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La recente canonizzazione di San Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, è stata motivo di gioia per il mondo missionario. La cerimonia si è svolta il 20 ottobre in Piazza San Pietro in Vaticano, mentre la celebrazione di ringraziamento in Venezuela si è tenuta domenica 27 ottobre nell'archidiocesi di Caracas.

La giornata è stata organizzata congiuntamente dalle Pontificie Opere Missionarie del Venezuela, dal Segretariato di Pastorale Giovanile di Caracas e dai Missionari della Consolata.

Di buon mattino, circa 400 giovani provenienti da varie parrocchie e scuole della capitale si sono riuniti per la 23 Camminata della Gioventù Missionaria, che quest'anno ha cambiato il suo tradizionale percorso –lungo la strada della Montagna di Avila che circonda Caracas– per spostarsi in Plaza Washington del Paraíso e da lì unirsi alla celebrazione della Santa Messa nella parrocchia di Sant’Alfonso Maria de Liguori, El Paraíso, presieduta da Mons. Lisandro Rivas IMC, vescovo ausiliare di Caracas, alla presenza di numerosi parrocchiani. La quantità di persone che hanno seguito la celebrazione era davvero impressionante: pieno fino alla massima capienza perfino il secondo piano della chiesa.

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Intorno alla tavola

La celebrazione ha incluso tradizioni ed elementi che hanno permesso di mostrare il modo di celebrare e vivere la liturgia in altri continenti dove i membri della famiglia fondata dall'Allamano portano il Vangelo.

Alcuni momenti sono stati accompagnati da danze liturgiche, il Padre Nostro è stato recitato in diverse lingue: warao, portoghese, inglese, lingala, swahili e spagnolo, mentre anche i canti erano rappresentativi dei cinque continenti.

Un modello di santità

20241030Venezuela5Il vescovo ha esordito condividendo con i presenti la gioia, la gratitudine e l'entusiasmo “per questo modello di santità. Questo è un giorno di festa perché la consolazione di Dio ha toccato e continua a toccare l'umanità attraverso il sogno dell'Allamano di inviare missionari per evangelizzare fino ai confini della terra”.

Il presule ha ricordato l'importanza di chiedersi cosa chiede oggi la Chiesa a noi battezzati: discernere per aprire il nostro cuore all'universalità seguendo l'esempio e il pensiero dell'Allamano, che ci ricorda di essere prima santi e poi missionari. Dobbiamo “trasformare l'ordinario in straordinario e risplendere come discepoli missionari del Signore”, ha detto.

Il vescovo ha anche parlato del carattere simbolico del miracolo che ha portato Giuseppe Allamano alla santità a favore dell'indio Sorino Yanomami dell'Amazzonia brasiliana. Lui ci ricorda “la predilezione di Dio per i poveri e per coloro che il mondo considera scartati. Loro sono e devono essere l'opzione dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. Anche nel Venezuela di oggi i Missionari devono essere testimoni di speranza”.

Per concludere ha fatto riferimento al mese delle missioni; al lavoro di animazione delle Pontificie Opere Missionarie e all'importanza della cooperazione missionaria. Ha sottolineato che la priorità è l'annuncio dove nessuno vuole andare, cioè alle periferie esistenziali.

Con un cuore missionario

Il piemontese Giuseppe Allamano visse dal 1851 al 1926. Da giovane crebbe nell’oratorio di Don Bosco ma a solo ventidue anni era già un giovane sacerdote diocesano con il sogno di andare in missione. Purtroppo la sua salute non era perfetta e, senza mai dimenticare il sogno, dovette impegnarsi in altre cose.

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A 29 anni fu mandato a dirigere il più grande santuario mariano di Torino dedicato alla Madonna Consolata. Lo riportò all'antico splendore e precisamente a partire da lì l’antico sogno delle missioni si trasformò in una grande opera: i Missionari della Consolata, che fondò nel 1901 e, su richiesta di Pio X, nel 1910, anche le Missionarie della Consolata. Giovanni Paolo II lo ha beatificato il 7 ottobre 1990.

“La sua testimonianza ci ricorda l'attenzione che dobbiamo prestare alle popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami della foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto il miracolo legato all'odierna canonizzazione”, ha detto Papa Francesco parlando dell'Allamano.

La Messa è stata seguita da una condivisione fraterna.

Fonte: PPOOMM Venezuela con informazioni di José Luis Andrade

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Messaggio di mons. José Luis Ponce de León, missionario della Consolata argentino, vescovo di Manzini, unica diocesi di eSwatini, in occasione della canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano.

 

* Video realizzato dall'equipe di comunicazione per la Canonizzazione

La missione come un sospiro

Siamo lieti di pubblicare la Prolusione tenuta oggi dal Cardinale Giorgio Marengo, missionario dell'Istituto della Consolata e Prefetto apostolico di Ulaanbaatar, in occasione della giornata di inaugurazione della Pontificia Università Urbaniana. L'intervento, intitolato "Chiesa missionaria e missionarietà della Chiesa: uno sguardo dall'Asia", suggerisce in maniera confortante il mistero di grazia e gratitudine a cui attinge ogni autentico dinamismo missionario.

La prolusione del Cardinale Marengo è stata preceduta dell'intervento introduttivo del Cardinale Luis Antonio Gokim Tagle, Pro-Prefetto del Dicastero per l'Evangelizzazione (Sezione per la prima evangelizzazione e le nuove Chiese particolari) e Gran Cancelliere dell'Urbaniana.
Dopo l'intervento di Suor Lourdes Fabiola Martinez Sandate, svolto a nome degli studenti dell'Ateneo, le considerazioni conclusive sulle prospettive di studio e ricerca del nuovo Anno Accademico cono state delineate dal Professor Vincenzo Buonomo, Delegato Pontificio e Rettore Magnifico della Pontificia Università Urbaniana

Egregio Gran Cancelliere,
Eminenze e Eccellenze Reverendissime,
Stimato Delegato Pontificio e Rettore Magnifico,
Autorità Accademiche,
Esimi Professori e cari Studenti,

- È con gioia e trepidazione che prendo la parola in mezzo a voi, per la prima volta dopo aver frequentato a lungo questi ambienti universitari dalla parte vostra, degli studenti. Sono molto onorato di trovarmi qui all’apertura di questo nuovo anno accademico, che vedrà ancora una volta insegnanti, ricercatori, studenti e personale amministrativo recarsi quotidianamente su questo colle per dare il meglio di sé, a servizio della Chiesa.

La missione come un sospiro

Il 26 maggio dell’anno scorso è venuto a mancare improvvisamente Padre Stephano Kim Seong-hyeon, sacerdote coreano di Daejeon, con il quale condividevo il servizio missionario in Mongolia. È stata una grave perdita per tutti. Anche lui, come il sottoscritto, aveva studiato in questa Università e ricordo quando parlava dei suoi studi all’Urbaniana. Da sacerdote che si preparava a rientrare nel proprio Paese per iniziare il ministero in diocesi, si chiedeva quale vantaggio avrebbe avuto dallo studiare in questa università. La risposta gli venne da un missionario che aveva speso anni in Paesi a maggioranza mussulmana, in zone di cultura araba. Avendogli chiesto di pronunciarsi sulle teorie del momento, quel missionario non aveva dato una risposta teorica, ma aveva fatto un lungo sospiro: “Ah, la missione!”

Un misto di esultanza e di malinconia, forse anche di frustrazione; gli occhi di quel missionario brillavano e rimandavano a un qualcosa di struggente e di sacro, che aveva plasmato ormai completamente la sua vita. Quel sospiro aveva profondamente interrogato Don Stephano Kim e gli aveva aperto uno squarcio sul mistero della missione come orizzonte che abbraccia la vita, anche quella del sacerdote diocesano. Da quel sospiro aveva deciso di leggere tutto il suo ministero in chiave missionaria. E aveva poi avuto il dono di poter anche partire per la Mongolia.

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Un’icona biblica: l’incontro di Emmaus

“Ah, la missione!”. Questo sospiro fa riflettere anche noi, oggi. Guardiamo per esempio all’episodio dei discepoli amareggiati che escono da Gerusalemme, “il primo giorno della settimana”. Siamo al capitolo 24 del Vangelo di Luca. “Solo tu sei forestiero!” (cfr. Lc 24, 18), come a dire: “Solo tu non sai!”. È uno sbotto di delusione e stizza. “Noi speravamo…” (cfr. Lc 24, 21).
A volte anche noi siamo presi da sospiri disillusi; le cose non stanno come avremmo voluto e ce ne andiamo con gli occhi bassi, incapaci di riconoscere il misterioso Viandante che pure è lì con noi. C’è bisogno che Lui ci scuota con la sua parola forte: “Stolti e lenti di cuore!” (Lc 24, 25). Presto si capisce che non è uno sterile rimprovero, ma il richiamo a fare un salto di qualità, di profondità. “E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24, 27).

Ebbene sì, l’oggetto della ricerca, dell’insegnamento e dello studio non è l’opinione di questo o quel pensatore, è invece “tutto ciò che si riferisce a Lui”, al Signore e Salvatore, che rivelando il volto del Padre ha cambiato le sorti dell’umanità, innescando il dinamismo della missione. A poco a poco il cuore dei discepoli si apre, fino a trasalire in un sospiro inedito: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24, 32).

Sono l’eucaristia e la Parola a convertire il nostro cuore. Il lavoro accademico che si compie in questa rinomata Università dovrebbe nutrirsi sempre di adorazione e studio meditato in spirito di preghiera e non procedere parallelamente alla vita spirituale, quasi come se fossero binari tenuti insieme a stento. Da qui nasce l’annuncio, non da altro: “Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24, 35). Finché, proprio “mentre essi parlavano di queste cose” (Lc 24, 36), Gesù in persona si fa presente in mezzo a loro e comunica la pienezza che tutta la storia attende: “Shalom a voi!” (Lc 24, 36).

La missione tende proprio a rendere concretamente possibile questo incontro; sì, perché laddove i discepoli si riuniscono a testimoniare Cristo, Lui si offre in modo nuovo, inedito, attirando tutti nel Suo amore. È Lui, il Risorto, ad aprire le nostre menti a comprendere il senso profondo delle Scritture e a mandarci esplicitamente nel mondo: “Di questo voi siete testimoni” (Lc 24, 48). E lo possiamo essere solo nella potenza del Suo Spirito: “ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24, 49).

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Una vocazione ancora valida: la missione ad gentes

Se questo dinamismo che tende all’annuncio della sconvolgente novità del Vangelo vale per ogni battezzato in quanto discepolo-missionario - come ci ricorda spesso il Santo Padre, va ricordato che esiste anche una dimensione specifica della missionarietà, quella che chiamiamo prima evangelizzazione o missione ad gentes. Ci si riferisce qui a quel dono di grazia di annunciare il Vangelo in contesti dove esso non è ancora conosciuto e dove semplicemente non ci sono altri a testimoniarlo. È vero che ogni azione della Chiesa è impregnata di missione, perché essa ne costituisce l’obiettivo e ne rappresenta l’orizzonte; ma un conto è porla in atto in situazioni dove la possibilità dell’incontro esplicito con Cristo è offerta in una varietà di declinazioni, rese possibili da comunità credenti già formate e dotate di una moltitudine di carismi e ministeri; diverso – o quanto meno peculiare - è dedicarsi alla testimonianza evangelica laddove non ci sono altri soggetti ecclesiali, perché la comunità non è ancora costituita e strutturata.

È indubbiamente vero che oggi la mobilità umana sta creando situazioni nelle quali l’altro si è avvicinato notevolmente, non è più necessario solcare i mari per incontrarlo. In molte parti del mondo esiste già una porzione locale di Chiesa ed è compito proprio della Chiesa particolare che si trova in quel territorio assumere le sfide derivanti da società sempre più multiculturali e interreligiose. Per quelle regioni più segnate da fenomeni come la secolarizzazione e il calo delle vocazioni sacerdotali, probabilmente si dovrà agire in modo diverso rispetto a tempi passati, ma resta il fatto che la Chiesa è già presente in quei territori. Spesso non pensiamo al dato che invece esistono intere regioni del pianeta in cui la Chiesa non si è ancora pienamente costituita o è ai primi passi del suo radicamento locale.

In Mongolia, per esempio, la Chiesa visibile è presente solo da 32 anni ed è costituita da un piccolo gregge di circa 1500 fedeli locali, accompagnati da un bel gruppo di missionari e missionarie, tra i quali uno solo è un sacerdote locale. Si sta tuttora lavorando a completare la traduzione completa della Bibbia in lingua locale; alcuni testi liturgici devono ancora essere approvati dalla Sede Apostolica. Nelle comunità cattoliche si propone un cammino di introduzione alla fede che dura circa due anni e richiede molto impegno da parte di catechisti e catecumeni, che compiono una scelta di fede piuttosto in controtendenza rispetto alla società in cui vivono, che ha tradizionalmente altri punti di riferimento. Tutto è nuovo e ha un impatto dirompente, che necessita profondità, solidità di dottrina, qualità di testimonianza.

Vivere e operare in tali situazioni è quanto convenzionalmente si chiama missione ad gentes, che continua ad avere un suo valore specifico, perché specifica ne è la vocazione. La maggioranza di tali situazioni in cui l’annuncio evangelico e la vita che ne consegue sono ancora agli inizi si trova in Asia, Continente dove vive circa il 61% della popolazione mondiale, di cui però meno del 13,1% si identifica con il Cristianesimo. Serie di fallimenti storici? Errori procedurali? È difficile dirlo. Soprattutto perché i criteri non possono essere quelli del successo o del fallimento come lo intende il mondo. Il riferimento restano le parole di Gesù sul Regno e la sua incidenza nel mondo, segnata da una sproporzione evidente: poco nel tanto, lievito nella massa, marginalità feconda. In ogni caso, è importante ricordare che esiste questo tipo di servizio missionario specifico, anche all’interno di una Chiesa tutta missionaria.

Una formazione specifica

La missione ad gentes richiede dunque una formazione specifica. 397 anni fa, poco dopo l’istituzione della Sacra Congregazione De Propaganda Fide, nasceva il Collegio Urbano, primo nucleo di questa prestigiosa Istituzione Accademica. Si può “imparare” la missione? Sì, come i discepoli di Emmaus hanno dovuto mettersi in ascolto del Risorto che “spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. È soprattutto questione di sondare sempre e di nuovo, sotto tutti gli angoli possibili, il mistero di Cristo e della Chiesa sua Sposa.
La missione ha bisogno della filosofia, ma anche delle scienze sociali, della linguistica, del diritto canonico; soprattutto della teologia. Lo zelo da solo potrebbe non bastare. Il Beato Giuseppe Allamano, Fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata e che proprio fra pochi giorni sarà canonizzato in Piazza San Pietro, usava dire: “Non basta infatti per un missionario la santità, ma è pur necessaria la scienza, e questa secondo il nostro fine. La pietà può formare un buon eremita, ma solo la scienza unita alla pietà, può formare un buon missionario”.

E ancora: “Anche dalla tradizione appare manifesta la necessità della scienza. Papi, Concili, Santi Padri, tutti e sempre dichiararono la necessità della scienza per i sacerdoti. Su questo punto la Chiesa ha sempre insistito con esplicite direttive ai Superiori dei seminari, perché non ammettano agli Ordini coloro che non posseggono la necessaria scienza. Questo spiega perché, in alcune comunità Religiose, non si mandino in Missione che i più dotti”. E concludeva: “Credetemi: farete molto o poco bene, o anche del male, secondo lo studio che avrete o non avrete fatto. Un missionario senza scienza è una lampada spenta”.

Si studia dunque non soltanto perché “ci tocca”, in quanto si è stati inviati dai propri superiori e neanche per nutrire vane ambizioni di carriera: non esiste la carriera nella Chiesa. E sarebbe davvero meschino che un’istituzione accademica così unica nel suo genere venisse considerata come fucina di semplici “impiegati” di strutture diocesane, che non si distinguano per zelo e scienza specificamente orientati alla missione. Si studia per amore di Cristo, della Chiesa e delle persone a cui siamo inviati come missionari. È proprio questo specifico tipo di missione a esigere una preparazione adeguata. È questione di rispetto del mistero dell’incarnazione del Verbo, che si riverbera in quello della Chiesa da Lui inviata non come megafono di un messaggio ideologico, ma come corpo mistico e popolo di Dio, che si trova a proprio agio in tutte le culture, fecondandole con il Vangelo.

Si tratta di prendere sul serio l’incontro tra Vangelo e Culture

Rufina Chamyngerel, anche lei ex-studentessa di questa Università, oggi direttrice dell’Ufficio Pastorale della Prefettura Apostolica di Ulaanbaatar, lo ha detto in maniera disarmante. Nel 2019, in occasione della veglia di preghiera in San Pietro per il mese missionario straordinario indetto da Papa Francesco, ricordò che quando la Chiesa decise nel 1992 di riprendere la missione in Mongolia – interrotta dal settantennio di rigido regime filo-sovietico – non mandò pacchi di libri, ma persone in carne ed ossa, che si sarebbero inserite e avrebbero offerto una testimonianza viva e incarnata del Vangelo.

Sì, l’incontro con Cristo può avvenire nei modi più diversi, per lo più a noi sconosciuti; ma solitamente ha bisogno di mediazioni umane, persone concrete che diano carne alle parole di Gesù e invitino al banchetto del Regno. Lo aveva ricordato con forza San Paolo VI, nell’Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi e vale la pena riprendere le sue parole oggi: “Gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna - ciò che S. Paolo chiamava ‘arrossire del Vangelo’ - o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?”. Questa scuola di discepolato e di missione apre sempre nuovi percorsi di apprendimento, perché entrando in punta di piedi nelle case ad ogni latitudine scopriamo mondi affascinanti da amare e conoscere a fondo.

Grazie allo studio appassionato, all’approfondimento serio, alla ricerca scientifica, quattro secoli dopo la fondazione del nostro Ateneo continuiamo a sondare le infinite profondità del messaggio di Cristo e a decifrare linguaggi culturali che ci permettono di raggiungere il cuore di popoli e persone. Quanti sospiri custodiscono queste mura! La lontananza da casa e una lingua che ancora non si riesce a dominare fanno sospirare; ma anche una traccia di ricerca che sembra perdersi tra le pagine lette in biblioteca o verità storiche difficili da accettare possono trasformarsi in sospiri. Tutto però diventa anelito, perché nella consapevolezza della mancanza ci si apre di più a Dio e al prossimo.

Dal sospiro al sussurro

Il sospiro allora diventa sussurro. Permettetemi di concludere facendo risuonare qui, dove è stata approfondita come categoria missiologica, l’espressione di Mons. Thomas Menamparampil che mi piace proporre per descrivere sinteticamente la missione: sussurrare il Vangelo al cuore delle culture. La missione è un mistero che ci fa sospirare di amore vero innanzitutto per Lui, il Risorto che ci associa a Sé per rendersi presente agli altri. Cristo e il suo Vangelo sono il cuore e l’unico contenuto dello slancio missionario che anima la Chiesa, oggi come sempre. “Guai a me se non predicassi il Vangelo”, ci ricorda San Paolo (1Cor 9, 9). Il mondo ha bisogno di ricevere questa buona notizia e ne ha il diritto. In un’epoca di sfiducia generale nelle grandi narrazioni, di revisionismo storico post-coloniale, di paura di qualsiasi pensiero che non sia debole (perché ritenuto potenzialmente offensivo e minaccioso) la Chiesa continua ad annunciare il Vangelo, in fedeltà al mandato che ha ricevuto dal suo Signore e che campeggia a caratteri cubitali all’esterno dell’edificio principale, Euntes docete. Questo è più che un semplice messaggio, è una parola di salvezza e di pienezza, incarnata nella vita e destinata al cuore, cioè alle fibre più profonde della persona e della cultura in cui essa vive e si comprende. È l’evangelizzazione del cuore a chiedere impegno di decifrazione, studio, approfondimento del meraviglioso intreccio di cultura, tradizione religiosa, lingua, letteratura, arte, musica, ma anche territorio, simboli, tendenze. Quando si è dentro a questa relazione di profonda conoscenza, stima e amicizia viene spontaneo condividere, sussurrare con delicatezza e discrezione ciò che ci sta più a cuore.

Il sussurro dice anche atteggiamento orante, dimensione contemplativa, proprio come nelle antichissime tradizioni religiose nate in Asia, nelle quali prevale il registro della parola meditata, ripetuta, salmodiata. E del silenzio. Ce lo ha ricordato Papa Francesco l’anno scorso proprio in Mongolia, quando si è rivolto così alla piccola Chiesa locale: “Sì, è Lui la buona notizia destinata a tutti i popoli, l’annuncio che la Chiesa non può smettere di portare, incarnandolo nella vita e ‘sussurrandolo’ al cuore dei singoli e delle culture. Questa esperienza dell’amore di Dio in Cristo è pura luce che trasfigura il volto e lo rende a sua volta luminoso. Fratelli e sorelle, la vita cristiana nasce dalla contemplazione di questo volto, è questione di amore, di incontro quotidiano con il Signore nella Parola e nel Pane di vita, e nel volto dell’altro, nei bisognosi in cui Gesù è presente”. Possa questo nuovo anno accademico all’Urbaniana avvicinare tutti a questo Volto e renderci sempre più raggianti e radiosi nel farlo riflettere intorno a noi.

* Originalmente Pubblicato in: www.fides.org (Agenzia Fides 15/10/2024)

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“Speriamo che le elezioni siano libere ed eque e soprattutto pacifiche” dice all’Agenzia Fides, mons. Inacio Saure, arcivescovo di Nampula, Presidente della Conferenza Episcopale del Mozambico.

Oggi, 9 ottobre, nel Paese dell’Africa australe si tengono le elezioni generali per eleggere il Presidente e il Parlamento. Non si attendono forti sorprese; il Frelimo (Fronte di Liberazione Nazionale) al potere dall’indipendenza nel 1975 dovrebbe conservarlo anche questa volta.

Il Mozambico uscito nel 1992 dalla guerra civile scoppiata nel 1975 si trova da alcuni anni confrontato dalla guerriglia jihadista nella provincia di Cabo Delgago, la più settentrionale del Paese.

Abbiamo chiesto a mons. Saure di analizzare la situazione del Paese alla luce del voto odierno. Cosa si aspetta dal voto di oggi?

Spero innanzitutto che le elezioni siano libere ed eque e soprattutto pacifiche. La preparazione del voto è stata segnata da alcune difficoltà. Sappiamo che vi sono stati dei ritardi e delle problematicità nelle iscrizioni alle liste elettorali, dovuti a questione burocratiche ma forse anche ad altri problemi di carattere politico. Diciamo che non vi era interesse che certe persone si iscrivessero alle liste elettorali. C’è pure una certa stanchezza e delusione da parte degli elettori perché le prime elezioni libere si sono tenute nel 1994, 30 anni fa, e da allora il voto è stato seguito da polemiche e contestazioni.

La guerra nel nord è attribuita alla presenza di almeno una formazione di carattere jihadista. Ma questa lettura non è un po’ semplicistica?

Noi diciamo sono i jihadisti, ma non credo che siano loro l’unica motivazione di questa guerra. Ci sono le risorse dell’area; il gas in primo luogo, ma non solo: vi sono miniere di minerali strategici come ad esempio la grafite, a Balama, che sono fondamentali per le nuove tecnologie e la transizione energetica. Per questo non sappiamo davvero quale sia la vera causa principale di questa guerra. È soltanto religiosa? Non mi sembra. Dall’altronde il conflitto è esploso più o meno in coincidenza dell’avvio dello sfruttamento del gas naturale.

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Conferenza stampa nella Sala Stampa della Santa Sede a Roma, martedì 9 ottobre

Lei è arcivescovo di Nampula che ha accolto diversi sfollati interni della guerra. Ci può descrivere la loro situazione?

Dopo Cabo Delgado, il capoluogo della provincia dove è in atto la guerra, Nampula è la provincia che ha accolto la maggior parte dei rifugiati in fuga dalle violenze. È una sfida perché quella di Nampula è la provincia più popolata del Paese e l’aggiungersi all’improvviso di altre migliaia di persone ha posto dei problemi alle strutture dell’area. Al principio, quando sono iniziati ad arrivare i primi profughi, sono intervenute diverse organizzazioni internazionali per aiutarci. Ma poi gli aiuti si sono fortemente ridotti. Si sono dimenticati di noi e dei più di 6.000 rifugiati ancora accolti a Nampula. All’inizio era fino a 8.000 ma alcuni sono tornati a Cabo Delgado, dove gli sfollati dai villaggi colpiti dall’insicurezza sono ancora tantissimi.

Come Chiesa siamo impegnati al massimo attraverso le nostre Caritas diocesane e nazionale, ad aiutare queste persone. Il problema è che non abbiamo risorse sufficienti tanto più che gli aiuti internazionali sono quasi scomparsi.

Vi sono timori che il conflitto nel nord possa estendersi ad altre aree del Mozambico?

Gran parte del Mozambico vive in pace ma c’è il timore che l’instabilità nel nord possa estendersi al resto del Paese alimentata dalla forte povertà, specie dei giovani disoccupati, in particolare nelle città.

L’altra grande questione è la povertà diffusa. infatti…

Sì soprattutto tra i giovani. Tanti giovani dalla campagne si sono trasferiti nelle città ma non hanno trovato un lavoro. Si tratta tra l’altro di una grande sfida sul piano pastorale. L’ideale sarebbe creare possibilità di formazione professionale per queste persone. La Chiesa da sola non ha mezzi per fare questo. Nella nostra precedente Visita ad Limina, Papa Francesco ci aveva raccomandato di non dimenticare mai i nostri giovani, fornendo loro luoghi di formazione. Nella visita di quest’anno ho fatto presente al Santo Padre le difficoltà che incontriamo nell’aiutare i giovani alla formazione professionale perché come Chiesa mozambicana non abbiamo i mezzi per farlo. Cerchiamo di fare il possibile ma veramente i mezzi sono molto limitati.

Dall’altro canto le scuole cattoliche sono molto apprezzate per la qualità del loro insegnamento. Lo Stato però ha alzato le imposte sulle nostre scuole equiparandole a delle imprese private e che questo ci ha messo in difficoltà.

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In mezzo a queste problematicità come descrive le condizioni della Chiesa in Mozambico?

È una Chiesa vivace. Abbiamo tante vocazioni, i seminari sono pieni. È veramente una grazia. I giovani frequentano la Chiesa in massa. La maggior parte del clero è mozambicana. Abbiamo anche alcuni sacerdoti che vanno a fare il missionario in altri Paesi africani.

Inoltre, il ruolo dei laici è molto importante perché nel 1977 l’assemblea pastorale nazionale aveva deciso di impostare una Chiesa ministeriale ovvero di ministri laici. I catechisti rivestono un ruolo fondamentale soprattutto nei villaggi dove non c’è una presenza fissa di un sacerdote.

Originalmente pubblicato in: Agenzia Fides

Suor Felicita Muthoni, missionaria della Consolata del Kenya, racconta la storia del miracolo della guarigione di Sorino Yanomami, assalito e gravemente ferito da un giaguaro, nella foresta amazzonica brasiliana, il 7 febbraio 1996. Sorino è guarito e ha recuperato completamente la salute grazie all'intercessione del Beato Giuseppe Allamano.

La guarigione di Sorino è stata riconosciuta miracolosa dalla Chiesa cattolica e il sacerdote torinese, Fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, sarà canonizzato il 20 ottobre 2024 da Papa Francesco.

* Video realizzato dalla Fondazione Missio organismo pastorale della CEI

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