promessa, la comunità dei credenti non può contare su soluzioni preconfezionate «in nome di Dio», ma deve affidarsi alla fatica del discernimento fatto assieme ad altri, nella luce di quello squarcio sul mistero di Dio aperto dalla croce di Cristo.
È qui che la pluralità delle società europee è grazia da celebrare. Essa provoca un confronto che espone al mistero di Dio e «in-forma» sulla verità. L’incontro con gente di fede, convinzioni e mentalità diverse è un’esperienza unica dell’alterità, che rompe un sistema chiuso di autoreferenza, libera il discorso religioso dal rischio di essere una proiezione di noi stessi e apre una finestra su Dio il «totalmente altro».
Una comunità pellegrina può allora farsi compagna di viaggio della gente di oggi, condividendone la fatica di vivere e di credere e comunicando loro il senso del proprio pellegrinare, alla scoperta di Dio come mistero d’amore e della promessa di un mondo nuovo. Così essa diventa sfida per il vagare dei «turisti» e motivo di speranza per i «vagabondi».

2.3. Una chiesa della «com-passione» di Dio

Si potrebbe obiettare che in un pellegrinaggio condiviso con i tanti «altri» ci deve pur essere un criterio per discernere il procedere e riconoscere il «totalmente altro» in mezzo a realtà così molteplici.
Per i cristiani, tale criterio non può essere che la storia di Gesù, più precisamente la sua storia kenotica, dalla «condivisione della mensa con gli esclusi» alla «morte tra i crocifissi». «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Co 2,2). La vicenda di Gesù rende evidente che solo partendo dalla sofferenza delle vittime è possibile cogliere i contorni veri del tempo in cui si vive. La sua croce mette a nudo l’illusione di una neutralità del reale, come mette in crisi il concetto dell’onnipotenza divina e la sua relazione al potere. L’evento del Crocifisso rivela quanto la questione della sofferenza, particolarmente la sofferenza dell’altro, fino a includere quell’«altro» che è il nemico, sia discriminante per l’identità cristiana[22].
Il Crocifisso re-indirizza il pellegrinaggio verso il «campo» delle «vite di scarto». Nel Crocifisso Dio fa propria la passione delle vittime: diventa «impotente e debole»[23], per condividere la loro espropriazione forzata e distruttiva (cf. Fil 2,5-8). Il pellegrino non può più semplicemente camminare con gli occhi rivolti al cielo, nell’intento di scorgere il luogo della pace dove Dio abita. Il suo cuore, come indicato nella parabola del «buon samaritano», deve essere sulla terra con uomini e donne che soffrono, se solo vuol incontrare Dio ed entrare nel paese della promessa. La sua passione per Dio deve essere vissuta come compassione per gli altri, nella partecipazione alla loro sofferenza:

Gesù subì la passione fuori della porta della città. Usciamo dunque verso di lui fuori dell’accampamento, portando il suo disonore (Eb 13,12-13).

Se il volto dell’«altro» è traccia di Dio, è tuttavia nell’alterità dei «senza volto» che si rispecchia il Crocifisso. Con loro il Crocifisso s’identifica: «In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). È in una convivialità con chi soffre che l’Europa di oggi può ritornare a conoscere Dio. I crocifissi delle nostre città ci mediano un’immagine di Dio che non arriva semplicemente «dall’altra parte» di poteri tra loro contendenti – come se fosse ancora un altro potere –, ma più precisamente dal «disotto» del potere stesso.
Lo stile allora di una chiesa umile e pellegrina si configura come stile della «com-passione» di Dio: una chiesa che parla di Dio all’Europa «in una conversione alla passione»[24], e non già in un linguaggio essenzialista e trascendentale. Con l’annuncio di un Dio imprevedibile che si lascia mettere fuori del mondo e sulla croce, il pellegrino cristiano pone una sfida di radicale conversione prima a se stesso e alla sua comunità e poi a tutti i suoi compagni di viaggio. Nel confronto con le storie di chi soffre, le chiese d’Europa possono verificare quale sia la loro «collocazione sociale e politica» e sperimentare la grazia di una nuova libertà. La testimonianza poi di comunione con gli esclusi sfida la nuova ricerca religiosa e spirituale a crescere dalla gratificazione alla gratuità.

2.4. Una chiesa dell’ospitalità

L’Europa di oggi ha bisogno di sentire che Dio è «accogliente»: desidera sperimentare l’ospitalità di una casa in cui c’è posto per tutti.
La vita e il ministero di Gesù è come una grande parabola di Dio, ospite ospitante. Gesù è il viandante che a un tempo riceve e dà ospitalità; un’ospitalità che trova il suo punto culminante nella condivisione della mensa, che non solo rappresenta un tratto distintivo della storia di Gesù, ma dà forma alla partecipazione al regno di Dio che egli proclama. Gesù si lascia invitare e siede alla tavola di altri, comunicando con loro e col loro mondo e ricevendo da loro. Dall’essere egli stesso ospite, Gesù diventa colui che dona, e dona in abbondanza, come a Cana o in casa di Zaccheo o a Emmaus. In secondo luogo, Gesù rovescia il rapporto tra santità e ospitalità della tradizione giudaica e vetero-testamentaria: nella pratica di Gesù non è più la «santità/purità» a dettare il come e il quando dell’ospitalità, piuttosto è l’ospitalità a essere la via alla santità. Dall’ospitalità di Gesù fluisce la reintegrazione fisica e spirituale. In terzo luogo, Gesù condivide la mensa soprattutto con i reietti della società, facendo loro gustare l’ospitalità di Dio.
Attraverso la condivisione della mensa Gesù introduce una prassi di trasformazione che sconvolge le strutture socio-religiose di esclusione del suo tempo e apre a una società alternativa dell’accoglienza, della condivisione e dell’uguaglianza. L’ospitalità di Gesù, con quel gioco del dare ospitalità ricevendola, provoca la missione a essere abbraccio dell’«altro». Due in particolare sono oggi le sollecitazioni alla chiesa a essere ospitale: gli immigrati e rifugiati, e la pluralità di pensiero, dentro o fuori la chiesa. In ambedue i casi, si tratta di dare ospitalità mentre ci si lascia ospitare a nostra volta.
Oggi il problema dello straniero mette in questione le chiese d’Europa, perché «un vuoto religioso ed etico fornisce la base per tollerare, se non addirittura sostenere, una legislazione di tipo restrittivo»[25]. Eppure l’ospitalità allo straniero fa parte del testamento di Gesù ed è via al regno di Dio (Mt 25,31-46)[26], tanto che ci si può chiedere se una presa di posizione critica da parte della chiesa nei confronti delle attuali politiche migratorie, dell’ethos che esprimono e del sentimento pubblico che le sostiene, non sia parte essenziale della stessa «professione di fede», e se le comunità cristiane non debbano riappropriarsi e reinventare la tradizione biblica del diritto d’asilo. Ma è altrettanto importante farsi «ospitare» dagli immigrati e rifugiati per condividerne il dramma e imparare dai valori che li sostengono.
A riguardo invece della reciproca ospitalità tra quanti sono diversi, essa consente alle nostre società di rimodellare la loro vita sociale perché sia una «vita insieme». Essere chiesa ospitale significa che la comunità cristiana non può concepirsi solo come comunità di resistenza in un mondo nemico. Il fatto che i cristiani non abbiano una permanente cittadinanza in questo mondo, non li rende semplicemente degli «alieni residenti»; né una comunità alternativa secondo il vangelo è «un gruppo autoreferenziale che si distacca orgogliosamente dal tessuto sociale comune»[27]. È piuttosto nel coinvolgimento con la vita di coloro che la circondano che la comunità cristiana può sviluppare le sue risposte alle questioni che le situazioni di continuo suscitano, cosicché anche questi altri entrano come parte attiva nel processo di discernimento che essa fa. Anche il mondo degli «altri» è visitato dallo Spirito di Dio; e dei frutti degli altri, come Pietro nella visione di At 10,9-16, la comunità cristiana deve sapersi nutrire, e i loro doni essa deve saper scoprire, apprezzare e accogliere. Sul modello di Gesù pellegrino, la comunità dei suoi discepoli può accogliere l’ospitalità dei suoi vicini e partecipare alla loro vita e a sua volta, anche da pellegrina, offrire loro ospitalità, sempre secondo quella modalità propria di Gesù che fa posto innanzitutto a quanti di solito rimangono esclusi dal tavolo degli ospiti. Né la chiesa è la forma del regno di Dio in terra né il resto del mondo è semplicemente al di fuori della trazione e fermento del regno.

2.5. Una chiesa fraternità aperta

Lo stile della missione non può essere che un’espressione contestualizzata dell’amore, che solo può portare alla riscoperta di Dio e dar forma storica al sogno divino della grande festa dei suoi figli e figlie, tra loro fratelli e sorelle.
Il discorso sullo stile rimanda alle concrete comunità cristiane come primo soggetto della missione: fraternità libere da dominio, spazi aperti dove si sperimenta una nuova socialità modellata sulla relazione a Dio-Abba, luoghi di accoglienza per chi è solo ed escluso, dove la gloria di Dio si rivela nell’esperienza della guarigione e della riconciliazione, e crogioli di esperienza cristiana, dove la fede viene riformulata a partire dalla cultura e contesti locali.
Tali comunità sarebbero caratterizzate da una forte laicità, in un triplice senso:

– la reciproca ospitalità col mondo circostante in tutta la sua pluralità;

– il fatto che il tessuto dell’esperienza umana nel mondo diventa sostanza della loro comunione in Cristo e della loro testimonianza messianica;

– una strutturazione della comunità che riveli la novità escatologica del superamento dei rapporti di potere nell’interazione dei molti doni dello Spirito, al di là della divisione in clero e laici.

La forza missionaria propria di una chiesa fraternità aperta è la forza dell’attrazione, del «venite e vedete» (Gv 1,39): non solo una missione «centrifuga», andando verso gli altri per portar loro la salvezza, ma anche una missione «centripeta» che raccoglie quanto lo Spirito fa crescere ovunque per il grande banchetto del regno di Dio.

 

[1] Per un ulteriore approfondimento dei temi accennati in questo contributo, si veda B. De Marchi, L’annuncio missionario nell’Europa di oggi. Testimoniare il «linguaggio di Dio», EMI, Bologna 2004; anche in «Ad Gentes» 8 (1/2004) 75-97 e www.sedos.org/italiano/demarchi.htm (21.9.2010).

[2] C. Dotolo, Una fede diversa. Alla riscoperta del Vangelo, EMP, Padova 2009, p. 14.

[3] Ivi.

[4] Cf. Z. Bauman, Liquid Love: On the Frailty of Human Bonds, Polity Press, Cambridge 2003 (tr. it. Amore liquido: sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari 2005); Id., Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006.

[5] Cf. M.C. Taylor, Erring: A Postmodern A/Theology, Chicago University Press, Chicago 1984; Id., Hiding, University Press, Chicago 1997.

[6] M. Tronti, Presentazione, in P. Barcellona, L’epoca del postumano. Lezione magisteriale per il compleanno di Pietro Ingrao, Città Aperta, Troina (EN) 2007, p. 8.

[7] Cf. U. Beck, Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008; Id. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000; A. Giddens, Runaway World. How Globalisation Is Reshaping our Lives, Routledge, London-New York 1999.

[8] Cf. J.E. Green, The Eyes of the People. Democracy in an Age of Spectatorship, Oxford University Press, Oxford-New York 2010; E. Fröschl - U. Kozeluh - C. Schaller, Democratisation and De-democratisation in Europe?: Austria, Britain, Italy, and the Czech Republic: A Comparison, Studien Verlag, Innsbruck-Wien-München 2008.

[9] Cf., ad es., D.J. Whittaker, Counter-Terrorism and Human Rights, Pearson Education Ltd, Harlow UK 2009.

[10] L’espressione è di G. De Schrijver, Postmodernity and the Withdrawal of the Divine, in L. Boeve - L. Leijssen (edd.), Sacramental Presence in a Postmodern Context, University Press - Peeters, Leuven 2001, pp. 56s.

[11] Il vocabolario di «turista» e «vagabondo» nel senso sopraindicato si deve a Z. Bauman, Work, Consumerism and the New Poor, Open University Press, Philadelphia 1998 (tr. it. Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina [EN] 2004); Id., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001; Id., Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari 2003; Id., Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2005.

[12] Cf. G. Davie, Religion in Europe in the 21st Century. The Factors to take into Account, in «Archives Européennes de Sociologie. European Journal of Sociology 47 (2/2006) 271-296; cf. http://eric.exeter.ac.uk/Exeter/bitstream/10036/86938/1/Davie_EJS.pdf (22.9.2010).

[13] Vedi in particolare C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.

[14] Cf. A.W.J. Houtepen, Dio, una domanda. Pensare Dio nell’era della dimenticanza di Dio, Queriniana, Brescia 2001.

[15] Circa l’approccio consumistico alla religione e alla chiesa cf. V.J. Miller, Consuming Religion. Christian Faith and Practice in a Consumer Culture, Continuuum, New York-London 2004; J. Drane, The MacDonaldization of the Church, Darton Longman and Todd, London 2000.

[16] Cf. G. Mannion, Chiesa e postmoderno. Domande per l’ecclesiologia del nostro tempo, EDB, Bologna 2009, cap. 3.

[17] Cf. R. Repole, L’umiltà della chiesa, Qiqajon, Magnano (BI) 2010; Id., Il pensiero umile. In ascolto della rivelazione, Città Nuova, Roma 2007, specialmente il cap. III: «Chiesa umile».

[18] Repole, L’umiltà della chiesa, cit., p. 7. Al concilio Vaticano II l’arciv. di Bhopal E. D’Souza aveva insistito sull’umiltà «intellettuale e perfino dottrinale»: E. D’Souza, Intellectual Humility, in Y. Congar - H. Küng - D. O’Hanlon (edd.), Council Speeches of Vatican II, Sheed & Ward, London-New York 1964, pp. 141ss.

[19] Cf. Mannion, Chiesa e postmoderno, cit., cap. 6.

[20] M. Farley, Ethics, Ecclesiology and the Grace of Self-Doubt, in J.J. Walter - T.E. O’Connell - T.A. Shannon (edd.), A Call to Fidelity: On the Moral Theology of Charles E. Curran, Georgetown University Press, Washington DC 2002, pp. 55-75.

[21] C.M. Martini, Ripartiamo da Dio! Lettera pastorale per l’anno 1995-1996, Centro Ambrosiano, Milano 1995, n. 17.

[22] Cf. J.-B. Metz, Für eine Őkumene der Compassion. Christentum im Zeitalter der Globalisierung, in C. Gremmels - W. Huber (edd.), Religion im Erbe. Bonhoeffer und die Zukunftsfähigkeit des Christentums, Kaiser-Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2002, pp. 242-252; Id., A Passion for God. The Mystical-Political Dimension of Christianity, Paulist Press, New York 1998 (tr. it. Passione per Dio. Vivere da religiosi oggi, Queriniana, Brescia 1992).

[23] D. Bonhoeffer, Letters and Papers from Prison, Collins-Fontana Books, London 1970, p. 122: lettera del 16 luglio 1944 (qui mia tr. dall’ingl.; cf. tr. it. Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 2002, p. 498).

[24] J.-B. Metz, Johann-Baptist Metz, in J. Moltmann (ed.), How I Have Changed. Reflections on Thirty Years of Theology, SCM Press, London 1997, p. 32 (qui mia tr.).

[25] P. Roe, Refugees and the Challenge of Horizons. A Theological Interpretation, in T.R. Whelan (ed.), The Stranger in Our Midst. Refugees in Ireland: Causes, Experiences, Responses, Kimmage Mission Institute of Theology and Cultures, Dublin 2001, pp. 93-94.

[26] Cf. A. Sunderland, Was a Stranger: A Christian Theology of Hospitality, Abingdon Press, Nashville TN 2006.

[27] Martini, Ripartiamo da Dio!, cit., n. 29.

 



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Una regione del Paese africano alla mercé della guerriglia islamista C’era ottimismo a Maputo, la capitale mozambicana. La guerriglia a Cabo...

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

15-07-2024 Missione Oggi

Giustizia Riparativa e la “pedagogia allamana”

La Corte di Giustizia dello Stato del Paraná (Brasile) ha tenuto dal 3 al 5 luglio l'incontro sulla Giustizia Riparativa...

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

14-07-2024 Missione Oggi

Perù: prima assemblea dei popoli nativi

I rappresentanti dei popoli nativi dell'Amazzonia peruviana, insieme ai missionari, si sono riuniti nella Prima Assemblea dei Popoli Nativi, che...

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

13-07-2024 Notizie

Padre James Lengarin festeggia 25 anni di sacerdozio

La comunità di Casa Generalizia a Roma festeggerà, il 18 luglio 2024, il 25° anniversario di ordinazione sacerdotale di padre...

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

13-07-2024 Allamano sarà Santo

Nei panni di Padre Giuseppe Allamano

L'11 maggio 1925 padre Giuseppe Allamano scrisse una lettera ai suoi missionari che erano sparsi in diverse missioni. A quel...

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

11-07-2024 Allamano sarà Santo

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

In una edizione speciale interamente dedicata alla figura di Giuseppe Allamano, la rivista “Dimensión Misionera” curata della Regione Colombia, esplora...

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

10-07-2024 Domenica Missionaria

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13 La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata...

"Camminatori di consolazione e di speranza"

10-07-2024 I missionari dicono

"Camminatori di consolazione e di speranza"

I missionari della Consolata che operano in Venezuela si sono radunati per la loro IX Conferenza con il motto "Camminatori...

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