LA MISSIONE IN UN MONDO CHE SFUGGE: FUTURI CITTADINI DEL REGNO

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Mi hanno chiesto di fare una riflessione sulla spiritualità della missione nel nostro mondo globalizzato. Che cosa significa essere missionario a Disneyland? Quando mi hanno chiesto di tenere questa conferenza ne ho avuto piacere, perché è un argomento affascinante, ma ero anche esitante perché io non sono mai stato missionario nel senso più comune del termine. Al capitolo generale elettivo dell’Ordine in Messico, otto anni fa, i confratelli indicarono dei criteri per candidati ad essere Maestro dell’Ordine Domenicano. Fondamentalmente doveva aver esperienza di pastorale al di fuori del suo paese. Essi poi elessero me che sono stato solo un docente universitario in Inghilterra. Non so se anche tutte le altre Congregazioni agiscono così, comunque questo sta a dimostrare perché non mi sento qualificato a tenere questa conferenza.

Che cosa c’è di così nuovo nel nostro mondo, da dover individuare un nuova spiritualità della missione? Quanto è così diverso dal mondo al quale erano mandate le precedenti generazioni di missionari? Noi potremmo rispondere che ciò che è nuovo è la globalizzazione. E-mails si riversano nel nostro ufficio da tutto il mondo. Miliardi di dollari circolano nei mercati di tutto il mondo ogni giorno, sebbene non attorno all’Ordine Domenicano! Come così sovente si dice, noi viviamo in un villaggio globale. I missionari non vengono più mandati per nave verso paesi sconosciuti; quasi ovunque non sono più lontani che un giorno di viaggio. Ma io mi domando se "globalizzazione" veramente caratterizza il nuovo contesto della missione. Il villaggio globale è il frutto di una evoluzione storica che ha avuto luogo da almeno cinque cento, se non cinquemila anni. Alcuni esperti sostengono che in molti campi, già cent’anni fa il mondo era già globalizzato come oggi.

Forse, quello che è veramente caratteristico del nostro mondo è un particolare frutto della globalizzazione, cioè, che noi non sappiamo dove il mondo stia andando. Noi non abbiamo un comune senso della direzione della nostra storia. Il "guru" di Tony Blair, Anthony Giddens, lo chiama "il mondo che sfugge". La storia sembra al di fuori del nostro controllo, e noi non sappiamo dove stiamo andando. È a causa di questo mondo "che sfugge" che noi dobbiamo scoprire un visione e una spiritualità della missione.

Le prime grandi missioni della Chiesa fuori l’Europa erano collegate al colonialismo, dal sedicesimo al ventesimo secolo. Gli spagnoli e i portoghesi si portavano con se i loro Frati Mendicanti, così come gli olandesi e gli inglesi i loro missionari protestanti. I missionari potevano sostenere o criticare i conquistatori, ma avevano in comune il senso di dove la storia si stava dirigendo; verso il dominio occidentale del mondo. Questo determinò il contesto della missione. Nella seconda metà di questo secolo, la missione venne a trovarsi in un nuovo contesto, cioè quello del conflitto tra i due blocchi di potenze, quello orientale e quello occidentale, del comunismo e del capitalismo. Alcuni missionari possono aver pregato per il trionfo del proletariato, ed altri per la sconfitta del comunismo ateo, ma questo conflitto costituiva il contesto della missione.

Ora, con la caduta del muro di Berlino, noi non sappiamo dove stiamo andando. Stiamo andando verso un benessere generale, o l’attuale sistema economico sta per crollare? Avremo un "Lungo Boom" o un "Big Bang"? Gli americani domineranno per secoli l’economia mondiale, o siamo alla fine di una breve storia quando l’Occidente era al centro del mondo? La comunità globale si espanderà per includere tutti, compreso il dimenticato continente Africano? Oppure il villaggio globale si ridurrà per lasciare fuori la maggior parte dei popoli? È un villaggio globale o un saccheggio globale? Non lo sappiamo.

Non lo sappiamo perché la globalizzazione ha raggiunto un nuovo livello, con l’introduzione di tecnologie di cui non possiamo prevedere le conseguenze. Secondo Giddens non lo sappiamo perché abbiamo inventato un nuovo tipo di rischio. Gli esseri umani hanno sempre avuto a che fare con i rischi di epidemie, di cattivi raccolti, bufere, siccità, invasioni. Ma questi erano prevalentemente rischi esterni ed incontrollabili. Non si può mai sapere quando un meteorite può colpire il pianeta, o un topo infetto può scappare e portare la peste bubbonica. Ma ora siamo prevalentemente a rischio per quanto è stato prodotto da noi stessi, quello che Giddens chiama "rischio manufatto": surriscaldamento del globo, sovrappopolazione, inquinamento, instabilità dei mercati, le imprevedibili conseguenze dell’ingegneria genetica. Noi non possiamo conoscere gli effetti di quanto stiamo facendo. Viviamo in un mondo che ci sfugge e questo provoca ansia. Anche noi cristiani non abbiamo una coscienza speciale del futuro. Noi non conosciamo di più di ogni altro, se siamo sulla via della guerra o della pace, della prosperità o della povertà. Anche noi spesso siamo preda dell’ansia dei nostri contemporanei. A me capita di essere profondamente ottimista sul futuro dell’umanità, ma questo è dovuto al fatto che ho ereditato dal pensiero della bontà oggettiva delle cose di S. Tommaso, o dai geni dell’ottimismo di mia madre?

In questo mondo che sfugge, quello che i cristiani possono offrire non è la conoscenza ma la sapienza, la sapienza del destino ultimo dell’umanità, del Regno di Dio. Noi possiamo avere nessuna idea di come il Regno verrà, ma noi crediamo nel suo trionfo. Il mondo globalizzato è ricco in conoscenze. Una delle sfide per gli uomini di questo mondo è che siamo sommersi dall’informazione, ma c’è poca saggezza. C’è poca coscienza del destino ultimo dell’umanità . La nostra ansia verso il futuro è tale che è più facile non pensare ad esso per nulla. Afferriamo l’attimo presente. Mangiamo, beviamo e divertiamoci perché domani possiamo morire. Per questo la nostra spiritualità missionaria deve essere sapienziale, della sapienza della fine alla quale siamo chiamati, della sapienza che ci libera dall’ansia.

In questa conferenza vorrei dire che il missionario può essere il portatore di questa sapienza in tre modi: con la presenza, la rivelazione e la proclamazione. L’unica cosa che possiamo fare in alcuni luoghi è quella di essere presente, ma ci deve essere la fiducia di potere un giorno rendere visibile la nostra speranza ed esplicita la nostra sapienza. La parola si è fatta carne e ora la nostra missione è di rendere la carne parola.

Presenza

Un missionario è mandato. Questo è il significato della parola. Ma a chi sono mandati i missionari nel nostro mondo che ci sfugge? Quando ero studente dai Benedettini, missionari venivano a farci visita da ogni dove, dall’Africa all’Amazzonia. Noi risparmiavamo i nostri soldi perché dei bambini venissero battezzati con il nostro nome. Ce ne dovrebbero essere un centinaio di Timoteo nel mondo su per giù della mia età. Così i missionari venivano mandati dall’occidente verso altri luoghi. Da quali paesi venivano mandati in quei giorni? Principalmente dall’Irlanda, dalla Spagna, dalla Bretagna, dal Belgio dalla regione di Quebec. Ma pochi missionari provengono oggi da questi paesi. II missionario moderno probabilmente proviene dall’India o dall’Indonesia. Ricordo l’agitazione nella stampa britannica quando il primo missionario arrivò in Scozia dalla Giamaica. Nel nostro villaggio globale, non esiste un centro dal quale i missionari vengono inviati. Nella geografia del mondo in rete, non esiste un centro, almeno in teoria. Difatti, sappiamo che ci sono più linee telefoniche a Manhattan che in tutta l’Africa sub-sahariana.

Come inizio di risposta vorrei dire che in questo mondo nuovo, i missionari sono mandati a quelli che sono un altro da noi, che sono distanti da noi a causa della loro cultura, fede o storia. Essi sono lontani ma non necessariamente distanti fisicamente. Essi sono stranieri sebbene possano essere i nostri vicini. L’espressione "villaggio globale" suona confidenziale e intima, come se noi tutti partecipassimo ad un’unica grande famiglia umana. Ma il nostro mondo globale è attraversato da fratture e separazioni, che ci rendono stranieri l’un con l’altro, incomprensibili e a volte nemici. Il missionario è mandato per essere in questi luoghi. Pierre Claverie, il vescovo domenicano di Oran in Algeria, fu assassinato da una bomba nel 1996. Appena prima di morire egli scrisse: «La Chiesa compie la sua vocazione quando essa è presente nelle rotture che crocifiggono l’umanità nella sua carne e nella sua unità. Gesù è morto sospeso tra cielo e terra con le braccia distese per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e rivolge gli uni contro gli altri e contro Dio stesso. Egli si è messo sulle linee della divisione nate da questo peccato. In Algeria, noi siamo su una di queste fratture sismiche che attraversano il mondo: Islam/Occidente, Nord/Sud, ricchi/poveri. Noi ci troviamo bene in questo luogo, perché è in questo posto che si può intravedere la luce della Resurrezione».

Queste linee di frattura non corrono solamente tra parti del rifondo: il nord e il sud, il mondo sviluppato e il cosi detto mondo in via di sviluppo. Queste linee attraversano ogni paese e ogni città: New York e Roma, Nairobi e San Paolo, Delhi e Tokyo. Esse dividono quelli che hanno l’acqua pulita e quelli che non ne hanno, quelli che hanno accesso ad internet e quelli che no, il letterato e l’illetterato; la destra e la sinistra, quelli di fedi diverse, neri e bianchi. Il missionario deve essere il portatore di sapienza, del piano di Dio "che egli ha stabilito in Cristo come un piano per la pienezza dei tempi, di riunire tutte le cose in lui, le cose del cielo e le cose della terra" (Ef 1, 10) E noi rappresentiamo questa sapienza con l’essere presenti tra quelli che sono divisi da noi da ogni muro di divisione.

Ora dobbiamo fare un ulteriore passo. Essere missionario, non consiste in quello che io faccio, ma in quello che io sono. Come per Gesù, sono quello che sono mandato (Eb 3, 1) Essendo presente all’altro, vivendo sulle linee di frattura, comporta una trasformazione di quello che io sono. Nell’essere con e per l’altro io scopro una nuova identità. Penso a un vecchio missionario spagnolo che ho incontrato a Taiwan, che aveva lavorato in Cina per molti anni e vi soffrì la prigione. Ora che era vecchio e ammalato, la sua famiglia voleva che ritornasse in Spagna. Ma egli rispose, "Non posso ritornare. Io sono cinese. Sarei uno straniero in Spagna". Quando Giovanni XXIII incontrò un gruppo di Ebrei americani nel 1960, li sorprese perché entrando nella sala disse "io sono Giuseppe, vostro fratello". Questo è quello che io sono e non posso essere me stesso senza di te. Così, essere inviato significa morire a quello che si era. A Chrys Mc Vey, uno dei miei confratelli americani che vive in Pakistan, un giorno fu chiesto per quanto tempo ci sarebbe rimasto li, egli rispose "fino a quando sarò stanco di morire". Essere presenti con e per gli altri è come morire ad una propria vecchia identità per divenire un segno del Regno nel quale noi saremo tutti uno.

Nicholas Boyle scrisse che «l’unica risposta moralmente difendibile e concettualmente valida alla domanda "chi siamo noi adesso" è "futuri cittadini del mondo"». Noi non siamo solamente gente che lavora per un nuovo ordine del mondo, che cerca di superare guerre e divisioni. Quello che siamo noi ora è futuri cittadini del mondo. Si potrebbero adattare queste parole di Boyle e dire che ora noi siamo i futuri cittadini del Regno. Il Regno è il mio paese. Adesso scopro quello che sono perché sono vicino a quelli che sono lontani.

Tutto questo non è facile e soprattutto richiede fedeltà. Il missionario non è un turista. Il turista può andare in posti esotici, fare fotografie, godere del cibo e dei luoghi per poi tornare a casa ostentando orgoglioso una Tshirt. Il missionario è soprattutto un segno del Regno rimanendo lì. Come mi disse un mio confratello, "tu non solo apri le valigie, ma le getti anche via".

Non voglio dire che tutti i missionari devono rimanere fino alla morte. Ci possono essere buone ragioni per partire: un nuovo incarico altrove, malattia o stanchezza etc. Ma voglio invece dire che la missione implica fedeltà. La fedeltà di un missionario spagnolo che ho incontrato nell’Amazzonia peruviana, che rimane là anno dopo anno, visitando il suo popolo, girando nei vari villaggi, e vi rimane fedelmente anche se non sembra che succeda più di tanto. Spesso la sofferenza del missionario è scoprire che non è più voluto. Forse dalla gente del posto, o persino dalle vocazioni locali del proprio stesso ordine e che aspettano che lui o lei se ne vadano. È la forza di continuare a restare, anche se a volte non apprezzato. L’eroismo del missionario consiste nel osare di scoprire chi è per e con questi altri, anche se loro non vogliono scoprire chi essi sono per e con lui. Si tratta di rimanere là, fedelmente, anche a costo della propria vita, come fece Pierre Claverie e i monaci Trappisti in, Algeria.

Ho lasciato Roma appena prima della Giornata Mondiale della Gioventù: Ma solo incontrando là, alcuni giovani laici domenicani, fui colpito dalla loro gioia che provavano di trovarsi con quelli che erano diversi, che non erano come loro. Tedeschi e Francesi, Polacchi e Pakistani , c’era una sorprendente apertura che va al di là dei confini di razza, di cultura, generazione e fede. Questo è un dono dei giovani alla missione della Chiesa, a un segno del Regno. Forse la sfida per i giovani missionari è di imparare quella sfida, quella perseverante fedeltà all’altro, sia pure affrontata con la propria fragilità e paura. Le nostre case di formazione dovrebbero diventare scuole di fedeltà, dove imparare ad aggrapparci là, anche quando sbagliamo, anche quando ci sono incomprensioni, crisi nei rapporti, anche quando i nostri fratelli e le nostre sorelle non ci sono fedeli. La risposta non è scappare via, di unirsi ad un altro Ordine o di sposarsi. Noi dobbiamo svuotare le valige e gettarle via. La presenza non consiste soltanto nell’esser là, ma anche di stare là. Assume la forma di una vita vissuta attraverso la storia, la caratteristica di una vita che indica al Regno. La perseverante presenza del missionario è veramente un segno della Presenza Reale del Signore che ci ha dato il suo corpo per sempre.

Epifania

In molte parti del mondo, tutto quello che i missionari possono fare è di essere là. In certi paesi comunisti e islamici nient’altro è possibile se non essere un segno implicito del Regno. A volte anche nelle nostre città, o lavorando con la gioventù, con gli emarginati, la missione deve iniziare in una forma anonima. Il prete operaio in una fabbrica è semplicemente là. Ma la nostra fede anela a prendere un forma visibile, a essere vista. Quest’anno, il direttore della Galleria Nazionale di Londra Neil MacGregor organizzò una mostra chiamata "Vedere la Salvezza. Nella maggior parte della storia europea, la nostra fede è stata resa visibile, nella vetrate, nei dipinti e nelle sculture. La celebrazione della nascita di Cristo di solito iniziava con l’Epifania, la manifestazione della gloria di Dio tra noi. Quando Simeone riceve il bambino Gesù al Tempio egli gioisce "perché i miei occhi hanno visto la salvezza che tu hai preparato per tutti i popoli" (Lc 2, 31) Come S. Giovanni dice, noi proclamiamo "quello che abbiamo sentito, quello che abbiamo visto con i nostri occhi, ‘che abbiamo contemplato e toccato con le nostre mani" (1Gv 1 ,1). La missione spinge ad andare oltre la presenza verso la manifestazione, l’epifania.

Fino dalla lotta iconoclastica del nono secolo, il cristianesimo ha desiderato mostrare il volto di Dio. Nell’Europa del Medio Evo, la gente raramente non vedeva altri volti se non quelli del Cristo e dei Santi, ma nel nostro mondo noi siamo bombardati da mille volti. Sulle nostre pareti appendiamo nuove icone: Madonna, la Principessa Diana, Tiger Woods, le Spice Girls. Per essere importanti oggi bisogno raggiungere lo status di Icona. Vediamo facce ovunque: politici, attori, giocatori di pallone, ricchi, gente che è famosa per il semplice fatto di essere famosa. Essi ci sorridono dai cartelloni pubblicitari nelle nostre strade, dagli schermi del TV. Ma noi crediamo che l’umanità ha fame di vedere un’altra faccia, la faccia di Dio, la visione beatifica. Come possiamo noi manifestare quel volto?

Non sarebbe sufficiente aggiungere la faccia di Cristo a quella della folla. Potrebbe essere buono ma non sufficiente per Walt Disney fare dei cartoni animati sui vangeli. Mettere la faccia di Gesù sullo schermo insieme a quello di Paperone e Topolino non raggiunge nessuna manifestazione. Molte chiese protestanti in Gran Bretagna hanno dei mega manifesti con le parole dei vangeli che fanno concorrenza con quelle della pubblicità nelle strade. Tutto ciò può essere ammirevole, ma io l’ho sempre trovato piuttosto imbarazzante. Ricordo le nostre risatine quando si passava davanti ad un cartellone fuori la chiesa locale che chiedeva "avete vegliato con le vergini sapienti o avete dormito con le vergini stolte?"

La sfida è questa: come posso io manifestare la gloria di Dio, la bellezza di Dio? In questo mondo pieno di immagini, come può la bellezza di Dio essere manifestata? Balthasar parla di una "auto-manifestazione" della bellezza, di una sua "autorità intrinseca". Riconosciamo nella bellezza una sua attrattiva che non possiamo facilmente ignorare. C.S. Lewis disse che la bellezza desta il desiderio verso il "nostro paese lontano", la casa alla quale aneliamo ma che non abbiamo mai visto. La bellezza rivela il nostro ultimo fine, quello per il quale noi siamo fatti, la nostra saggezza. In questo mondo che sfugge, con il suo futuro sconosciuto, il missionario è il portatore della saggezza, della saggezza del destino finale dell’umanità. Questo destino ultimo è intravisto nella bellezza del volto di Dio. Ma come possiamo manifestarlo adesso?

Domanda più facile da fare che da rispondere. Spero che voi riusciate a trovare risposte più stimolanti delle mie. Voglio dire che noi dobbiamo presentare immagini, facce diverse da quelle che vediamo nei cartelloni delle strade. Innanzitutto la bellezza si rivela non nelle facce dei ricchi e dei famosi ma dei poveri e dei non potenti. Poi le immagini del villaggio globale offrono trattenimenti, distrazioni, dove la bellezza di Dio viene deformata.

Le immagini del villaggio globale mostrano la bellezza del potere e della ricchezza. È la bellezza del giovane in forma che possiede tutto. È la bellezza della società consumistica.. Non pensare che io sia geloso del giovane bene, in forma, ma per quanto nostalgico possa essere, il vangelo colloca la bellezza altrove.

La manifestazione della gloria di Dio è la croce, un uomo morente e abbandonato. È questa un’idea così scandalosa che ci sono voluti quattro secoli prima di essere rappresentata. Probabilmente la prima rappresentazione del Cristo crocifisso è sulle porte di Santa Sabina, dove io vivo, e fu fatta nel 432, dopo la distruzione di Roma da parte dei barbari. La irresistibile bellezza di Dio risplende nella più assoluta povertà.

Questa può sembrare un’idea pazza, fino a quando non si pensa ad uno dei più interessanti di tutti i santi, San Francesco d’Assisi. Ho fatto un pellegrinaggio ad Assisi la scorsa estate. La Basilica era affollata di gente, attirati dalla bellezza della sua vita. Gli affreschi di Giotto sono belli, ma la bellezza più profonda è quella del poverello. La sua vita è svuotata da un vuoto, la povertà, che può essere riempita solo da Dio. Il Cardinal Suhard scrisse che essere missionario "non consiste in impegnarsi nella propaganda, neppure in attirare la gente, ma nell’essere un mistero vivente. Questo significa vivere la propria vita in modo che sarebbe un non senso se Dio non esistesse". Noi vediamo la bellezza di Dio in Francesco, perché la sua vita non avrebbe avuto un senso se Dio non esistesse.

Per Francesco fu importante trovare una nuova immagine di Dio nella sua povertà (non riesco ad immaginare perché sto facendo tutta questa pubblicità per i Francescani!). Neil Mac Gregor dice che fu Francesco ad inventare il presepio, il segno di Dio che abbraccia la nostra povertà. Nel 1223 egli scrisse ad un signore di Greccio: "io vorrei rappresentare la nascita del Bambino proprio come avvenne a Betlemme, in modo che il popolo possa vedere con i propri occhi le ristrettezze che egli soffrì da bambino, come egli fu deposto in una mangiatoia con un asino ed un bue accanto". Nel mondo del tredicesimo secolo, con i suoi affreschi, nella nuova civilizzazione urbana, nella sua mini-globalizzazione, Francesco rivelò la bellezza di Dio con una nuova immagine di povertà.

Questa è la nostra sfida del villaggio globale, di manifestare la bellezza di un Dio povero. È molto difficile perché spesso le nostre missioni sono in posti della più terribile povertà, in Africa in America Latina e parti dell’Asia dove la povertà è chiaramente una cosa brutta. I missionari costruiscono scuole, università, e ospedali. Noi conduciamo istituzioni ben organizzate e vitali. Noi siamo visti come ricchi. Ma in molti paesi, il sistema educativo e sanitario crollerebbe se non ci fosse la Chiesa. Come possiamo allora mostrare la bellezza della gloria di Dio, splendente nella povertà? Come possiamo offrire queste servizi insostituibili, e nello stesso tempo vivere una vita che è un mistero e che non avrebbe senso se Dio non esistesse?

Diamo ora uno sguardo veloce ad un secondo modo nel quale noi possiamo rivelare la bellezza di Dio. Ho iniziato questa conferenza dicendo che quello che è una caratteristica del nostro mondo non era tanto il fatto di essere diventato globale, ma di non sapere dove esso stia andando. Non sappiamo che tipo di futuro stiamo creando per noi stessi. Anche il polo nord si sta sciogliendo e sta diventando un mare. Cosa ancora? Questa incertezza provoca ansia. Difficilmente osiamo guardare al futuro, per cui diventa più facile vivere il presente. Questa è una cultura della pronta gratificazione. Secondo Kessler, "la maggior parte della gente oggi vive meno di grandi prospettive che di risultati tangibili. Sperimenta la tua vita ora, è l’imperativo della cultura secondaria che sta invadendo il globo. È sufficiente vivere la vita al presente, cosi come è, senza una prospettiva".

Quando volo a Londra, spesso vedo la ruota del millennio, l’orgoglio della città per le celebrazioni dei due mila anni dalla nascita di Cristo. Ma tutto quello che fa, non è altro che girare e girare attorno, quando funziona! Ma essa non va in nessun altro posto. Ci offre la possibilità di essere spettatori, che osservano il mondo ma senza coinvolgimento. Ci fa divertire, ci da la possibilità di scappare per un attimo dal traffico della città. Diventa un buon simbolo di come noi spesso cerchiamo di sopravvivere in questo mondo che ci sfugge. E questo è quanto molte delle nostri immagini ci offrono, divertimenti che ci fanno dimenticare. Giochi al computer, telenovelas, film, ci fanno dimenticare di fronte ad un futuro sconosciuto.

Questo bisogno di fuga viene bene espresso in un fenomeno tipico del ventesimo secolo, l’«evento». Un evento può essere una partita di calcio, un concerto, un party, un’olimpiade. Un "evento" è un momento di esuberanza, di estasi, dove noi siamo trasportati fuori dal nostro monotono mondo, per farci dimenticare. Quando Disneyland ha costruito una nuova città in Florida, dove appunto la gente poteva evadere dalle ansie dell’America moderna, la città venne chiamata Celebrazione.

Anche il cristianesimo trova il suo centro in un «incredibile evento», che è la Risurrezione. Ma è un avvenimento completamente diverso, perché non offre fuga ma trasformazione. Non invita a dimenticare il domani, ma è il futuro che irrompe dentro. Alle prese con la nostra ansia in questo mondo che ci sfugge, non sapendo dove stiamo andando, i cristiani non possono rispondere né con il dimenticare né con una predicazione ottimistica del futuro. Però noi vediamo segni di Resurrezione fare breccia attraverso gesti di trasformazione e liberazione. Le nostre celebrazioni non sono una fuga ma una anticipazione del futuro. Esse non offrono oppio, come pensava Marx, ma promessa.

Un domenicano inglese, Cornelius Emst, una volta scrisse che l’esperienza di Dio è quella che egli chiama "momento genetico". Il momento genetico è trasformazione, novità, creatività, nel quale Dio irrompe nella nostra vita. Scrisse: "Ogni momento genetico è un mistero. È alba, scoperta, primavera, nuova nascita, venuta alla luce, risveglio, trascendenza, liberazione, estasi, consenso sponsale, dono, perdono, riconciliazione, fede, speranza e amore. Si può dire che il cristianesimo è la consacrazione del momento genetico, il centro di vita dal quale si rivela la prospettiva dell’esperienza umana nella storia. "Ecco io faccio nuove tutte le cose. (Ap 21, 5).

Per cui, la sfida per la nostra missione è come rendere visibile Dio attraverso gesti di liberazione, trasformazione piccoli "eventi" che sono segni della fine. Noi abbiamo bisogno di piccole irruzioni della libertà di Dio e della sua vittoria sulla morte. E stranamente ho trovato più facile vedere questo in eventi secolari che religiosi: piazza Tienanmen, la caduta del muro di Berlino.

Che cosa potrebbe essere una immagine totalmente religiosa? Forse una comunità di Monache Domenicane nel Nord del Burundi, Tutsi e Hutu che vivono e pregano insieme in pace in una terra di morte. Un altro esempio potrebbe essere una comunità ecumenica che ho visitato a Belfast, nell’Irlanda del Nord. Cattolici e Protestanti vivevano insieme e quando uno in quella guerra settaria veniva ucciso, un cattolico ed un protestante della comunità andava a visitare i parenti e a pregare con loro. Questa comunità era un segno che noi non siamo condannati alla violenza, una piccola epifania del Regno. Non sappiamo se la pace è dietro l’angolo o se la violenza è destinata a crescere, ma qui c’era una parola fatta carne che parlava del piano finale di Dio.

Proclamazione

Siamo passati così dalla missione come presenza alla missione come manifestazione o epifania. 1 nostri occhi hanno visto la salvezza del Signore . Ma noi dobbiamo fare un ulteriore passo, che è quello della Proclamazione. Il nostro vangelo deve giungere al mondo. Alla fine del vangelo di Matteo i discepoli sono mandati a tutte le nazioni per insegnare quello che il signore aveva comandato. La Parola diventa carne, ma anche la carne diventa Parola.

Vediamo qui quello che costituisce la crisi più profonda nella nostra missione oggi. C’è un profondo sospetto verso ognuno che pretende di insegnare, a meno che provengano dall’oriente o portano qualche strana dottrina alla New Age. Missionari che insegnano sono sospettati di indottrinamento, di imperialismo culturale, di arroganza. Chi siamo noi da dire a uno quello che deve credere? Insegnare che Gesù è Dio è visto come indottrinamento. Tuttavia la nostra società si dimostra scettica verso ogni pretesa di verità. Noi viviamo a Disneyland, dove la verità può essere ricostruita come vogliamo. In un epoca virtuale, la verità è quello che complotta contro il tuo computer. Ho letto di un pilota che decollò da un aeroporto in Perù, ma tutti i suoi comandi andarono in tilt. Quando girava a sinistra, i controlli dicevano che egli virava a destra, quando saliva essi dicevano che stava andando giù. Le sue ultime parole registrate furono "È tutta una finzione", ma aihmé non però la montagna contro la quale andò a sbattere.

In "Christianity Rediscovered" Vincent Donovan racconta come egli lavorò per molti anni come missionario tra i Masai, costruendo scuole e ospedali, ma senza mai proclamare la sua fede. In questo non era incoraggiato dai suoi superiori. Alla fine non poté più fare diversamente, radunò la sua gente e disse loro della sua fede in Gesù. Allora (se ricordo bene, perché ho perso la copia che avevo di questo libro) gli anziani dissero: "Noi ci siamo sempre domandati perché tu eri qui e ora finalmente lo sappiamo. Perché non ce l’hai detto prima?". Questa è la ragione per la quale siamo mandati: dire alla gente della nostra fede. Non sempre abbiamo la libertà di parlare, e dobbiamo scegliere bene il momento, ma sarebbe in definitiva paternalistico e accondiscendente non proclamare quello che crediamo essere vero. In effetti fa parte della Buona Novella che gli esseri umani sono fati per la verità e possono raggiungerla. Come dice Fides et Ratio, «Si può definire l’essere umano … come colui che cerca la verità» (§ 28) e tale ricerca non è vana. Noi abbiamo, come dicono le Costituzione Domenicane, una "propensio ad veritatem " (LCO 77. 2), un’inclinazione alla verità. Ogni spiritualità della missione deve includere una passione per la verità.

Nello stesso tempo, è centrale alla tradizione cattolica l’insegnamento che noi stiamo al limite del linguaggio, appena intravediamo una parte del mistero. San Tommaso dice che l’oggetto della fede non sono le parole che diciamo, ma Dio che non possiamo vedere e conoscere. L’oggetto della nostra fede va al di là delle nostre parole. Noi non possediamo e dominiamo la verità Confrontati con la fede e le credenze degli altri, dobbiamo avere una profonda umiltà. Come appunto scrisse Claverie, "io non possiedo la verità, io ho bisogno della verità degli altri", io sono un mendicante della verità.

Al cuore della spiritualità della missione, c’è certamente una comprensione della giusta relazione tra la fiducia che noi abbiamo della rivelazione della verità e l’umiltà che nutriamo di fronte al mistero. Il missionario deve cercare il giusto equilibrio tra fiducia e umiltà. Questo è causa di una tensione immensa nella Chiesa, tra la Congregazione della Dottrina della Fede e alcuni teologi dell’Asia, e anche tra molti ordini religiosi. Può essere una tensione fruttuosa al centro della nostra proclamazione del mistero. Ricordo un Capitolo generale dei domenicani nel quale sorse una forte discussione tra quelli che misero a repentaglio la propria vita e vocazione nella proclamazione della verità, e quelli che sottolineavano quanto, secondo l’insegnamento di S. Tommaso, noi possiamo sapere di Dio. Il tutto terminò al bar su un testo della Summa contra Gentiles, e il consumo di molta birra e cognac! Per vivere bene questa tensione, tra proclamazione e dialogo, io credo che il missionario ha bisogno di una spiritualità della veridicità e di una vita di contemplazione.

Può sembrare strano parlare di una spiritualità della veridicità. Ovviamente il predicatore deve dire solo quello che è vero. Ma io credo che uno saprà quando parlare o quando restare in silenzio, solo quando uno è stato educato alla disciplina della veridicità. È un ascetismo lento e profondo, prestare attenzione a quello che dicono gli altri, nella consapevolezza di tutti quei modi nei quali noi usiamo per dominare e manipolare piuttosto che rivelare e aprire.

Nicholas Lash scrisse: "Incaricati come ministri della Parola redentiva di Dio, a noi viene richiesto, nella vita pubblica e privata, nel lavoro e nel divertimento, nel commercio e nella scuola, di mettere in pratica e di favorire quell’interesse meticoloso e responsabile sulla qualità della conversazione, della veridicità della memoria, che è la causa principale di peccato. Di conseguenza la Chiesa è o dovrebbe essere una scuola di filologia, un’accademia di cura della parola". Il concetto del teologo suona molto arido. Come può un missionario avere tempo per un tipo simile di cose? Ma essere un predicatore comporta l’apprendimento dell’ascetismo della veridicità in tutte le parole che diciamo, di come parliamo degli altri, i nostri amici e nemici, delle persone che sono appena uscite dalla stanza, del Vaticano, di noi stessi. Solo se noi impariamo questo saremo in grado di distinguere la differenza tra una buona fiducia di proclamare la verità e l’arroganza di quelli che si credono di sapere di più di quello che possono; la differenza tra umiltà di fronte ad un mistero e un annacquato relativismo che non dà il coraggio di parlare affatto . Questa disciplina è parte della nostra assimilazione a chi è la Verità, e a quella parola che "è viva ed efficace, più affilata di ogni spada a due tagli, che penetra fino alla divisione dell’anima, delle giunture, e a discernere i pensieri e le intenzioni del cuore" (Eb 4, 12).

Inoltre noi saremo fiduciosi ed umili predicatori, solo se diventiamo contemplativi. Chris MeVey disse che "la missione inizia nell’umiltà e finisce nel mistero." Solo se noi impariamo a riposare nel silenzio di Dio, che impariamo a trovare le parole giuste, parole che non sono né arroganti né vuote, parole che sono vere e umili. Solo se il centro della nostra vita è il silenzio di Dio, riusciremo a capire quando finisce la parola ed inizia il silenzio, quando proclamare e quando non. Rowan Williams scrisse che "quello che dobbiamo riscoprire è la disciplina del silenzio – non un silenzio assoluto, inarticolato, ma la disciplina di lasciare perdere il nostro facile e superficiale chiacchierare del vangelo, perché le nostre parole possano venire nuovamente da una nuova e diversa profondità o da una forza che va al di là delle nostre fantasie". È questa dimensione contemplativa che distrugge le immagini false di Dio che noi possiamo essere tentati di adorare, e che ci libereranno dalla trappola dell’ideologia e dell’arroganza.

Futuri cittadini del Regno

Concludo ora raccogliendo insieme i fili. Ho detto che l’inizio di ogni missione è innanzitutto la presenza; essere là come segni del Regno, per quelli che sono più separati, separati da noi dalla storia, dalla cultura e dalla fede. Ma questo è solo l’inizio. La nostra missione ci sospinge verso la manifestazione, l’epifania e alla fine verso la proclamazione. La Parola diventa carne, e la carne diventa parola. Ciascun stadio di sviluppo della nostra missione chiede al missionario qualità diverse: fedeltà, povertà, libertà, veridicità e silenzio. Sto offrendo un’immagine di un missionario santo, come ogni altro vero missionario? Si adatta questo a una coerente "Spiritualità della missione?

Dicevo che a questo punto della storia della missione della Chiesa, possiamo pensare del missionario come il futuro cittadino del Regno. Il nostro fuggevole mondo è fuori di ogni controllo. Non sappiamo dove sta andando, se verso la felicità o la miseria, la prosperità o povertà. Noi cristiani non abbiamo un’informazione privilegiata. Ma noi crediamo che alla fine il Regno verrà. Questa è la nostra saggezza, ed è una saggezza che i missionari incarnano nella loro stessa vita.

San Paolo scrive ai Filippesi che, "dimenticando il passato e proteso verso quanto sta davanti, corro verso la meta per quel premio della chiamata di Dio in Gesù Cristo" (Fil 3, 13). Questa è un’immagine meravigliosa e dinamica. Paolo si protende come un atleta olimpionico in cerca . della medaglia d’oro. Essere cittadini del Regno significa vivere questo dinamismo. Il missionario soffre di incompletezza, è fatto a metà fino a quando verrà il Regno, dove tutti saranno uno. Siamo alla ricerca di quella verità che ora solo intravediamo. Essere futuri cittadini del Regno, significa essere dinamicamente e gioiosamente incompleti.

Eckart scrisse che "in proporzione a quanto tu esci fuori dalle cose, altrettanto, non di più né di meno, Dio può entrare con tutto ciò che è suo, se però tu vai veramente fuori da tutto ciò che è tuo". La bellezza di Eckart è che meno uno sa di che cosa sta parlando, più suona meraviglioso! Forse ci sta invitando a quel radicale esodo da noi stessi che crea un’apertura a Dio per entrare. Noi ci protendiamo a Dio nel nostro prossimo, a Dio che è il tutt’altro, così da scoprire Dio al centro del nostro essere, Dio come il più intimo. Perché Dio è totalmente altro e totalmente intimo. Ecco perché per amare Dio dobbiamo amare i nostri vicini e noi stessi. Ma questa è un’altra conferenza!

Questo amore è molto rischioso. Giddens dice che in questo mondo pericoloso che porta verso un futuro sconosciuto, l’unica soluzione è di accettare il rischio. Il rischio è la caratteristica di una società che guarda al futuro Egli dice che " la sorgente di quell’energia che crea benessere nella moderna economia è un abbraccio positivo col rischio ...Il rischio è il dinamismo di una società aperta al cambio, che vuole determinare il suo futuro piuttosto che lasciarlo alla religione, alla tradizione o ai capricci della natura". Egli vede chiaramente la religione come un rifugio dal rischio, ma la nostra missione ci invita rischiare al di là di quanto egli possa immaginare. Questo è il rischio dell’amore. È il rischio di vivere per l’altro che può anche non volermi; il rischio di vivere per la pienezza di una verità che io non posso catturare; il rischio di lasciarmi svuotare dal desiderio Dio il cui Regno verrà. Questa è la cosa più rischiosa ma la più sicura.

 

 

 


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