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San Giuseppe, custode del mistero

  • Gen 27, 2016
  • Pubblicato in Notizie

Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto

L’otto dicembre 1870, nel giorno «sacro all'Immacolata Vergine Madre di Dio e Sposa del castissimo Giuseppe» e in un anno «di tempi tristissimi la stessa Chiesa, da ogni parte attaccata da nemici» Pio IX proclamò San Giuseppe patrono della Chiesa Universale: «Nella stessa maniera che Dio aveva costituito quel Giuseppe, procreato dal patriarca Giacobbe, soprintendente a tutta la terra d'Egitto, per serbare i frumenti al popolo, così, imminendo la pienezza dei tempi, essendo per mandare sulla terra il suo Figlio Unigenito Salvatore del mondo, scelse un altro Giuseppe, di cui quello era figura, e lo fece Signore e Principe della casa e possessione sua e lo elesse Custode dei precipui suoi tesori»[1].

San Giuseppe è sempre stato nel cuore della Chiesa. Ricordiamo alcuni passaggi esemplari del Magistero recente. Pio XII lo ha proclamato Patrono degli operai e degli artigiani: «l'umile artigiano di Nazareth non solo impersona presso Dio e la S. Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie»[2].

Giovanni XXIII lo ha inserito nel Canone Romano e gli ha affidato il Concilio Vaticano II. Giovanni Paolo II ha dedicato a San Giuseppe l’Esortazione apostolica Redemptoris Custos (15 agosto 1989), emanata proprio un secolo dopo l’enciclica di Papa Leone XIII Quamquam Pluries (15 agosto 1889). Benedetto XVI, battezzato nel nome di Giuseppe, ha dedicato a San Giuseppe riflessioni profondissime. Ricordiamo, per esempio, le parole pronunciate durante l’Avvento del 2005:

«Lasciamoci "contagiare" dal silenzio di san Giuseppe» quel silenzio in cui risuona « la pienezza di fede che egli porta nel cuore, e che guida ogni suo pensiero ed ogni sua azione. Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all’unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù; un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza[3]».

Ed anche la bellissima catechesi del 18 marzo 2009, in cui Benedetto XVI ricorda come «La vita di san Giuseppe, trascorsa nell’obbedienza alla Parola, è un segno eloquente per tutti i discepoli di Gesù che aspirano all’unità della Chiesa.   Egli ha quindi accolto in casa sua Maria. Ha accolto il mistero che era in lei ed il mistero che era lei stessa»[4].

Gli artisti cristiani hanno spesso tentato di rappresentare la vita di San Giuseppe, trascorsa nell’accoglimento del mistero. Caravaggio dedica una bellissima riflessione su San Giuseppe, nella tela Riposo durante la fuga in Egitto, conservata nella Galleria Doria Pamphilij di Roma. Caravaggio mette a tema il lungo viaggio verso l’Egitto intrapreso dalla Santa Famiglia per sfuggire al complotto di Erode il Grande, drammaticamente concluso con la strage degli innocenti di Betlemme.

La tela appartiene al primo periodo romano di Caravaggio[5], in quanto fu commissionata con molta probabilità da Donna Olimpia Aldobrandini tra il 1595 e il 1596; passò poi al cardinale Pietro Aldobrandini, fratello di donna Olimpia, e poi a sua nipote Olimpia che nel 1647 la portò in dote nel matrimonio con il principe Camillo Pamphilij, il quale la inserì, insieme ad altre opere di Caravaggio, nella grande quadreria di famiglia, dove possiamo tuttora ammirarla.

La fonte che ha ispirato Caravaggio è naturalmente il Vangelo: «I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13).

Caravaggio sceglie di dipingere Giuseppe, Maria e il Bambino non durante il loro cammino, ma in un momento di sosta. Il riposo della Santa Famiglia viene ambientato in un paesaggio molto significativo: lungo il corso di un fiume o forse nei pressi di un’oasi lungo il tratturo irregolare di una via di comunicazione, che porta le carovane dalla Palestina fin verso la terra del Nilo. Guardando verso destra, nel lato dove si scorge l’orizzonte, si avverte che ormai sta per sorgere il sole. Maria e il bambino riposano sul limitare della strada, attorniati da piante dotate tutte di significato simbolico.

Per esempio scorgiamo un ramo di alloro, che allude alla perenne verginità di Maria, mentre la canna e le spine dei rovi sono segno della passione di Gesù; l’intreccio del cardo, ovvero il sylibum marianum, con il tasso barbasso, ovvero il verbascum thapsus, appare particolarmente significativo, perché il tasso barbasso è simbolo di resurrezione mentre il cardo è proprio narrativo della fuga in Egitto, infatti, fin dai tempi più antichi del Cristianesimo, si sono interpretate le sue macchie bianche come gocce di latte perse da Maria nella fuga.

Caravaggio, come abbiamo visto nel precedente articolo, riesce a fare proprio il linguaggio iconografico che affonda le proprie radici allegoriche e simboliche nella botanica medievale, interpretandolo in modo nuovo e innovativo[6]. Tutto appare estremamente naturale e domestico. Caravaggio si ispira, infatti, alle Sacre Rappresentazioni, ma anche agli insegnamenti retorici propri dell’ambiente gesuitico romano. Il risultato è una scena efficace che riesce a commuovere e a fare meditare.

La profondità del dipinto risiede anche nella consapevolezza teologica che riesce a mostrare. Infatti, Caravaggio riesce a far intendere che quella famiglia, modello di ogni famiglia, è illuminata da una luce particolare. Il Bambino che riposa tra le braccia della mamma è infatti Dio, e proprio la fuga in Egitto richiama la profezia della venuta del Messia, come il Vangelo di Matteo chiaramente racconta: «Giuseppe destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio”» (Mt 2, 14). La fuga indica la continuità tra l’Antica e la Nuova Alleanza e il compimento delle antiche profezie.

L’ambientazione naturalistica che abbiamo già analizzato va letta proprio in questa prospettiva. Per comprendere meglio possiamo fare riferimento a un padre della Chiesa che spesso è una fonte capace di illuminare la produzione artistica di Caravaggio: sant’Agostino. Egli, in uno dei suoi discorsi, insegna: «Si eleverà come un virgulto e come una radice in terra assetata [...] non aveva bellezza. Si mostrava uomo, mentre era Dio; ma era come una radice, la quale non è bella anche se nel suo interno ha la forza della sua bellezza [...]

Quando guardi un albero, prospero, verdeggiante per le foglie, ferace di frutti, lo esalti. Ti piace staccare qualcuno dei suoi frutti, sederti alla sua ombra e ristorarti dal caldo: lodi questo complesso di bellezze. Se ti si mostrasse la radice, non vi troveresti alcuna bellezza. Non disprezzare ciò che è privo di appariscenza: da lì ha tratto origine tutto ciò che ammiri. Come radice in terra assetata. Guarda ora lo splendore dell’albero (...) È cresciuta la Chiesa [...] Ecco, qui non c’è bellezza, ma nella Chiesa rifulge la gloria della radice».

Il Bambino è “come radice in terra assetata”, da cui cresce l’albero della Chiesa, in cui rifulge la gloria di Gesù. Anche l’abbraccio di Maria al Bambino si rivela ancora più significativo se letto alla luce delle riflessioni dei Padri della Chiesa, come, per esempio, Cromazio di Aquileia che, commentando il vangelo di Matteo, in modo poetico e profondo, scrive: «Il profeta, molto tempo prima, aveva però da parte sua già anticipato l’annunzio che Gesù sarebbe sceso in Egitto, allorché profetizzò: Ecco il Signore cavalca una nube leggera ed entrerà in Egitto.

Con quest’espressione è stato da parte sua annunciato chiaramente il mistero dell’incarnazione del Signore». Si comprende allora che Maria che stringe il Bimbo, assopita e con la testa reclinata, è la nube leggera che avvolge il Signore, perché ella è il tabernacolo che lo contiene e che nel viaggio verso l’Egitto lo custodisce, avvolgendolo di materno amore e tenerezza infinita.

Particolarmente importante è la bella figura di Giuseppe. Infatti, mentre Maria e Gesù sono rappresentati addormentati, Giuseppe viene dipinto sveglio, nell’atto di sorreggere con le mani uno spartito musicale per un bellissimo angelo musicante. Egli è stanco, ma veglia il sonno della sposa e del Bambino Gesù, e con estrema delicatezza aiuta la musica che ne culli il sonno. Comprendiamo da questo atteggiamento la reale dimensione del ruolo di Giuseppe, che assolve la sua vocazione familiare con una particolare tenerezza e discrezione.

Giuseppe viene rappresentato come attento e tenero custode della Famiglia, servitore della angelica lode celeste. Giuseppe è l’uomo giusto, colui che amministra i misteri di Dio, come il custode del mirabile santuario che è Maria, la quale cinge in amorevole abbraccio il Verbo Incarnato. Giuseppe, secondo l’immagine che di lui hanno dato i Padri della Chiesa, meditando sui testi evangelici, è l’archetipo del vescovo cristiano: a lui è affidata la Chiesa-sposa, ma essa non è a sua disposizione e, infatti, nel quadro di Caravaggio, una figura angelica li separa, cantando la virginea maternità di Maria. Importante è lo spartito sorretto da Giuseppe.

Spesso Caravaggio inserisce il riferimento alla musica nella sua pittura. Basti pensare ai Musici dipinti per il cardinal Del Monte (oggi al Metropolitan Museum of Art di New York), oppure all’Amore Vincitore (conservato a Berlino). Nel Suonatore di liuto dipinto per il marchese Vincenzo Giustiniani (e conservato all’Ermitage di San Pietroburgo) è rappresentato uno spartito identificato come un madrigale dal titolo Voi sapete ch’io v’amo composto dal musicista franco-fiammingo Jacob Arcadelt.

Anche lo spartito dipinto nel Riposo durante la fuga in Egitto tra le mani di san Giuseppe si riferisce a un brano musicale ben preciso, composto da un altro musicista franco-fiammingo, operante a Roma, Noël Baulduin, e pubblicato nel 1519 sul tema del Cantico dei cantici. Si tratta precisamente del mottetto che esalta la bellezza e la purezza di Maria: Quam pulchra es et quam decora. Nell’accoglimento e nella custodia della bellezza e della purezza di Maria e del Figlio Gesù, Nostro Signore, vero uomo e vero Dio, sta tutto il mistero della santità di Giuseppe.?

Rodolfo Papa

docente di Storia delle teorie estetiche presso la Pontificia Università Urbaniana, artista, accademico ordinario pontificio

(articolo tratto da rodolfopapa.blogspot.it)

[1] Sacra Congregazione dei Riti, Decreto proclamante San Giuseppe patrono della Chiesa Cattolica, 8 dicembre 1870.

[2] Pio XII, Discorso in occasione della Solennità di san Giuseppe artigiano, 1 maggio 1955.

[3] Benedetto XVI, Angelus, 19 dicembre 2005.

[4] Benedetto XVI, Discorso nei primi Vespri di San Giuseppe, 18 marzo 2009.

[5] Su Caravaggio, rimando alle mie monografie: R. Papa, Caravaggio. Lo stupore dell’arte, Arsenale, Verona 2009; R. Papa, Caravage, Imprimerie Nationale Éditions, Paris 2009; R. Papa, Caravaggio. L’arte e la natura, Giunti, Firenze 2008; R. Papa, Caravaggio. Gli anni giovanili, “DossierArt” 2005; R. Papa, Caravaggio pittore di Maria, Ancora, Milano 2005; R. Papa, Caravaggio. Gli ultimi anni, “DossierArt” 2004; R. Papa, Caravaggio. Vita d’artista, Giunti, Firenze 2002 (nuova edizione riveduta e corretta: 2007).

[6] Cfr. R. Papa,Caravaggio. Le origini e le radici, “DossierArt” 2010.

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Il Giubileo della Misericordia che da poco abbiamo iniziato è un tempo speciale per fare esperienza della misericordia del Signore e allo stesso tempo per rinnovare il nostro impegno per essere testimoni di misericordia con i fratelli.

Nella Bolla di indizione del Giubileo (“Misericordiae Vultus”) Papa Francesco ha scritto:

“Vogliamo vivere questo Anno Giubilare nella luce della parola del Signore: Misericordiosi come il Padre… L’evangelista riporta l’insegnamento di Gesù che dice: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (Lc.6,36). È un programma di vita tanto impegnativo quanto ricco di gioia e di pace (MV: 13).

Misericordiosi come il Padre, dunque, è il “motto” dell’anno Santo. Giorno dopo giorno, toccati dalla sua compassione, possiamo anche noi diventare compassionevoli verso tutti (MV:14).

In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce, perché il loro grido si è affievolito e spento a causa della indifferenza dei popoli ricchi.

In questo Giubileo la Chiesa ancora di più sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, a fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, e nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternita. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera dell’indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo.

È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare I dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti. Non possiamo sfuggire alle parole del Signore e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo pe stare con chi è malato e prigioniero (cfr. Mt. 25, 31-45).

Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura e che spesso è fonte di solitudine; se saremo stati capaci di vincere l’ignoranza in cui vivono milioni di persone, soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà; se saremo stati vicini a chi è solo e afflitto; se avremo perdonato chi ci offende e respinto ogni forma di rancore e di odio che porta alla violenza; se avremo avuto pazienza sull’esempio di Dio che è tanto paziente con noi; se, infine, avremo affidato al Signore nella preghiera i nostri fratelli e sorelle. In ognuno di questi “più piccoli” è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non dimentichiamo de parole di San Giovanni della Croce: ”Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” (Parole di luce e di amore, 57) (MV: 15).

Tre santi

Alla luce di queste parole del Papa durante questo anno giubilare, di mese in mese, guarderemo il volto di qualche testimone delle opere di misericordia per imparare anche noi ad essere misericordiosi.

In questo mese di gennaio contempliamo il volto di tre santi della Chiesa Torinese: s. Giuseppe Benedetto Cottolengo, s. Giuseppe Cafasso e san Giovanni Bosco, tre dei cosiddetti “Santi sociali” della Chiesa di Torino.

Questi tre anti sono vissuti nel secolo XIX: un secolo nel quale la Chiesa visse un forte conflitto con la società civile e con il pensiero moderno, specialmente nei Paesi europei. Da parte della Chiesa si condannavano molte espressioni del pensiero moderno e da parte della società civile si attaccava la Chiesa accusandola di oscurantismo. La Chiesa si sentiva assediata e messa al margine, e per questo reagiva con aggressività. Anche dentro la Chiesa si viveva una forte contraddizione fra i “tradizionalisti” che assumevano una attitudine di condanna verso tutte le proposte del pensiero moderno, e i “modernisti”, che ritenevano necessario aprirsi a un dialogo con la modernità.

In questo contesto nella Chiesa di Torino appare una lunga lista di persone che saranno chiamati i “santi sociali”: non entrano nella guerra ideologica con la società e il pensiero moderno, e neppure nella contraddizione interna della Chiesa, ma aprono gli occhi e il cuore ai problemi sociali della società e propongono con la loro vita e la loro opera un camino nuovo che si identifica con la “santità della vita” e il “servizio ai poveri”. Questi santi entrano nella società non per giudicare o condannare e neppure per difendere posizioni di potere e di privilegio, ma per assumere la causa degli ultimi, degli “scarti” della società. San Giuseppe Benedetto Cottolengo assume la causa degli ammalati fisici e mentali; san Giuseppe Cafasso la causa dei carcerati e dei condannati alla forca; san Giovanni Bosco la causa dei giovani senza studio e senza lavoro.

Con la loro vita e con la loro azione questi tre santi propongono una spiritualità samaritana:

  • Entrano nella realtà e la vedono con gli occhi e il cuore di Dio (contemplazione, discernimento)
  • Assumono la causa degli ultimi, degli “scarti” con compassione e misericordia
  • Fanno azioni che promuovono la vita per la maggior gloria di Dio

Si tratta di una spiritualità che anima ad “essere straordinari nell’ordinarietà”, a “fare bene il bene e senza rumore”, a “vivere una santità pratica-concreta”, ad “essere contemplativi nell’azione”, ad essere compagni di camino, servitori e consolatori”.

È in questo contesto storico-culturale e alla luce di questa spiritualità che appare il Beato Giuseppe Allamano e nascono i missionari e le missionarie della Consolata

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Presa visione di quanto apparso sulla stampa alla fine di dicembre 2015 e inizio gennaio 2016 circa la chiusura dell'agenzia MISNA di proprietà dei quattro Istituti Missionari Italiani (Comboniani, Consolata, PIME e Saveriani), desideriamo precisare i seguenti punti:

La criticità della MISNA non è storia recente. Per quasi dieci anni i quattro Istituti hanno cercato di trovare soluzioni viabili per garantire sia il personale missionario che i fondi necessari al funzionamento della stessa.

Il 9 novembre 2015 i quattro superiori generali si sono riuniti per una valutazione finale. Fatta una approfondita analisi dei vari aspetti dell'attuale situazione al riguardo, sono emersi chiaramente alcuni problemi non facilmente superabili. Alla luce di queste ed altre considerazioni, onestamente e concordemente siamo pervenuti alla decisione di porre fine all'attività dell'Agenzia MISNA con il 31 dicembre 2015. Tale sofferta decisione è stata comunicata ai membri del Cda della MISNA ed è stata scritta una lettera che è stata consegnata a mano al segretario della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e al direttore della Fondazione MISSIO, l’organismo pastorale costituito dalla CEI al fine di sostenere e promuovere la dimensione missionaria della chiesa italiana. Il contenuto della lettera è stato comunicato ai giornalisti dell’agenzia tramite il direttore della stessa.

Tre le ragioni fondamentali della chiusura:

1. Anzitutto si è rilevata la seria difficoltà da parte dei nostri Istituti di garantire personale adatto e specializzato per la gestione di una Agenzia come la MISNA. Il problema del personale è reale e concreto, anche legato all’impegno che i nostri Istituti hanno nei confronti di tutti gli altri mezzi di comunicazione: riviste, giornali on line e siti in diverse lingue e che, in tante parti del mondo, narrano la missione dando voce ai senza voce.

2. La questione economica. Pur riconoscendo il valido e cospicuo contributo della CEI e la volontà di aiutare, la situazione è pesantemente deficitaria e preoccupante per i nostri Istituti. Finora i nostri Istituti si sono sobbarcati spese che non ci sentiamo più di approvare davanti al cambiamento e alle esigenze della missione attuale.

3. Il profondo cambiamento della realtà della comunicazione in cui MISNA si collocava, che ha portato l'Agenzia a modificare con il tempo lo stile iniziale.

Dopo la lettera, su richiesta dei giornalisti, c’è stato un incontro tra gli stessi e due superiori generali; nell’incontro, cifre alla mano, i superiori hanno spiegato le loro ragioni.

A seguito di questo incontro sono poi seguiti i regolari procedimenti per terminare i contratti a norma di legge.

In contemporanea ci sono stati scambi di email e incontri personali con un rappresentante della CEI, in cui si sono esplorate delle possibilità per continuare il servizio della MISNA. Il dialogo è stato positivo e interessante. Da sempre la CEI ha sostenuto l’Agenzia con grande generosità. Tuttavia, a causa della complessità del problema, non si è potuto arrivare a delle conclusioni operative soddisfacenti.

Confessiamo che è stata una scelta molto difficile e penosa, presa nel contesto di “crisi” dei media missionari che dal 2010 hanno visto decimate le loro testate. Questa decisione, doverosa e improrogabile, non cancella la speranza e l'impegno di continuare ad animare ed informare il popolo di Dio sulla attività missionaria della Chiesa nel mondo.

Vogliamo ringraziare, dal profondo del cuore, tutti coloro che, in questi anni, si sono coinvolti e generosamente prodigati per la MISNA e salutare fraternamente tutte le persone solidali con la missione.

 

P.Luigi Menegazzo, Superiore Generale dei Missionari Saveriani

P Tesfaye Tadesse Gebresilasie, Superiore Generale dei Missionari Comboniani

Stefano Camerlengo, Superiore Generale dei Missionari della Consolata

Ferruccio Brambillasca, Superiore Generale dei Missionari del PIME

Roma, 13.01.2016

 

 

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“Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”

Cari fratelli e sorelle!

Nella bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia ho ricordato che “ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre” (Misericordiae Vultus, 3). L’amore di Dio, infatti, intende raggiungere tutti e ciascuno, trasformando coloro che accolgono l’abbraccio del Padre in altrettante braccia che si aprono e si stringono perché chiunque sappia di essere amato come figlio e si senta “a casa” nell’unica famiglia umana. In tal modo, la premura paterna di Dio è sollecita verso tutti, come fa il pastore con il gregge, ma è particolarmente sensibile alle necessità della pecora ferita, stanca o malata. Gesù Cristo ci ha parlato così del Padre, per dire che Egli si china sull’uomo piagato dalla miseria fisica o morale e, quanto più si aggravano le sue condizioni, tanto più si rivela l’efficacia della divina misericordia.

Nella nostra epoca, i flussi migratori sono in continuo aumento in ogni area del pianeta: profughi e persone in fuga dalle loro patrie interpellano i singoli e le collettività, sfidando il tradizionale modo di vivere e, talvolta, sconvolgendo l’orizzonte culturale e sociale con cui vengono a confronto. Sempre più spesso le vittime della violenza e della povertà, abbandonando le loro terre d’origine, subiscono l’oltraggio dei trafficanti di persone umane nel viaggio verso il sogno di un futuro migliore. Se, poi, sopravvivono agli abusi e alle avversità, devono fare i conti con realtà dove si annidano sospetti e paure. Non di rado, infine, incontrano la carenza di normative chiare e praticabili, che regolino l’accoglienza e prevedano itinerari di integrazione a breve e a lungo termine, con attenzione ai diritti e ai doveri di tutti. Più che in tempi passati, oggi il Vangelo della misericordia scuote le coscienze, impedisce che ci si abitui alla sofferenza dell’altro e indica vie di risposta che si radicano nelle virtù teologali della fede, della speranza e della carità, declinandosi nelle opere di misericordia spirituale e corporale.

Sulla base di questa constatazione ho voluto che la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2016 fosse dedicata al tema: “Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”. I flussi migratori sono ormai una realtà strutturale e la prima questione che si impone riguarda il superamento della fase di emergenza per dare spazio a programmi che tengano conto delle cause delle migrazioni, dei cambiamenti che si producono e delle conseguenze che imprimono volti nuovi alle società e ai popoli. Ogni giorno, però, le storie drammatiche di milioni di uomini e donne interpellano la Comunità internazionale, di fronte all’insorgere di inaccettabili crisi umanitarie in molte zone del mondo. L’indifferenza e il silenzio aprono la strada alla complicità quando assistiamo come spettatori alle morti per soffocamento, stenti, violenze e naufragi. Di grandi o piccole dimensioni, sono sempre tragedie quando si perde anche una sola vita umana.

I migranti sono nostri fratelli e sorelle che cercano una vita migliore lontano dalla povertà, dalla fame, dallo sfruttamento e dall’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, che equamente dovrebbero essere divise tra tutti. Non è forse desiderio di ciascuno quello di migliorare le proprie condizioni di vita e ottenere un onesto e legittimo benessere da condividere con i propri cari?

In questo momento della storia dell’umanità, fortemente segnato dalle migrazioni, quella dell’identità non è una questione di secondaria importanza. Chi emigra, infatti, è costretto a modificare taluni aspetti che definiscono la propria persona e, anche se non lo vuole, forza al cambiamento anche chi lo accoglie. Come vivere queste mutazioni, affinché non diventino ostacolo all’autentico sviluppo, ma siano opportunità per un’autentica crescita umana, sociale e spirituale, rispettando e promuovendo quei valori che rendono l’uomo sempre più uomo nel giusto rapporto con Dio, con gli altri e con il creato?

Di fatto, la presenza dei migranti e dei rifugiati interpella seriamente le diverse società che li accolgono. Esse devono far fronte a fatti nuovi che possono rivelarsi improvvidi se non sono adeguatamente motivati, gestiti e regolati. Come fare in modo che l’integrazione diventi vicendevole arricchimento, apra positivi percorsi alle comunità e prevenga il rischio della discriminazione, del razzismo, del nazionalismo estremo o della xenofobia?

La rivelazione biblica incoraggia l’accoglienza dello straniero, motivandola con la certezza che così facendo si aprono le porte a Dio e nel volto dell’altro si manifestano i tratti di Gesù Cristo. Molte istituzioni, associazioni, movimenti, gruppi impegnati, organismi diocesani, nazionali e internazionali sperimentano lo stupore e la gioia della festa dell’incontro, dello scambio e della solidarietà. Essi hanno riconosciuto la voce di Gesù Cristo: «Ecco, sto alla porta e busso» (Ap 3,20). Eppure non cessano di moltiplicarsi anche i dibattiti sulle condizioni e sui limiti da porre all’accoglienza, non solo nelle politiche degli Stati, ma anche in alcune comunità parrocchiali che vedono minacciata la tranquillità tradizionale.

Di fronte a tali questioni, come può agire la Chiesa se non ispirandosi all’esempio e alle parole di Gesù Cristo? La risposta del Vangelo è la misericordia.

In primo luogo, essa è dono di Dio Padre rivelato nel Figlio: la misericordia ricevuta da Dio, infatti, suscita sentimenti di gioiosa gratitudine per la speranza che ci ha aperto il mistero della redenzione nel sangue di Cristo. Essa, poi, alimenta e irrobustisce la solidarietà verso il prossimo come esigenza di risposta all’amore gratuito di Dio, «che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5). Del resto, ognuno di noi è responsabile del suo vicino: siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle, ovunque essi vivano. La cura di buoni contatti personali e la capacità di superare pregiudizi e paure sono ingredienti essenziali per coltivare la cultura dell’incontro, dove si è disposti non solo a dare, ma anche a ricevere dagli altri. L’ospitalità, infatti, vive del dare e del ricevere.

In questa prospettiva, è importante guardare ai migranti non soltanto in base alla loro condizione di regolarità o di irregolarità, ma soprattutto come persone che, tutelate nella loro dignità, possono contribuire al benessere e al progresso di tutti, in particolar modo quando assumono responsabilmente dei doveri nei confronti di chi li accoglie, rispettando con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del Paese che li ospita, obbedendo alle sue leggi e contribuendo ai suoi oneri. Comunque non si possono ridurre le migrazioni alla dimensione politica e normativa, ai risvolti economici e alla mera compresenza di culture differenti sul medesimo territorio. Questi aspetti sono complementari alla difesa e alla promozione della persona umana, alla cultura dell’incontro dei popoli e dell’unità, dove il Vangelo della misericordia ispira e incoraggia itinerari che rinnovano e trasformano l’intera umanità.

La Chiesa affianca tutti coloro che si sforzano per difendere il diritto di ciascuno a vivere con dignità, anzitutto esercitando il diritto a non emigrare per contribuire allo sviluppo del Paese d’origine. Questo processo dovrebbe includere, nel suo primo livello, la necessità di aiutare i Paesi da cui partono migranti e profughi. Così si conferma che la solidarietà, la cooperazione, l’interdipendenza internazionale e l’equa distribuzione dei beni della terra sono elementi fondamentali per operare in profondità e con incisività soprattutto nelle aree di partenza dei flussi migratori, affinché cessino quegli scompensi che inducono le persone, in forma individuale o collettiva, ad abbandonare il proprio ambiente naturale e culturale. In ogni caso, è necessario scongiurare, possibilmente già sul nascere, le fughe dei profughi e gli esodi dettati dalla povertà, dalla violenza e dalle persecuzioni.

Su questo è indispensabile che l’opinione pubblica sia informata in modo corretto, anche per prevenire ingiustificate paure e speculazioni sulla pelle dei migranti.

Nessuno può fingere di non sentirsi interpellato dalle nuove forme di schiavitù gestite da organizzazioni criminali che vendono e comprano uomini, donne e bambini come lavoratori forzati nell’edilizia, nell’agricoltura, nella pesca o in altri ambiti di mercato. Quanti minori sono tutt’oggi costretti ad arruolarsi nelle milizie che li trasformano in bambini soldato! Quante persone sono vittime del traffico d’organi, della mendicità forzata e dello sfruttamento sessuale! Da questi aberranti crimini fuggono i profughi del nostro tempo, che interpellano la Chiesa e la comunità umana affinché anch’essi, nella mano tesa di chi li accoglie, possano vedere il volto del Signore «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2 Cor 1,3).

Cari fratelli e sorelle migranti e rifugiati! Alla radice del Vangelo della misericordia l’incontro e l’accoglienza dell’altro si intrecciano con l’incontro e l’accoglienza di Dio: accogliere l’altro è accogliere Dio in persona! Non lasciatevi rubare la speranza e la gioia di vivere che scaturiscono dall’esperienza della misericordia di Dio, che si manifesta nelle persone che incontrate lungo i vostri sentieri! Vi affido alla Vergine Maria, Madre dei migranti e dei rifugiati, e a san Giuseppe, che hanno vissuto l’amarezza dell’emigrazione in Egitto. Alla loro intercessione affido anche coloro che dedicano energie, tempo e risorse alla cura, sia pastorale che sociale, delle migrazioni. Su tutti imparto di cuore la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 12 settembre 2015

Memoria del Santissimo Nome di Maria

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Introduzione Teologico-Pastorale

Chiamati per annunziare a tutti le opere meravigliose di Dio
(cfr 1 Pietro 2, 9)

Il fonte battesimale più antico che si trova in Lettonia risale al tempo di san Meinardo, il grande missionario evangelizzatore di questa nazione. Originariamente era situato nella cattedrale di Ikšķile, oggi si trova nella Cattedrale luterana di Riga, la capitale del Paese. La posizione del fonte battesimale, così vicina all’adornato pulpito della cattedrale, esprime chiaramente sia la relazione fra il Battesimo e l’annuncio, che la chiamata, comune a tutti i battezzati, di “annunziare le opere meravigliose” del Signore. Questo appello costituisce il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani del 2016. Ispirati dal brano dellaPrima Lettera di Pietro, i membri delle varie chiese cristiane lettoni hanno preparato i testi per la Settimana.

L’evidenza archeologica suggerisce che il cristianesimo sia stato introdotto nella Lettonia orientale nel X secolo dai missionari bizantini. La maggior parte dei documenti, tuttavia, fa risalire  le origini cristiane della Lettonia al XII e XIII secolo, grazie all’opera missionaria di San Meinardo e, successivamente, di altri missionari germanici. La capitale, Riga, fu una delle prime città ad adottare le idee di Lutero nel XVI secolo. Nel XVIII secolo missionari Moravi (Herrnhut Brethern) diedero nuovo impulso e approfondirono la fede cristiana nei secoli. I loro discendenti avrebbero avuto un ruolo di primo piano nel porre le fondamenta dell’indipendenza nazionale nel 1918.

Il passato, con i suoi periodi di conflitto e di sofferenza, ha avuto conseguenze visibili nella vita della Lettonia di oggi. È una triste circostanza che l’uso della forza ad opera di alcuni dei primi missionari e dei crociati diedero una contro-testimonianza al messaggio del Vangelo. Nel corso dei secoli, la terra di Lettonia è stata teatro di scontri religiosi e politici ad opera di vari poteri nazionali e confessionali. L’avvicendarsi dei poteri politici in diverse parti del Paese ha spesso avuto la conseguenza di un cambiamento dell’appartenenza confessionale delle persone. Oggi, la Lettonia è un crocevia dove si intersecano regioni cattoliche, protestanti e ortodosse.

La Lettonia è esistita come stato dal 1918 fino al 1940 nella scia della Prima Guerra mondiale e della caduta degli impero russo e germanico. La Seconda Guerra mondiale e le decadi che si sono succedute, con le ideologie totalitarie atee – il Nazismo e il Comunismo – hanno portato devastazione alla terra e alla popolazione della Lettonia, fino alla caduta dell’Unione Sovietica nel 1991. In quegli anni i cristiani sono stati uniti in una comune testimonianza al Vangelo – anche fino al martirio.

Il Bishop Sloskans’ Museum in Lettonia raccoglie questa comune testimonianza custodendo un elenco di cristiani martirizzati, appartenenti alle Chiese ortodosse, luterane, battiste e cattoliche. I cristiani scoprirono la loro comune partecipazione al “popolo regale di sacerdoti” di cui parla l’apostolo Pietro, anche attraverso torture prolungate, esilio e morte a causa della loro fede in Gesù Cristo. Questo legame nella sofferenza ha creato una profonda comunione fra i cristiani di Lettonia, mediante la quale hanno riscoperto il loro sacerdozio battesimale, e in esso poterono offrire le loro sofferenze in unione con le sofferenze di Gesù, per il bene del prossimo.

L’esperienza di pregare e cantare insieme – incluso l’Inno nazionale Dio benedica la Lettonia –, ebbe un’importanza notevole nella riconquista dell’indipendenza della Lettonia nel 1991. Ferventi preghiere per la libertà furono elevate in molte chiese in tutta la città. Uniti nel canto e nella preghiera, cittadini indifesi costruirono barricate nelle strade della Lettonia e rimasero fianco a fianco in sprezzo dei carri armati sovietici.

L’oscurità dei totalitarismi del XX secolo, tuttavia, ha reso molte persone indifferenti alla verità su Dio Padre, sulla Sua rivelazione in Gesù Cristo e sulla potenza vivificatrice dello Spirito Santo. Ma il periodo post-sovietico è stato un periodo di rinnovamento per le chiese. Molti cristiani oggi si riuniscono per pregare in piccoli gruppi e durante celebrazioni ecumeniche. Consapevoli che la luce e la grazia di Cristo non hanno ancora pervaso e trasformato tutte le persone in Lettonia, i cristiani vogliono lavorare e pregare insieme affinché le ferite storiche, etniche, ideologiche che ancora deturpano la società possano essere guarite.

La chiamata ad essere “popolo di Dio”

L’apostolo Pietro si rivolge ai cristiani dicendo che, nella loro ricerca di senso prima del loro incontro con il Vangelo, essi non erano un popolo. Ma, attraverso la chiamata ad essere il “popolo che Dio ha acquistato per sé”, hanno ricevuto la potenza della salvezza di Dio in Cristo Gesù, sono diventati il “popolo di Dio”. Questa realtà è espressa nel Battesimo, comune a tutti i cristiani, nel quale siamo rinati dall’acqua e dallo Spirito (cfr. Gv 3, 5). Nel Battesimo moriamo al peccato per risorgere con Cristo ad una nuova vita di grazia in Dio. Rimanere in questa nuova identità in Cristo è una sfida permanente e quotidiana.

  • Come comprendiamo la nostra comune chiamata ad essere “popolo di Dio”?
  • Come esprimiamo la nostra identità battesimale come “popolo regale di sacerdoti”?

In ascolto delle “opere meravigliose” di Dio

Il Battesimo ci apre ad un nuovo emozionante cammino di fede che unisce ogni nuovo cristiano con il popolo di Dio attraverso tutte le epoche. La parola di Dio – le Scritture su cui cristiani di tutte le tradizioni pregano, studiano e riflettono – è il fondamento della reale, seppure incompleta comunione. Nei testi della Bibbia che abbiamo in comune, ascoltiamo gli atti salvifici di Dio nella storia della salvezza, come la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, ela grande opera meravigliosa di Dio: la resurrezione di Gesù dai morti, che ha dato accesso a tutti noi alla nuova vita; oltre a ciò, la lettura della Bibbia, in atteggiamento di preghiera, porta i cristiani a riconoscere le opere meravigliose di Dio anche nella loro vita.

  • In quale modo ci accorgiamo e rispondiamo alle “opere meravigliose di Dio” nel culto e nella preghiera, nell’azione in favore della giustizia e della pace?
  • In quale modo valorizziamo la Scrittura quale Parola che dà vita, che ci chiama ad una maggiore unità e ad una più grande missione?

Responso e annuncio

Dio ci ha scelti non come un privilegio: ci ha resi santi non nel senso che i cristiani sono più virtuosi degli altri; ci ha scelti per raggiungere uno scopo. Siamo santi solo nella misura in cui siamo impegnati nel servizio a Dio, che è sempre quello di portare il suo amore a tutte le persone. Essere un popolo di sacerdotale significa essere al servizio del mondo. I cristiani vivono la loro chiamata battesimale e rendono testimonianza alle opere meravigliose di Dioin molti modi:

Sanando le ferite: le guerre, i conflitti e gli abusi hanno ferito la vita del popolo lettone, e di molti altri paesi, a livello emotivo e relazionale. La grazia di Dio ci aiuta a chiedere perdono per gli ostacoli che impediscono la riconciliazione e la guarigione, a ricevere misericordia, e a crescere nella santità.

Ricercando la verità e l’unità: la consapevolezza della nostra comune identità in Cristo ci chiama ad adoperarci per rispondere alle questioni che ancora dividono i cristiani. Siamo chiamati, come i discepoli sulla strada di Emmaus, a condividere le nostre esperienze e a scoprire così che, nel nostro comune pellegrinaggio, Gesù Cristo è in mezzo a noi.

Impegnandosi attivamente per promuovere la dignità umana: i cristiani, che sono stati condotti “fuori dalle tenebre” verso la “luce meravigliosa” del Regno, riconoscono la straordinaria dignità di ogni vita umana. Attraverso progetti comuni di servizio sociale e caritativo, siamo inviati a raggiungere i poveri, i bisognosi, le persone affette da dipendenze e gli emarginati.

  • Considerando il nostro impegno per l’unità dei cristiani, di che cosa dovremmo chiedere perdono?
  • Conoscendo la misericordia di Dio, come ci adoperiamo per progettI sociali e caritatevoli con altri cristiani?

Presentazione del materiale

La celebrazione ecumenica usa dei simboli: una Bibbia, una candela illuminata, e il sale per esprimere visivamente le “opere meravigliose” che, come cristiani battezzati, siamo chiamati ad annunciare al mondo. Sia la luce che il sale sono immagini che Gesù usa nel suo Discorso della Montagna (cfr. Mt 5, 13-16). Queste immagini descrivono la nostra identità cristiana: “Siete voi il sale… Siete voi la luce” e descrivono la nostra missione: “sale del mondo… luce del mondo”.

Il sale e la luce sono immagini di ciò che i cristiani devono dare agli uomini e alla donne nel nostro tempo: noi attingiamo ad una parola di Dio che dà sapore alla vita spesso senza significato e vuota; e noi attingiamo a una parola che guida e aiuta le persone a vedere e comprendere se stesse nel mondo.

È stato chiesto a rappresentanti di vari progetti ecumenici in Lettonia di riflettere su un tema specifico richiesto e di portare la loro esperienza di lavoro insieme. Le loro riflessioni costituiscono la base del materiale offerto per ciascuno degli Otto giorni della Settimana di preghiera.

 

 

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