LA NATURA MISSIONARIA E UNIVERSALE DELLA CHIESA LOCALE

Category: Missione Oggi
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di Spreafico Ambrogio

 

Non intendo ovviamente fare un trattato teologico su un tema così complesso come quello che mi è stato affidato. Vorrei solo indicare degli spunti dando per scontato che tutti sappiamo di che si parla, essendo più o meno tutti noi in maniera diversa implicati nell’impegno missionario della Chiesa. Non entrerò neppure nel merito dei documenti più recenti della nostra Chiesa, come l’Ad Gentes, la Evangelii nuntiandi o la Redemptoris missio, che senza dubbio voi conoscete molto bene e che hanno dato una nuova prospettiva alla missione della Chiesa. Né mi soffermerò su quella bella “Nota Pastorale”della Cei del 2004 Il volto missionario delle Parrocchie in un mondo che cambia, a cui farò qualche riferimento. Vorrei riflettere con voi a partire dal cambiamento del paradigma missionario degli ultimi decenni.

Cambia la storia, cambia la teologia.

Con la fine del colonialismo e l’indipendenza degli stati coloniali, soprattutto africani, finisce anche l’eurocentrismo. La missione non è più l’espansione di un regime di cristianità, ma viene concepita come evangelizzazione e testimonianza. Già in Ad gentes e poi nell’Evangelii Nuntiandi si percepisce l’affermazione di un nuovo paradigma missionario, come poi verrà chiamato. Esso si sviluppa anche a partire da una nuova teologia della missione, che con il Concilio abbandona definitivamente l’assioma extra ecclesiam nulla salus, da cui ovviamente derivava anche una certa teologia della missione. La Chiesa è sacramento del regno di Dio, inaugurato da Gesù di Nazareth e verso cui tende tutta l’umanità. Nella storia essa è anche sacramento dell’unità della famiglia umana disgregata dal peccato. Nella storia noi solo in parte possiamo definire la realizzazione del mistero universale della salvezza, che non necessariamente passa per tutti attraverso un’adesione esplicita alla Chiesa.

Proprio in questi nuovi contesti la reazione alla teologia e alla prassi missionaria del passato ha assunto toni talvolta esagerati, che tuttavia fanno capire quanto è avvenuto nella teologia in alcune situazioni. Si giunge normalmente, soprattutto in determinati contesti, a reinterpretare la Bibbia in relazione al proprio modello culturale. Anzi, facilmente si considerano testi di altre culture e religioni sullo stesso piano del testo biblico dal punto di vista del valore rivelativo. Ricordo che da professore di esegesi del Primo Testamento all’Università Urbaniana mi capitò alcune volte di contrastare tesi di dottorato, nelle quali si mettevano sullo stesso piano testi della propria cultura con testi della Bibbia ebraica, dimenticando che non si può spogliare la rivelazione del suo carattere storico.

A questo proposito bisognerebbe studiare meglio il rapporto esistente nella Bibbia stessa tra fede di Israele e culture dei popoli per un approccio più corretto al cosiddetto problema dell’inculturazione. Tenuto conto che il rapporto tra Bibbia e culture è qualcosa di insito alla Bibbia stessa, esso non va equivocato. Si apre una domanda ermeneutica, che tocca il rapporto tra ragione e fede: anche le culture hanno influito sul modo di interpretare e rappresentare la Bibbia. Solo uno sguardo alla storia dell’esegesi è sufficiente a comprovare questa semplice verità. Ad esempio il metodo storico critico, che a torto o a ragione ha dominato l’esegesi del secolo scorso, sarebbe incomprensibile se non fosse inserito nello sviluppo della ricerca nel campo dell’analisi letteraria e del pensiero stesso dell’Europa già a partire dall’umanesimo e dal rinascimento. Umanesimo, rinascimento, illuminismo non hanno condizionato solo l’esegesi biblica, ma anche le varie espressioni artistiche che hanno voluto rappresentare la Bibbia. Il modo in cui Michelangelo o Caravaggio rappresentano il testo sacro sarebbe certamente meno comprensibile al di fuori delle espressioni culturali del loro tempo. I canoni esegetici, letterari e artistici sono intrecciati con ampi processi culturali, che inducono rappresentazioni nuove del testo sacro, talvolta in contrasto con quelle precedenti. Se, come diceva Gregorio Magno “Biblia crescit cum legente”, ciò riguarda non solo l’esegesi, ma le diverse espressioni culturali.

Del resto la Bibbia medesima è il frutto di un incontro felice con le diverse culture in cui essa è cresciuta, dall’antica cultura egizia o mesopotamica a quella ellenista. La grande sapienza egiziana, la maat, o il patrimonio culturale sviluppatosi nell’area mesopotamica e cananaica ci hanno permesso di comprendere meglio alcuni aspetti del linguaggio biblico. La cultura persiana e l’ellenismo hanno aiutato in maniera diversa il testo sacro a costituirsi e a proporsi all’ecumene culturale, uscendo dai margini ristretti del giudaismo postesilico.  Forse si potrebbe dire: la Bibbia, parola ispirata da Dio, manifesta questo incontro misterioso tra Dio che comunica con gli uomini e l’uomo che ne accoglie il messaggio elaborandolo per mezzo delle proprie categorie culturali. I diversi generi letterari presenti nella Bibbia non rappresentano altro che l’espressione culturale mediata dal linguaggio che la rivelazione divina manifesta nel suo procedere all’interno della storia. La Bibbia è un modello del rapporto fecondo tra sapienza umana e parola di Dio, quindi tra ricerca della ragione e fede. Si legge nell’enciclica Fides et Ratio: “Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente  chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non soltanto la fede d’Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse….La peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza del pensiero e quella della fede.”

La Chiesa esiste perché missionaria

Non è più una novità né teologica né pastorale che la missione sia un fatto costituivo della Chiesa intera. È stata tuttavia necessaria la secolarizzazione e la progressiva scristianizzazione di larghi strati della popolazione delle Chiese di antica evangelizzazione per farci riscoprire il senso perennemente missionario della Chiesa. Essa si rivolge ai cosiddetti pagani, ma anche ai cristiani paganizzati. Sì, è vero, i missiologi hanno fatto distinzione tra prima evangelizzazione, nuova evangelizzazione, ecc., i termini differenti esprimono l’unica verità di una Chiesa in se stessa missionaria. E’ quanto fin dalle origini la distingueva dall’ebraismo, che non era interessato alla diffusione del proprio credo. Già la Evangelii nuntiandi ha tutta una parte interessante, la quinta, sui destinatari dell’evangelizzazione.  Anche Redemptoris missio parla della missione ad gentes e nella quinta si sofferma sulle vie della missione.

La Chiesa è quindi in se stessa missionaria. La missione non è qualcosa d’altro. Non esiste Chiesa senza missione. Lo afferma in modo chiaro la nota pastorale della CEI sul “Volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia: “Una pastorale tesa solo alla conservazione della fede e alla cura della comunità cristiana non basta più. E’ necessaria una pastorale missionaria, che annunci nuovamente il Vangelo, ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada incontro agli uomini e alle donne del nostri tempo testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza umana conformemente al vangelo e, nel nome del Vangelo, contribuire a rendere nuova l’intera società” (n. 1). Il Nuovo Testamento nasce come libro della missione. Se la comunità primitiva non  avesse sentito il bisogno di comunicare il Vangelo di Gesù Cristo, non ci sarebbe mai stato un Nuovo Testamento. Mi ha sempre colpito come gli Atti degli Apostoli parlano della crescita delle comunità primitive nelle varie città, a partire da quel bellissimo episodio del diacono Filippo che sale sul carro di un funzionario della regina di Etiopia. Che cosa significa oggi salire sul carro, cioè entrare nella vita e nelle domande della gente? Se la svolta conciliare, come sostiene Gianni Colzani, è il passaggio da una teologia del missionario a una teologia della missione, mi chiedo se non abbiamo dimenticato che il problema della missione sta innanzitutto in  un impegno personale dentro la Chiesa, cioè se non si debba riscoprire una teologia del missionario oggi, nel senso che non esiste missione senza un rapporto personale con gli uomini e le donne, senza una passione personale, altrimenti la Chiesa diventa la riproduzione di una istituzione più o meno funzionante, che risponde più a schemi precostituiti che a bisogni reali. Scrive Andrea Riccardi: “Il grande problema non è:  più dialogo e meno missione oppure, viceversa, più missione e meno dialogo. Il grande problema odierno è una passione universale vivente nelle comunità cristiane per tutti i vicini e per tutti i lontani….La missione è la realtà di una Chiesa che nasce e rinasce, ma è anche la passione di una Chiesa che si sente a casa sua nel mondo e che considera ogni uomo e ogni donna come mondi che la interessano e la riguardano. Questa visione, in grande, può essere quella delle comunità cristiane.” (“La Redemptoris missio nel contesto storico del Novecento”, in A dieci anni dall’Eniclica Redemptoris missio, a cura  della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e della Pontificia Università Urbaniana, Roma 2001, pp. 28-29).

Il genio della Chiesa cattolica è questa sua passione universale, che non esclude nessuna cultura, ma entra in dialogo con tutti, perché prima delle culture ci sono gli uomini e le donne. A mio parere questa è la domanda fondamentale da porsi oggi di fronte a un mondo dove rinascono e si rafforzano i nazionalismi e gli etnicismi, dove si costruiscono le identità in contrapposizione agli altri, come se non potesse esistere una identità in dialogo. La Bibbia può essere un veicolo fondamentale per riscoprire questa passione universale per una comunità dove in Cristo non c’è più né schiavo né libero, né giudeo né greco, né uomo né donna. Bisognerebbe rileggere gli Atti e le lettere paoline a partire da questa preoccupazione, per scoprire come la comunità cresce perché la Parola di Dio, il Vangelo di Gesù Cristo, si diffonde. È essa la vera protagonista degli Atti e dell’espansione della Chiesa (vedi Atti 6,7; 8,4.25).

Qui forse si pone il problema annoso e mai risolto del rapporto tra locale e universale. Non voglio entrare nel merito della discussione tra i due teologi, uno oggi Papa, l’altro cardinale, Ratzinger e Kasper, se viene prima la Chiesa universale o quella locale, ma senza dubbio questo problema esiste nell’essere realtà ecclesiale, perché si tratta di una dimensione del nostro essere cristiani cattolici. La cattolicità sottolinea l’universalità prima della particolarità. La plantatio ecclesiae non si può chiudere sul locale, altrimenti la Chiesa non esiste o diventa solo istituzione. L’autoreferenzialità è una tentazione continua delle nostre realtà. È l’abitudine a parlare sempre e solo di noi, fino a formarsi un gergo che risulta talmente interno da divenire incomprensibile. Quante contrapposizioni: tra clero locale e missionario, tra clero europeo e clero indigeno, tra parrocchia e movimenti, come se l’esperienza ecclesiale si riducesse alla dimensione del locale, di quello che sono io. Esiste un serio pericolo di etnicismo, che non aiuta a valutare gli elementi problematici interni ad ogni cultura e induce ad assumere una posizione di difesa di fronte all’altro, chiunque esso sia. È paradossale come la difesa nei confronti dell’altro non avviene solo con chi non è autoctono, ma anche con chi non fa parte del proprio modello di vita.

Formare alla missione

Forse la percezione più profonda che tutti sentiamo è che la missione non è un dare ma un condividere. L’umanità (anche spirituale) altra dal cristianesimo non è una frontiera da valicare, ma una realtà di cui siamo parte. L’amore di Dio l’abbraccia interamente e ad essa si comunica sempre. Il Padre è sempre all’opera e la sua azione non è un “progetto” d’amore ma una reale e attuale comunicazione di esso. L’incarnazione del Verbo di Dio e il suo mistero pasquale ne sono la garanzia. La missione è dunque la visione della mente e l’intuizione del cuore di un Dio sempre proteso all’offerta del suo Amore a tutti. La fondamentale metanoia, il cambiamento d’intelligenza/comprensione (meta nous), la “nuova testa” da formarsi, la  “sapienza  che va oltre”

consiste  nella comprensione  della relazione amorosa e dialogica di Dio dalla quale  nessuno è escluso.

La missione  è l’umanità, assunta e redenta dal Verbo, che persegue una ricerca d’esperienza e di comunione con Dio, attraverso la molteplicità delle forme e dei contesti storici, ideologici, culturali, spirituali e religiosi, per giungere ad una liberazione piena ed integrale che per il cristiano trova il proprio modello, da conoscere e testimoniare, in Gesù.

In questo senso la missione è la dimensione del vivere della Chiesa e di ogni cristiano. Esiste l’esigenza di costruire una coscienza missionaria nel cuore di tutti. La missione passa attraverso la vita, gli incontri, le parole, i gesti, non solo attraverso la proclamazione. In questo senso la missione della Chiesa è anche proposta di umanesimo in una società in cui molti valori sono messi in discussione. Noi in occidente ben lo sappiamo e ne parliamo. La questione antropologica è giustamente al centro del dibattito e della riflessione della Chiesa. Si dovrebbe avere il coraggio di riflettere più seriamente su questa questione anche all’interno di altri mondi e di altre culture. Il Sinodo dell’Africa ha sottolineato la dimensione della Chiesa come famiglia. Ad esempio si dovrebbe prendere più sul serio questa dimensione, anche perché non sempre la Chiesa è famiglia, quando è etnica, o quando gli anziani sono messi fuori dalla società o i bambini stregoni condannati all’isolamento, o quando le donne sono schiave degli uomini, o i deboli sono disprezzati. Inoltre mi domando: quale posto hanno i laici? Non dovrebbero essere con noi protagonisti della missione e di una Chiesa missionaria?

Infine ci si dovrebbe interrogare sulla responsabilità della Chiesa nella costruzione della società civile. In questo senso che cosa significa formare i laici a inserirsi responsabilmente nella società, ad essere fermento dei valori cristiani e dell’umanesimo cristiano. Le encicliche Deus Caritas estCaritas in veritate danno delle indicazioni importanti che valgono per ogni società, non solo per quelle occidentali.

Evangelizare pauperibus: la forza e il miracolo del Vangelo

Vorrei sottolineare un’ultima dimensione dell’essere missionari: l’evangelizzazione dei poveri. I poveri hanno diritto non solo alle cure (e noi lo ricordiamo in continuazione che si tratta di un diritto), ma a ricevere il Vangelo. É bello vedere come la Chiesa non abbia  mai rinunciato a questo mandato universale del Signore. Non che siamo mandati solo ai poveri, ma senza dubbio questo impegno assume un valore particolare in società nelle quali i poveri sembrano aumentare invece di diminuire. È nostro compito dare speranza e dignità a mondi dimenticati e considerati perduti. Penso ad esempio a paesi come il Pakistan o la Birmania, dove davvero la Chiesa, pur in mezzo a mille ostacoli, porge il pane del Vangelo a tanta povera gente, che acquistano dignità e diventano, se gli è consentito, soggetti nella loro società. Ciò tuttavia non esime dall’entrare in tutti i mondi, anche in quelli più complessi culturalmente o più refrattari. Se penso a Francesco d’Assisi, mi colpisce come egli si rivolgesse a tutti, dai poveri ai nobili, dagli ignoranti ai colti. Gesù si rivolgeva a tutti, e mai allontanava i poveri.

La Chiesa deve essere modello di un amore universale. “Un cuore che vede”, direbbe Benedetto XVI in Deus caritas est, un cuore che vede il dolore e sa fermarsi e avere compassione, come il Buon Samaritano. Essa vede il bisogno e sa sperare l’impossibile. Il Vangelo sa sperare e fa lavorare per l’impossibile. Mi chiedo se il problema oggi non sia la rassegnazione e il pessimismo che vincono dentro i cuori ed anche le istituzioni. Forse si tratta di rimettersi umilmente non solo di fronte ai propri carismi, ma di fronte al vangelo e credere che ci sono ancora molti miracoli da compiere: “andate in tutto il mondo……. Dopo la Pasqua Gesù incontrò varie volte i discepoli e trovò molta durezza e incredulità. Il nostro problema non è solo tecnico, organizzativo o metodologico, ma spirituale: si deve avere più fede nel miracolo del Vangelo. Un giorno li trovò sul lago di Galilea che erano tornati a pescare. Che potevano fare? Era il loro mestiere dopo tutto. Avevano pescato tutta la notte senza prendere nulla. Ci immaginiamo la loro delusione e il loro disappunto anche per la domanda di quello sconosciuto. Ma Gesù li sorprende dicendo: “Gettate la rete dall’altra parte e troverete.” La gettarono e sappiamo quanti pesci raccolsero in quelle reti che non si spezzarono. Se qualcuno ci rivolgesse lo stesso invito dopo tante fatiche e tentativi, forse anche noi risponderemmo come i discepoli. Talvolta abbiamo la sensazione di avere fatto molto ma con scarsi risultati. Eppure c’è sempre un’altra parte dove gettare la rete. L’ascolto di quell’invito provocò il miracolo di una pesca straordinaria. Ci sono troppa delusione e rassegnazione in giro, come se tutto dipendesse da noi e dalle nostre strategie e metodologie. Forse bisogna riscoprire la forza delle origini, di quel Vangelo che ha cambiato la storia. Ho preso i libri di Benedetto XVI su Gesù come una domanda ai cristiani e al mondo: rimettiamoci a seguire Gesù cominciando da un itinerario personale alla scoperta del maestro di Nazaret, perché di questo hanno bisogno gli uomini del nostro tempo più che di etichette o di soluzioni preconfezionate, schemi che si ripetono. Hanno bisogno di gente che sappia ascoltare e dire parole che giungano al cuore. Il Vangelo, se annunciato, giunge sempre al cuore, perché la Parola di Dio è un seme che cresce anche al di là di noi.

Ogni istituto missionario ha la ricchezza del suo carisma, insito nella storia e in tanti uomini e donne che vi si sono appassionati ad esso, ma forse c’è un carisma che ci accomuna tutti e che dovremmo riscoprire, che chiamerei il carisma paolino, quella della passione per la comunicazione del Vangelo a tutti.

L’apostolo vive una vera passione per la comunicazione del vangelo, di cui ne sente l’urgenza. Essa è molto ben espressa in quella frase della prima lettera ai Corinzi: “Guai a me se non annuncio il Vangelo”. (1 Cor 9,16) Nei capitoli 10 e 11 della 2 Corinzi Paolo sente l’orgoglio di questa sua missione, che difende di fronte ai suoi accusatori. La sua difesa è la difesa del vangelo. L’annuncio del vangelo è quindi il primo fondamento della vita apostolica e di ogni comunità cristiana. Per Paolo il vangelo è rivolto a tutti e deve trovare la via per parlare a tutti: ai giudei, ai pagani, ai deboli, ai forti, a tutti. Si potrebbe dire che senza comunicazione del vangelo non esiste comunità paolina. E’ infatti l’annuncio del vangelo che raduna la comunità, e la nascita della comunità è la conseguenza di chi accoglie questo annuncio. Il vangelo fa nascere la comunità chiamata da Dio attraverso la voce degli apostoli, attraverso l’annuncio del vangelo. Il cristianesimo nasce come comunità, come Chiesa, come assemblea riunita intorno alla proclamazione del vangelo di Gesù Cristo morto e risorto. Non ci può essere cristianesimo senza una comunità riunita intorno al vangelo di Gesù Cristo. Paolo dedica molto tempo perché dalla comunicazione e dall’annuncio del vangelo si costituisca una comunità. L’immagine della prima lettera ai Corinzi sulla comunità come corpo descrive con chiarezza la necessità di appartenere come gente diversa a una realtà comune, il cui capo è il Cristo (1 Cor 12). Non ci si può staccare da questo corpo fondato sulla parola del vangelo, altrimenti si perde la vita stessa e la funzione per cui si è stati costituiti. Quindi il vangelo permette alla comunità di nascere e crescere come il corpo di Cristo, in cui ciascun membro ha la sua funzione, ma ognuno vive perché è legato al corpo e perché ha accolto il vangelo. È l’universalismo cristiano, che va oltre ogni etnicismo culturale, sociale, religioso, politico, ma anche ogni etnicismo che passa attraverso il cuore di ognuno.

La missione ha bisogno di visioni

Il localismo elimina la passione missionaria, perché soffre per mancanza di pensiero e di visione. Mi hanno sempre colpito quei pochi versetti di Isaia che dicono: “Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato; si dà a uno che sappia leggere dicendogli:  «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non posso, perché è sigillato». Oppure si dà il libro a chi non sa leggere dicendogli: «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non so leggere» (Is 2911-12). E l’inizio del Primo Libro di Samuele afferma: “La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti” (1 Sm 3,1). Due momenti diversi della storia di Israele, ma ambedue mostrano che non si può vivere senza pensiero e visione. Siamo in un mondo conformista e particolarista, dove la crisi materiale e spirituale induce a chiudersi sempre più nel proprio piccolo mondo, e quindi porta all’incomprensione della storia ed anche di noi stessi. Il mondo è complesso, ma si preferiscono le semplificazioni che fanno crescere i pregiudizi e le paure.

Isaia parla di un libro che non si riesce a capire, perché è sigillato. Sì, talvolta leggendo le cronache dei nostri giornali, e ancor peggio della televisione, si ha l’impressione di essere di fronte a libri sigillati, che non si capiscono e fanno nascere in alcuni curiosità, in altri paura e ostilità. Abbiamo bisogno di tornare ad aprire il libro della Bibbia, a farci guidare dalla parola di Dio, per divenire donne e uomini di preghiera, donne e uomini di Dio. Scrive Davide Maria Turoldo: “Ciò che più manca a questo tempo, a questa civiltà, è lo spirito di preghiera” (Pregare. « forse il discorso più urgente», p. 15). La preghiera libera il cuore dal dominio dell’io e dalla dittatura del materialismo e allarga l’orizzonte, perché fa leggere la storia come la leggerebbe Dio. La passione per la missione è possibile solo in uomini che la smettono di pensare che il primo problema è il piano pastorale, e che quindi si tratta di organizzarci meglio. Il primo problema del cristianesimo nel mondo globalizzato è diventare uomini di Dio raccogliendo la sfida del secolarismo e del relativismo. Non so se in un regime di civiltà cristiana si era più cristiani di oggi. Ho i miei dubbi. Certo c’era più senso di Dio di oggi. Recuperiamo questo senso, come spesso ci esorta a fare Benedetto XVI, e saremo uomini della missione della Chiesa, perché per primi vivremo la forza e il valore del nostro essere discepoli di Cristo e quindi uomini e donne autentici. Da qui nascono parole e visioni per noi e per il mondo e rinasce quell’entusiasmo per la missione che ha caratterizzato le prime generazioni cristiane.


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