L’ ESCATOLOGIA NEL MONDO SECOLARIZZATO

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I.

Signore e Signori,

che cosa porterà il futuro all’umanità? Un regno di pace e di giustizia? O quello che accadrà sarà completamente diverso? Vi sarà, alla fine, una guerra atomica? Una catastrofe climatica? Un progressivo avvelenamento della terra? Indipendentemente da quello che avverrà, che si tratti di una fine buona o cattiva, noi ci immaginiamo la storia come un processo orientato verso una fine, verso un fine. Questa idea è sopraggiunta nel mondo soltanto con il giudaismo e con il cristianesimo. In precedenza si pensava il tempo come un ciclo, un circolo. Ci si orientava sulla natura, il cosmo, il corso ciclico delle stelle, il ripetersi delle stagioni. In questo mondo del ritorno, non vi era nulla di nuovo. Non vi era nemmeno nulla di unico. Vi era senza dubbio mutamento. Ma tale mutamento si realizzava secondo un ritmo sempre uguale. Tutto era così come era sempre stato.

Con il cristianesimo questa concezione del tempo e della storia si è trasformata. Per i cristiani la storia ha un fine. Essa ha un inizio nella creazione, un centro nell’incarnazione di Dio, una fine nel ritorno del Signore. La storia non viene più rappresentata come un circolo. Ce la rappresentiamo piuttosto come una freccia diretta verso un bersaglio.

Questa concezione del tempo e della storia ha avuto un tale successo da essere, negli ultimi secoli, ripetutamente imitata. É stata secolarizzata tanto nelle filosofie della storia come pure negli scenari di una possibile fine del mondo prodotti dalle scienze naturali. Il filosofo Karl Lówith ha mostrato come la filosofia della storia degli ultimi secoli sia derivata da una considerazione teologica della storia. La storia universale è una figlia della storia della salvezza. Jacob Taubes definisce le filosofie della storia “escatologie filosofiche”. Esse sono le eredi dell’escatologia occidentale, della dottrina della fine e del compimento del mondo. Tuttavia il processo di trasferimento dall’ambito della religione a quello della storia avviene con notevoli variazioni. Le escatologie secolarizzate sono anche figlie degeneri della storia della salvezza. Al posto di Dio esse pongono l’uomo. L’uomo, non Dio, deve essere il Signore della storia. Le potenze e le forze intramondane divengono la Provvidenza, con cui Dio guida la storia. Per Francesco Bacone, e molti dopo di lui, sono la

 

scienza naturale e la tecnica. Sono esse, come dice Bacone, che conducono l’uomo in Paradiso. La bussola, la stampa e la polvere da sparo costituiscono per i pensatori utopisti del Rinascimento una prova del fatto che il mondo è stato scoperto e conquistato nella sua totalità, e che, con la conoscenza del mondo, si avvicina contemporaneamente anche la fine dei tempi. In Kant è l’”intenzione della natura” la grande forza mondana, che spinge l’uomo alla cultura e a una pace perpetua. In Hegel la storia viene guidata da uno “spirito universale”, che conduce popoli e individui – contro la loro intenzione – al “progresso nella coscienza della libertà”. In Marx sono le forze produttive il motore della storia. Esse si sviluppano automaticamente, spezzano le catene dei rapporti di produzione volta a volta vigenti, mandando avanti in tal modo il progresso. In Condorcet e Comte sono i progressi del sapere e delle scienze, che conducono l’umanità dallo stadio del mito e della metafisica al regno del sapere universale. Da Lessing fino a Kant, da Condorcet a Comte, da Hegel fino a Marx – la Provvidenza viene continuamente sostituita da potenze e forze intramondane. In più si afferma che tali forze sono tali da condurre la storia verso una fine buona. Esse fanno questo, così si crede, a dispetto di tutte le debolezze e di tutti gli errori dell’uomo.

Il XX secolo ha scosso alle fondamenta questa fiducia nel progresso e nella buona fine di tutte le cose. Le guerre mondiali, i genocidi, i sempre più evidenti lati negativi del dominio della natura hanno suscitato dubbi intorno alle teorie del progresso. Sono arrivate così altre storie della fine: storie di una fine terribile. Esse si trovano nei romanzi di Science Fiction, nelle utopie nere o nei film popolari hollywoodiani dedicati alle catastrofi. Queste storie della fine sono spaventose, ma anche affascinanti. Addirittura arrivano a divertirci. In fondo, fino ad ora, siamo sopravvissuti, e in tal modo assaporiamo un piacevole brivido di spavento, una miscela di angoscia e di sensazione di averla ancora una volta scampata. Di fronte alla prima guerra mondiale lo scrittore Karl Kraus scrive la satira Gli ultimi giorni dell’umanità (Die letzten Tage der Menschheit). Nel carnevale di Colonia si era già cantato: “Il 17 maggio è la fine del mondo! Non ci resta molto da vivere! Non ci resta molto da vivere!”. L’umanità si fa coraggio di fronte a una possibile fine spaventosa. Stiamo alla larga dal problema. Rimuoviamo il pensiero della fine, perché è terribile e perché supera la nostra capacità rappresentativa.

Quello che qui di seguito vorrei mostrare sono le differenze che sussistono fra la concezione cristiana della storia e le sue forme secolarizzate. Entrambe queste concezioni della storia cercano di offrire conforto all’uomo e di prepararlo alla fine. Le forme secolarizzate della concezione della storia cercano di offrire conforto predicendo il progresso o una fine buona. Ma non sono nella condizione di mantenere le loro promesse. Lasciano infatti aperte domande decisive: come può

 

essere possibile un mondo giusto su questa terra? Come può giustificarsi l’uomo, se la sua storia fino ad ora è stata soltanto una catena di catastrofi?

Inizio con le obiezioni contro le concezioni secolarizzate della storia, e passo poi a presentare i vantaggi che, rispetto a queste ultime, sono offerti dalla comprensione cristiana.

II.

Che cosa parla contro le storie secolarizzate della fine e del fine della storia? A sfavore parla il fatto che non si può conoscere la fine, il fine della storia. Non lo si può conoscere, lo si deve credere. Nella storia non vi sono né leggi né tantomeno un’unica legge dello sviluppo che si possano conoscere o provare scientificamente. Chi sostiene il contrario non sa quel che dice. O forse, sì, lo sa, ma in questo caso persegue altri fini rispetto a quelli della conoscenza. L’asserita conoscenza del fine della storia serve in questo caso alla creazione di una ideologia. Dalla conoscenza del fine della storia viene desunta la pretesa di indicare all’uomo il cammino verso questo fine. E poiché parliamo del fine della storia stessa, il fine della storia nel suo complesso, questa pretesa è totalitaria. In forma attenuata può anche trattarsi di procurarsi vantaggi discorsivi. Chi parla di questo fine ultimo, si prende l’ultima parola. La sua posizione nel discorso è imbattibile. A sfavore non è più possibile dire nulla. Si può soltanto, tacendo, prenderne atto. Chi parla di questo fine, ha già vinto. Egli dispone di un argomento insuperabile.

La secolarizzazione dell’escatologia crea una pretesa eccessiva per il soggetto umano. L’uomo osa rendersi responsabile della storia e del fine di questa. Ma se l’uomo è responsabile della storia, allora egli è responsabile anche di ogni guerra e delitto, di ogni umiliazione e degradazione, di cui la storia è piena. Se l’uomo è il signore della storia, allora egli è responsabile del fatto che questa storia, fino ad ora, è stata una storia di catastrofi. La storia, secondo la definizione che una volta ne ha dato Hegel, è un “banco da macellaio”. L’uomo è davvero disposto a riconoscere di essere un macellaio? Secondo la Bibbia la storia politica inizia con Caino e Abele. Essa inizia con il fratricidio e il cristiano può dire che, da allora, tutta la storia è stata la storia di un fratricidio. Ma colui che si riconosce in una considerazione intramondana della storia è davvero disposto a riconoscersi anche in questa conseguenza?

A partire da Leibniz esiste la teodicea, la quale giustifica il Dio giusto, a dispetto di ogni sventura e di ogni male in questo mondo. Se l’uomo deve essere il Signore della storia, allora è necessaria una analoga antropodicea. L’uomo ha bisogno di una giustificazione di se stesso. Ma come è possibile questa giustificazione? Non vi sono misfatti così mostruosi che gli uomini non possono perdonarseli a vicenda? In questi casi chi è colui che deve perdonare, se l’uomo è solo con se stesso?

Alcune filosofie della storia hanno tentato una giustificazione dell’uomo. Esse ammettono che l’uomo agisce male e che la storia è una catena di catastrofi. Tuttavia interpretano questo fatto “dialetticamente”. Il che significa che trasformano in motore del progresso proprio ciò che noi rigettiamo moralmente. In Kant sono “ambizione, sete di potere, avidità” a mandare avanti lo sviluppo culturale dell’uomo. Dall’aumento delle guerre cresce il desiderio di pace, dall’aumento dell’ingiustizia il desiderio di un mondo giusto, dalla crescente oppressione il desiderio di libertà. Ma le cose possono davvero stare così? Anzi: è ammissibile che stiano così? Può il risultato buono giustificare il fatto che esso sia derivato da una azione malvagia? I fini giustificano i mezzi?

L’intenzione delle filosofie della storia è evidente. Esse vogliono sgravare l’uomo dal peso di essere responsabile delle catastrofi della storia. Tuttavia lo fanno con argomenti che anche moralmente sono discutibili. Anche se si accetta che dal male possa nascere il bene e che l’uno possa rovesciarsi nell’altro, resta pur sempre un difetto di fondo. Nessun progresso – per quanto grande esso sia – può rimediare a ciò che è stato fatto alle vittime della storia. Nella concezione secolarizzata della storia non c’è posto per una resurrezione dei morti. Non c’è posto per una riparazione delle vittime. Ciò che è accaduto è accaduto. Ciò che è stato è irreparabile, perduto per sempre. Il fatto che alle generazioni successive vada meglio che a quelle precedenti non compensa il sacrificio di queste ultime. Esse non godranno di quel progresso che il loro sacrificio ha reso possibile. Ne consegue che un giusto riequilibrio è possibile soltanto se questo mondo in cui viviamo non è l’ultimo. Un giusto riequilibrio è possibile soltanto se esiste un altro mondo, nel quale tutti i torti di questo mondo saranno nuovamente riparati. Senza dubbio noi stessi cerchiamo di rendere giustizia alle vittime della storia. Lo facciamo quando ci ricordiamo di esse, quando le commemoriamo. Ma quanti uomini sono stati dimenticati? Quanti popoli sono stati eliminati dalla storia, come se non fossero mai esistiti? Soltanto se esiste uno spirito, che ricorda tutto, può essere possibile la giustizia. Soltanto se esiste il giorno del giudizio, nel quale tutto si fa chiaro, solo allora potrà darsi la giustizia. Diversamente questo mondo rimarrebbe la misura ultima, e in questo mondo può essere che il guardiano del campo di concentramento trionfi sulla sua vittima.

Il filosofo Kant pose come postulati della ragione pratica Dio, la libertà e l’immortalità, e lo fece proprio perché colui che agisce moralmente in questo mondo non riceve ciò che merita. Costui è certamente degno della felicità, tuttavia resta incerto se sarà felice. Con questi postulati Kant era sulla giusta strada. Egli avrebbe dovuto soltanto includere il giorno del Giudizio. Anch’esso è un postulato della ragione pratica, non solo un dogma a cui si deve credere.

con l’esigenza di offrire all’uomo consolazione; vogliono consolarlo con le promesse del progresso e della buona fine. Tuttavia il loro assegno sul futuro è scoperto; parlano di questo mondo finito e relativo come se esse avessero da dire qualcosa di definitivo. Ma da dove si dovrebbe trarre un sapere intorno a ciò che è definitivo? Può esserci in questo mondo qualcosa di definitivo? Una parola ultima? Una decisione ultima? Le Corti Costituzionali vengono talvolta concepite proprio come se potessero dire un’ultima parola e pronunciare un giudizio ultimo. In realtà esse giudicano una volta in un modo e un’altra in un altro. Ogni croce che vediamo appesa in un’aula di tribunale è un richiamo al fatto che esiste ancora un altro giudice, un giudice superiore, e che solamente da lui viene l’ultimo giudizio. Anche la sovranità dello Stato moderno viene intesa qualche volta come qualcosa di ultimo, come una competenza per decisioni ultime. Tuttavia anche le decisioni degli Stati vengono riviste. Le clausole eterne nelle Costituzioni sono sospese. I giudizi delle supreme Corti e le decisioni sovrane degli Stati si rivelano temporanee e modificabili. Non sono qualcosa di definitivo.

III.

Le obiezioni che ho sollevato nei confronti delle concezioni secolarizzate non si possono rivolgere alla concezione cristiana della storia. La dottrina cristiana non afferma di conoscere una fine della storia. Alla fine occorre credere, senza sapere quando sopraggiungerà. Come si dice in Matteo, il Signore viene “come il ladro nella notte”. Non conosciamo né il giorno né l’ora. La fine non è a nostra disposizione, non si trova in nostro potere. Essa è “extra nos”. Il cristiano non avanza neanche la pretesa di poter realizzare la fine della storia a partire dalle proprie forze. Egli può soltanto attendere la fine. La vita cristiana è un unico Avvento. La storia per il cristiano è una sala d’attesa, e la tabella di marcia per i treni e per l’ultimo treno non viene stabilita dall’uomo.

Per il cristiano è Dio il Signore della storia, e questa fede preserva l’uomo dalla pretesa eccessiva di essere responsabile del fine e della fine della storia. La fine non è cosa che riguarda la conoscenza, ma la fede; non è nemmeno una cosa che riguarda il fare, ma l’attendere. L’escatologia cristiana non consente di derivare da una conoscenza del fine della storia una ideologia di potere. Essa non consente neanche di procurarsi, con il richiamo ad una tale conoscenza, dei vantaggi discorsivi. Da un punto di vista cristiano non si dà alcuna traduzione dell’escatologia in politica, come invece avviene in modo così caratteristico nelle concezioni secolarizzate della storia. La fede cristiana libera questo mondo dalla definitività e dall’assolutezza. Il mondo può essere compreso per quello che è: un mondo finito, relativo, temporaneo.

Il teologo Erik Peterson, nella sua Lezione sulla Lettera ai Romani, ha coniato il concetto di “riserva
escatologica”. Egli coglie esattamente ciò che è in gioco per il cristiano nel suo rapporto con la
storia. “Riserva escatologica” significa che la fine della storia è già iniziata. Il nuovo Eone, il tempo

 

nuovo, è già iniziato. Con la redenzione è già iniziato il regno di Dio, anche se questo regno non è ancora pienamente realizzato; si compirà solo alla fine dei giorni, al ritorno del Signore. Il cristiano vive in questa condizione intermedia, fra il “già” e il “non-ancora”, fra il regno di Dio “già” iniziato e il regno di Dio “non ancora” giunto a compimento. Il fatto che il regno di Dio sia già iniziato costituisce il conforto del cristiano; il fatto che il suo compimento ancora manchi costituisce la sua speranza. In ogni caso – con riguardo alla “riserva escatologica” – il mondo in cui noi viviamo può essere soltanto temporaneo, finito, può essere soltanto un mondo relativo. La concezione cristiana della storia distingue fra ciò che è ultimo e ciò che lo precede, fra assoluto e relativo, fra temporaneo e definitivo. La politica, intesa in senso cristiano, può essere sempre e soltanto l’arte della regolazione delle cose penultime, mentre alla religione spetta ciò che è ultimo. Quando la religione si occupa di ciò che è ultimo, essa può in tal modo sgravare lo Stato; può sgravarlo dal peso di doversi occupare delle cose ultime, dal pericolo di rinchiudersi ideologicamente in se stesso. Vista così, la religione è una difesa contro l’ideologia e il totalitarismo. Per lo Stato moderno essa è una “garanzia di liberalità” (Lúbbe). La distinzione fra ultimo e penultimo, fra assoluto e relativo, fra definitivo e temporaneo, apre proprio al cristiano l’ampio campo di una politica pragmatica. Dal momento che in questo mondo non si ha a che fare con questioni ultime, il cristiano può essere pacato e tollerante; non deve attendersi la salvezza dalla politica e non è costretto a vedere nella storia il tribunale del mondo.

“La storia universale è il tribunale del mondo”. Questa espressione tratta da una poesia di Schiller mostra fin dove si arriva quando non si distingue con chiarezza fra politica e religione. Essa esalta i vincitori; attribuisce ad essi non solo la vittoria, ma anche il diritto. Essi hanno vinto con ragione, semplicemente perché sono i vincitori. Dire che “La storia universale è il tribunale del mondo” può addirittura significare che il giudizio finale è stato trascinato nella storia, non in quanto giudizio di Dio, ma nel senso che la separazione dei redenti dai dannati viene compiuta dall’uomo stesso. Nelle ideologie totalitarie è accaduto questo. L’uomo si è arrogato il diritto di pronunciare un giudizio assoluto, un giudizio ultimo, e di conseguenza ha creato il concetto di nemico assoluto. I nemici assoluti non vengono più nemmeno giudicati, vengono semplicemente annientati. La storia universale non può essere il tribunale del mondo, a meno che con questa sentenza non si voglia intendere che questo mondo giudica se stesso, convincendosi definitivamente della propria insufficienza e della propria provvisorietà.

 

Ho iniziato distinguendo fra concezione ciclica della storia e concezione cristiana orientata ad un fine. Coloro che si sono allontanati dal cristianesimo hanno cercato, da circa un secolo, di riabilitare la concezione ciclica del tempo. Essi si immaginano un mondo senza alcun finale e senza inizio, un mondo nel quale, come ad esempio in Nietzsche, tutto “ritorna eternamente”. Ma possiamo noi pensare il tempo come vogliamo? Oppure lo scorrere dell’orologio è del tutto indifferente rispetto a ciò che l’uomo s’immagina al riguardo? Siamo noi a determinare il tempo? Oppure è il tempo a determinarci? Esso scorre e ci scappa via. Più siamo vecchi e più ce ne rendiamo conto.

Un ritorno alla concezione ciclica del tempo non è possibile. Con troppa evidenza la nostra esperienza ci dice che tutto accade una prima e ultima volta. La nostra esistenza è un continuo addio. Il primo bacio, la prima sigaretta: questi momenti non ritornano. La cosa ci rattrista, ma, d’altra parte, siamo anche contenti del fatto che nemmeno le cose orribili ritornano eternamente. In Nietzsche non è chiaro che cosa egli intenda al riguardo. Pensava che tutti gli eventi ritornano realiter? Oppure la sua intenzione era soltanto quella di trasvalutare la concezione cristiana del tempo? Voleva soltanto trattare l’attimo fuggente come se possedesse il valore dell’eternità? Se avesse voluto pensare ad un ritorno di eventi reali, allora la sua filosofia sarebbe da respingere per ragioni morali. Essa significherebbe un mondo in cui anche Auschwitz ritorna eternamente. Ma anche se avesse voluto soltanto trasvalutare i valori, dall’eternità al tempo, dall’aldilà all’aldiqua, anche in questo caso egli avrebbe promesso più di quanto potesse mantenere. Che cosa è davvero l’attimo fuggente? Come ha mostrato Agostino, esso è sospeso fra il “non ancora” del momento che verrà e l’”era” del momento passato. Un momento transitorio fra due punti che non esistono. Per un momento esso è qui, l’attimo, e poi anch’esso è già passato; è stato. Esso è praticamente nulla. Ciò che era viene annientato da ogni istante che verrà. Il tempo divora i suoi figli. Esso è la grande negazione che fa divenire tutto effimero.

Nietzsche ha visto tutto questo perfettamente. Tuttavia egli argomenta allo stesso modo in cui fanno abitualmente gli agnostici e gli atei. Costoro narrano una storia di fede e di miscredenza, secondo la quale il non credente è l’uomo coraggioso, deve essere l’uomo che non ha bisogno di alcuna consolazione, ma che guarda virilmente negli occhi la terribile realtà. Il mondo di un ritorno ciclico è un mondo senza senso e senza un fine. Nietzsche ha elevato all’ideale dell’ “oltre-uomo” (Über­mensch) l’uomo che può dire di sì a questa insensatezza. Egli aveva confidato che tale “oltre-uomo” sarebbe stato nella condizione di crearsi i suoi stessi valori in un mondo in se stesso insensato. Ma come si crea senso, laddove non ve ne è alcuno? Non sarebbe questo puro arbitrio? L’”oltre-uomo” deve essere autonomo; deve dare a se stesso la legge. In tal modo egli diventa escatologia in una persona. Autos, il Sé, e nomos, la legge, che coincidono in una persona. L’uomo autonomo è lui

 

stesso la fine; lui stesso è l’ultima cosa; lui stesso è legislatore e giudice in un solo essere. Egli si accusa e si assolve. Ma come è possibile tutto questo? Conosce abbastanza se stesso? Di che cosa si ricorda? Che cosa ha rimosso? Sarà di se stesso un giudice benevolo?

Il filosofo Camus, nel suo ultimo romanzo La chute (1956), ha toccato il problema del giudicare se stessi. L’intellettuale è sempre pronto a pronunciare giudizi sugli altri, per giudicare e fare giustizia. Sartre aveva rimproverato all’amico d’un tempo, di essere condannato a condannare. Questo era assolutamente ingiusto. Camus non aveva fatto nient’altro che quello che bisognava fare. Aveva attaccato il sistema totalitario di Stalin e i suoi crimini. A questo Sartre non era disposto, e così accusò l’amico, anziché solidarizzare con lui. In ogni caso, ne La chute, Camus incontra il problema di come, in un mondo senza Dio, l’uomo possa condannarsi o assolversi. In un mondo senza Dio ciascuno si eleva a giudice dell’altro, e può farlo addirittura in modo raffinato percependosi come un penitente. In tal modo infatti egli può cercare di sottrarsi all’essere-giudicato dagli altri, oppure può addirittura elevarsi a giudice sugli altri che non compiono una tale espiazione. “Quanto più mi accuso”, dice l’eroe negativo del romanzo, “tanto più possiedo il diritto di condannarvi”.

Il soggetto dell’epoca moderna vuole creare se stesso, entrando in una sorta di concorrenza con il Creatore sia in termini di potere che di creatività. La dottrina cristiana della storia ci ricorda qualcosa di diverso. Essa ci ricorda la nostra impotenza, la nostra provvisorietà e finitezza. Ma ci mostra anche che cosa possiamo sperare e che cosa, con le nostre sole forze, non possiamo permetterci e addirittura non dobbiamo permetterci. L’ultima parola, l’ultimo giudizio, la giustizia finale: tutto questo non si trova affatto nelle nostre mani; ne siamo stati liberati e, visto così, il soggetto della modernità potrebbe essere grato per tutto ciò da cui è stato sollevato, grazie alla sollecitudine di Dio per l’uomo; potrebbe essere più disteso, più tranquillo e meno aggressivo di quanto sia il Prometeo moderno.


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