LA CENA E LA CROCE

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Prof. Mons. Piero Coda

1. La contemporaneità di Gesù non è un’idea. E neppure un’aspirazione. È un fatto, tangibile: qualcosa, qualcuno, che – nella sua sconvolgente e silente alterità – si vede, si tocca, si mangia. L’Eucaristia.

Discorrere intorno alla contemporaneità di Gesù, e intorno al significato e alla provocazione che ne vengono per noi, non raggiunge il “dunque” sin quando non ci s’impatta con lui nell’Eucaristia. È così, nell’Eucaristia, che Gesù autoattesta e rende attiva ed efficace la sua contemporaneità a noi. Non solo attraverso l’eco vivente della sua Parola, ma nella sostanzialità del Pane e del Vino. “Questo è il mio corpo ... questo è il mio sangue”. Stanno qui la grazia e il “nocciolo duro” dell’esperienza cristiana.

Il compito di cui qui ci è chiesta l’esecuzione è quello di risalire da questa Presenza, di cui la fede si alimenta e in cui la fede si consuma, all’istituzione che ne ha predisposto Gesù e all’intenzione che vi ha annesso. Ecco il titolo che ci è stato affidato: la cena e la croce.

Le due – non l’una senza l’altra. Perché la Presenza di Gesù si appella e si aggancia a questi due gesti fondatori, l’uno dall’altro indissolubile. Due gesti, in cui il primo anticipa e offre “una volta per sempre” la verità salvifica del secondo; mentre il secondo nel memoriale del primo si perpetua. Ovviamente, quando per croce s’intenda l’integralità di ciò che la croce, appunto, è: morte e risurrezione, sacrificio e gloria. Essendo inoltre la croce, così intesa, il dispiegarsi abbreviato e puntuale dell’evento intero di Gesù – esistenza e missione –, è chiaro che nella cena, suo anticipo e significato, si compendia tutto il bene della Chiesa: Cristo Gesù intero – anima, corpo, sangue e divinità, come ama dire la Traditio vivens che fa la Chiesa, anzi: la Traditio vivens dell’evento di Gesù Cristo che la Chiesa è.

In effetti, a guardar bene le cose, la croce di Gesù senza la cena sarebbe svuotata del senso sostanziale che la rende contemporanea oggi, qui, per noi. Quel senso che si dispiega tra la cena di Gesù con gli apostoli nel cenacolo, prima della pasqua, e la cena dei discepoli a Emmaus – paradigmatica di ogni altra Eucaristia –, dopo la pasqua.

La croce riceve senso dalla prima e dà senso – sostanziale – alla seconda. E quando dico
“sostanziale” intendo rimarcare la sua irriducibile, perché densa di mistero procedente dal cuore
stesso di Dio, corposità e incisività storica. Quella, per intenderci, assumendo la quale i discepoli di

Gesù sono investiti nel loro essere e agire dalla contemporaneità di Gesù e, a loro volta, se ne fanno attori irradianti nella storia.

Che cosa, dunque, avviene nella croce, che è anticipato nel suo senso permanente dalla cena di Gesù e che perciò, nel memoriale di essa, ci è donato in ogni cena eucaristica?

2. Cominciamo dal racconto della cena. Lo considero qui nella convergenza dei dati storici e teologici che ci offrono le due grandi linee di tradizione che l’esegesi ha riconosciuto nell’attestazione neotestamentaria: quella paolino-lucana e quella marciano-mattaica, cui si congiunge, nella sua ricca originalità, la tradizione del quarto vangelo.

Ora, il primo e fondamentale dato teologico che ci viene offerto, e che c’introduce al cuore dell’intenzione istitutrice di Gesù, è che la cena – e quanto essa anticipa e dischiude della croce – è racchiusa e avvolta dallo sguardo d’amore, per l’uomo, di quel Dio che Gesù ha vissuto e testimoniato al mondo come l’Abbà. L’incipit della cena e, di conseguenza, lo spazio che in essa si apre, sono segnati, infatti, dalla eucharistia (Paolo e Luca) ovvero della euloghía (Marco e Matteo), due termini che alludono alla berakha, la grande preghiera di ringraziamento e di lode in cui si condensa l’ispirazione della preghiera ebraica1 .

È Dio, dunque, l’Abbà, ancora una volta, il protagonista di ciò che sta per accadere. Come lo è stato, sin all’inizio, en arché – per dirla col vangelo di Marco –, quando Gesù ha preso ad annunciare l’euanghélion: «il tempo è compiuto e il Regno di Dio sta venendo; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). La morte di croce, verso cui Gesù sta andando, non è un incidente di percorso, un fuori d’opera imprevisto, la fine e il fallimento di tutto.

Nella paradossalità tragica e oscura che la investe, l’enigmatica morte di Gesù è in tutto avvolta e penetrata dall’amore del Padre. Essa, anzi, è veramente e in modo definitivo il luogo e l’ora dell’accadimento del Regno che viene a noi, attraverso il Figlio, dall’Abbà, nella forza dello Spirito. Il contesto di preghiera – lo mostrerà, subito appresso, l’episodio di Getsemani – esprime l’adesione piena del Figlio, con sofferta e angosciata consapevolezza, alla volontà del Padre (cfr. Mc 14,32-36 e par.). E offre la prima e fondamentale coordinata per decifrare e far nostro il senso della croce che la cena proletticamente esibisce.

Tutto è sotto lo sguardo di misericordia dell’Abbà, dunque, tutto è disposto dal e nel suo disegno di salvezza che si dispiega nel Figlio. Niente sfugge alla forza redentrice e trasformatrice del suo amore. Ma il disegno diventa storia, appunto, grazie all’adesione del Figlio che si dispone a vivere il sacrificio di sé, sino alla morte, entro la trama insensata e peccaminosa di ciò che gli è ingiustamente e insensatamente inflitto: «non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (cfr. Mc 14,36).

La cena è radicalmente eucaristia, ringraziamento e lode, eucaristia cristica e universale, rivolta dal Figlio e nel Figlio all’Abbà: perché il Figlio, sulla croce, adempie infine e definitivamente il disegno di salvezza del Padre.

La coscienza cristiana delle origini, e l’ininterrotta tradizione della Chiesa, fissando questo nome – eucaristia –, tra i molti possibili, per designare il memoriale della cena celebrato dai discepoli in memoria del Maestro e Signore, con l’infallibile senso soprannaturale della fede, ne coglie ed esprime l’ultima verità.

3. Di qui, senza soluzione di continuità, un secondo dato, altrettanto radicale e decisivo. Se l’Abbà è l’indiscusso regista del dramma di salvezza che sta per consumarsi – regista quant’altri mai presente e piegato con tutto se stesso a seguire il dipanarsi della scena, nell’intenzionalità premurosa e discreta che ognuno degli attori faccia al meglio la sua parte –, il Figlio, Gesù, ne è il protagonista. E ciò significa, innanzi tutto, che egli è l’attore libero, consapevole e responsabile, di ciò che sta accadendo. La libertà di Gesù, nell’aderire, meglio ancora, nel far accadere la volontà d’amore dell’Abbà come storia, è il cuore pulsante della cena. E dunque della croce. Senza di essa nulla avrebbe senso. La libertà di Gesù, di fronte al Padre, meglio sotto lo sguardo d’amore del Padre, nell’intima unione d’amore e di reciproca intesa con lui, se, da un lato, disambigua per sempre il volto e il cuore di Dio – in lui non c’è tenebra, né doppiezza, né rivendicazione, né giustizia vendicativa –, dall’altro, penetra con la luce dell’amore, che è libertà, e della libertà che è amore, la tenebra anche più fitta e impenetrabile del cuore umano.

Il lessico di cui – con qualche variante che, alla fine, arricchisce l’intelligenza della cosa – fanno uso i racconti della cena, nella sua quotidiana e limpida semplicità, è eloquente. Ecco il racconto di Marco: il più scarno ed essenziale. «Prese, spezzò, diede ... » (cfr. Mc 14,22-23). L’intenzione di Gesù ha come oggetto il destino della sua esistenza e missione. Che egli, in tutto, riceve dall’Abbà. E che assume e fa proprio nel suo senso risolutivo, con gesto sovrano, sereno e solenne, di libertà e consapevolezza (“prese”), per condividerne il frutto (“spezzò”) e per donarlo (“diede”): e cioè per parteciparlo, a tutti, in libera convivialità.

In questi gesti di Gesù, egli, il Figlio dell’uomo che è il Figlio di Dio, espone se stesso, si espone – come Dio, l’Abbà, si è esposto e si espone al mondo in lui. Se lo “spezzare” allude, da un lato, al realismo – cruento – della dedizione di sé, che non è un fatto idealistico e velleitario, ma ha la concretezza del corpo straziato sulla croce e del sangue da essa versato, e, dall’altro, alla logica distributiva implicita in questo gesto, per cui ciascuno è oggetto e termine inteso e voluto di tale gesto; il “dare” esibisce la logica profonda e intenzionale di Gesù. Egli si dà. E cioè, non solo, liberamente – aderendo all’amore del Padre –, offre il suo corpo, se stesso, rivelando così,

all’estremo, quanto già ha donato con la parola, lo sguardo, i gesti. Ma, con ciò stesso, si comunica e si trasferisce in chi l’accoglie.

Per questo, il “diede loro” si esprime e si traduce nel “prendete”. La dedizione si realizza e compie quand’è assunta e nella misura in cui è assunta. Con questa parola – “prendete” – i discepoli sono costituiti come discepoli: perché coinvolti e abilitati a lasciar e far vivere in sé il Figlio dell’uomo che è il Figlio di Dio.

Diventa evidente, nella logica di una dedizione così intesa, dedizione che da sé suscita l’accoglienza che la assume e la rivive, la coscienza che in Gesù dimora, luminosa e lucida – nella sua relazione all’Abbà –, del senso di ciò che sta per accadere. Egli – dirà il quarto vangelo – “offre la sua vita e così la prende di nuovo” (cfr. Gv 10,17). La ri-prende non solo nel senso che è donando la sua vita che la riceva di nuovo in sé: ecco la risurrezione; ma nel senso che, donandola, la riceve nuova anche in chi l’accoglie e la fa sua: ecco Gesù «primogenito tra molti fratelli» (Rom 8,29).

La dedizione, in tal modo, suscita la convivialità e la fraternità, che tale è e diviene se sempre di nuovo riscopre e rivive la sua radice e la sua forma nella dedizione di sé: «egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16). È questo che Gesù «ha imparato dal Padre» (cfr. Gv 6,45): «Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26). La cena – e la croce – sono la comunicazione di questa dedizione che ha sua sorgente nel Padre, attraverso il Figlio – che dal Padre anch’egli ha in sé la vita –, a chi lo accoglie riconoscendolo e accogliendolo per chi egli è: il Figlio.

Ma ciò non basta, anche se permette d’ intuire il “filo d’oro” che lega la cena – e in prospettiva tutto il ministero e l’evento di Gesù – alla croce. Nei racconti della cena, e nella ripresa che ne fa la tradizione apostolica nelle sue molteplici espressioni, ricorre una preposizione, hypér, “per” che, nella sua esiguità, dischiude un abisso: l’abisso più profondo della dedizione di Gesù e della convivialità nuova e fraterna che essa suscita e plasma. Tanto che Benedetto XVI è giunto a dire che questo “per” può considerarsi la «parola-chiave non solo dei racconti dell’ultima cena, ma della figura stessa di Gesù»2.

Questo “per”, in realtà, è lo stesso che, riecheggiando e sviscerando il significato preannunciato, nel Primo Testamento, dai carmi del Servo sofferente del Signore, è al cuore del lóghion cristologico più essenziale e concentrato della tradizione pre-pasquale: «il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e per dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). In questo lóghion il «servire» è esplicitato nel «dare la vita in riscatto (lútron)». La stessa dinamica e finalità che sono espresse nel “per”, detto da Gesù nell’ultima cena. Esso racchiude così, densamente, nel

loro reciproco implicarsi, il significato di espiazione e quello di riconciliazione – per usare il lessico neotestamentario – della croce e della cena.

Si tratta di prendere sul serio, e sino in fondo, la potenza del male come peccato di opposizione a Dio e al suo disegno di amore, e la fatticità della tragica realtà che ne è l’effetto – nella vita personale e nella storia del mondo. Se non si fa ciò, se si rimuove cioè o si fa finta di non veder il male e la sequela tragica delle sue strutture e dei suoi effetti, la dedizione di Gesù e la grazia di riconciliazione che “a caro prezzo” (per Gesù e per noi, al seguito di lui) ne scaturisce, si svuotano di senso, di serietà, di incisività spirituale e storica.

Il dar-si di Gesù – prolungamento ed espressione del dar-si dell’Abbà – implica, proprio perché è vero e risolutivo, lo scendere nell’abisso di morte in cui il peccato ha imprigionato l’uomo. Solo così, solo prendendo su di sé la conseguenza della contraddizione tragica dell’amore dell’Abbà che è il peccato, Gesù può attestare che “più forte della morte è l’amore” (cf. Ct 8,6), l’amore dell’Abbà. I due linguaggi, quello della cena e quello del sacrificio, quello dell’espiazione vicaria e quello della convivialità fraterna, non sono antagonisti, né vanno assorbiti l’unto nell’altro: vanno piuttosto coniugati in profondità alla luce dell’amore dell’Abbà che tutto illumina di sé, nel Figlio crocifisso e risorto.

Prendere sul serio la “potenza immane del negativo” – come arditamente lo chiama il pensiero moderno –, decifrare, cioè, con lucidità e coraggio, i tratti e le trame della strategia d’inganno e malvagità disegnati dal “principe di questo mondo”, significa, in definitiva, prendere sul serio la sapienza e la potenza dell’amore di Dio: Cristo crocifisso. «Perché – insegna l’apostolo Paolo – ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,25).

La speranza cristiana è tale solo se è inchiodata alla croce. E da essa più non si schioda.

4. È per questo, infatti, per il suo essere inchiodata alla croce di Gesù, che la speranza – attesta l’Apostolo Paolo – «non delude: perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,5). La dedizione del Figlio, espressione della dedizione dell’Abbà, è accolta nei cuori e li accende alla fede, alla speranza e all’amore – «per mezzo dello Spirito Santo».

È lo Spirito Santo il terzo co-agonista, tutto divino – eppure così intimamente vicino al nostro cuore da esservi versato dentro! – del dramma della cena e della croce.

Certo, a un primo sguardo, dello Spirito Santo non si dice parola, nell’uno e nell’altro caso. Ma egli, in verità, è il soffio in cui accadono il dono del Padre e il dono del Figlio. È, anzi, il dono stesso che, dal Padre, il Figlio versa nei nostri cuori.

“Versare”. Il verbo è lo stesso: in Paolo che parla dello Spirito “versato nei nostri cuori”; e in Gesù che offre ai discepoli “il sangue dell’alleanza versato per molti”. Del resto, l’alleanza, di cui qui si tratta, quella che prende origine e vigore dal e nel sangue versato di Gesù, è la “nuova e definitiva alleanza” che Dio ha promesso d’instaurare col suo popolo. Quella di cui dicono Geremia:

«Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d'Israele e con la casa di Giuda concluderò un'alleanza nuova. ( ... ) porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l'un l'altro, dicendo: "Conoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato"» (Ger 31,31.33-34);

ed Ezechiele:

«Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,26-27).

Il sangue “versato” da Gesù sulla croce, che egli offre come bevanda ai discepoli nella cena, se, da un lato, evoca senz’altro, nella sua separazione dal “corpo dato”, il realismo estremo e cruento della morte; dall’altro, esprime il dono di sé “sino alla fine” (cfr. Gv 13,1), sino, appunto, all’effusione del sangue. E si propone come il segno vero e tangibile e il veicolo concreto della comunicazione che Gesù – sulla croce e nella cena – fa di sé, della vita di Dio in sé – lo Spirito Santo – agli uomini. Scrive Santa Caterina da Siena: «‘l sangue [del Cristo crocifisso] è intriso con la calcina della deità e con la fortezza e il fuoco della carità», che è lo Spirito Santo3.

Il “sangue versato” dal Crocifisso è il “sangue di Dio”, la sua stessa vita: lo Spirito Santo. Il quarto vangelo, narrando la scena della croce, lo richiama, in forma intensamente simbolica, quando pone il sigillo sulla morte di Gesù dicendo che egli, «reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (19,30), per poi certificare l’avvenuta effusione della vita come consegna dello Spirito nell’attestazione del riversarsi, dal costato di Gesù squarciato dalla lancia, di «sangue ed acqua» (Gv 19,34).

In essi, nel sangue e nell’acqua, i Padri della Chiesa riconosceranno i segni, vivificati dallo Spirito del Risorto, dell’Eucaristia e del Battesimo. Lo ribadisce la Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II, sintetizzando la lezione della Tradizione: «De latere Christi in cruce dormientis

ortum est totius Ecclesiae mirabile sacramentum (dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa)» (n. 5).

È dunque il sangue di Cristo, espressione tangibile e irrevocabile dell’effusione escatologica e “senza misura” (cfr. Gv 3,34) dello Spirito, che, versato nei nostri cuori, fa scorrere in essi la vita di Dio, lo stesso suo sangue. La nuova alleanza abbraccia cielo e terra: perché un’unica vita, quella dell’amore “sino alla fine”, quella che sgorga dal Padre e pulsa nella missione del Figlio, viene da lui versata col dono di sé sino al sangue, mediante lo Spirito Santo, nel cuore dei credenti.

Questo accade nella pasqua. Questo dice e compie la cena.

5. Ci resta da fare un ultimo passo. Sinora abbiamo cercato di leggere la croce alla luce della cena, e viceversa. Ci resta di fissare l’attenzione, almeno brevemente, sulla cena dei discepoli, in quanto in essa, a memoriale della cena di Gesù, si fa contemporanea a noi la pasqua del Signore. Come preannunciato, guardiamo al ben noto, ma sempre nuovo e provocante racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35).

Di esso, in questa sede, mi pare suggestivo richiamare un aspetto soltanto, in ordine al compito che c’impegna. Si tratta di questo. Come sappiamo, i due discepoli scendono da Gerusalemme verso Emmaus sconsolati e spenti, nella mente e nel cuore. Non hanno afferrato il senso e il dono di quant’è accaduto, avendo per protagonista Gesù Nazareno. Fin quando un viandante, che è Gesù stesso, il Risorto, si accosta a loro e interpreta in tutte le Scritture ciò che lo riguarda. Al punto che, seduto infine a tavola con loro, ripete i gesti della cena: «Prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (24,30). È nel rivivere questo atto, l’evento della cena, che «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (24,31). In quel “riconoscimento” trova conferma e sigillo l’ardore che bruciava nel loro petto «mentre – si dicono l’un l’altro – conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture» (24,32).

Qual è il significato di questo riconoscimento (epígnosis)? È il fatto che essi, rivivendo con Gesù la cena, alla luce della Scrittura da lui interpretata, ora, con lui vivo in mezzo a loro, mediante quei gesti, entrano vitalmente nella conoscenza di lui. Essi, cioè, non solo riconoscono in colui che ha camminato con loro quel Gesù che nella cena – senza che ancora lo si potesse appieno comprendere – aveva anticipato il senso e la verità della croce: quel senso e quella verità che sono lui stesso, il Vivente e il Risorto. Ma comprendono e accolgono anche il tenore di quel “prendete e mangiate, questo è il mio corpo... prendete e bevete, questo è il mio sangue”. Accade che – come spiega in modo bellissimo Benedetto XVI – «mediante quelle parole, il nostro momento attuale viene tirato

dentro il momento di Gesù. Si verifica ciò che Gesù ha annunciato in Giovanni 12,32: dalla croce egli attira tutti a sé, dentro di sé»4.

È ciò che nel racconto lucano dei discepoli di Emmaus, paradossalmente, si attualizza in ciò: che l’evento del riconoscimento del viandante coincide col «diventare egli non (più) veduto da loro» (24,31). Egli, infatti, vive ora, e come tale ha da vivere, in loro: in ciascuno di loro. È questa l’intenzionalità del “prendete”. «Io in loro e Tu in me» – aveva chiesto Gesù nella preghiera all’Abbà, nell’ultima cena.

Il Padre in Gesù, Gesù nei discepoli. È quanto Gesù realizza nella pasqua e comunica nell’Eucaristia.

6. Nel memoriale della cena si attualizza, dunque, da Cristo Gesù, tutto il bene della Chiesa per la salvezza del mondo. Senza Eucaristia non vi è Chiesa e non vi è dispensazione della salvezza, che è la vita di Dio – cioè il suo sangue, lo Spirito Santo – in noi, a favore di tutti.

I Padri della Chiesa, con formula pregnante, dicevano che il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo, perché noi, figli e figlie dell’uomo, possiamo diventare in Lui figli di Dio. Con preciso e denso linguaggio filosofico, Antonio Rosmini scrive che Gesù Cristo, nell’incarnazione e sulla croce, di cui l’Eucaristia ci offre il frutto sostanziale, si è «inoggettivato» in noi: ha cioè “trasportato” se stesso in noi al punto da “in-esistere” in noi (e cioè di esistere-dentro-di-noi). Ma ciò si realizza – nella logica del “diede” e del “prendete” – solo attraverso la nostra reale “inoggettivazione” di risposta in lui. È «questa “inoggettivazione” morale in Gesù Cristo – spiega Rosmini – la formula più breve della cristiana perfezione, di qui viene l’espressione solenne: in Cristo. L’uomo cristiano dee sentire, pensare, fare, e patire, avere, essere ogni cosa, in Cristo»5.

Occorre dunque, in virtù dell’Eucaristia, seguire Cristo nel suo movimento di dedizione e identificazione riconciliatrice che lo porta a scendere negli abissi – sino agl’inferi - del cuore, della mente, della vita dell’uomo, di ogni uomo, in ogni tempo e situazione. A tutti i livelli e in tutte le dimensioni del suo essere e della sua esperienza: fisica, psichica, spirituale e culturale. Solo così Cristo, in noi, nei “poveri vasi d’argilla” (cfr. 2Cor 4,7) che accolgono la sua grazia, diventa contemporaneo. Là e quando – scrive Teresa di Lisieux – ciascuno di noi e il popolo della nuova alleanza, in tutte le forme del suo esistere ed agire, «accetta di mangiare quanto a lungo voi vorrete,

4 J. Ratzinger (Benedetto XVI), Gesù di Nazaret, II, cit., p. 158.

5 A. Rosmini, Teosofia, parte I: Ontologia, Libro III L’essere trino, Sez. III, Cap. I, Art. IV, n. 899; Opere, vol. 13, a cura di M. Adelaide Raschini e P.P. Ottonello, Istituto di Studi Filosofici – Centro Internazionale di Studi Rosminiani – Città Nuova, Roma 1998, p. 209.

Gesù, il pane del dolore», e «non vorrà alzarsi dalla tavola piena di tristezza e pena, dove mangiano i poveri peccatori .. sino a quando a voi, Gesù, così piacerà»6.

È questa la contemporaneità che Gesù chiede alla sua Chiesa. Di qui si irradiano la verità e l’efficacia della sua missione religiosa e civile. «Finché egli venga» (1 Cor 11,26).


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